A quarant’anni ho deciso
di concedermi il tempo di camminare. E ci ho preso subito gusto, favorito dalla sopravvivenza nella mia zona di scampoli di campagna residua che mi offrono
l’opportunità di fare lunghe passeggiate senza incontrare anima viva, che è una
discreta terapia per la sopravvivenza. Potrei seguirla anche chiudendomi in casa, ma non sarebbe la stessa cosa: si ha
bisogno di aria e di spazio per sentirsi vivi, e della compagnia silenziosa
delle cose. Poi posso tornare tra la gente come se niente fosse, un uomo
gentile e cordiale. Paziente.
Una bella domenica autunnale,
nella tarda mattinata, dopo un’abbondante colazione e una bella sigaretta,
appena lasciate alle spalle le ultime case ho imboccato per puro capriccio una
stradina che ero convinto terminasse di lì a poco in qualche campo, nei pressi
di un canale che di solito attraversavo più a nord, sull’unico ponte di mia
conoscenza. Invece la stradina si snodava per tre chilometri ai piedi di uno
zoccolo di pianura, che nei tempi antichi probabilmente era il bordo di un lago
formato dal fiume che bagna il mio paese, fino a una cascina quasi addossata al
terrapieno del canale e seminascosta dalla vegetazione che vi sorgeva ancora
molto frondosa. Poco prima della cascina, una deviazione piegava tra gli
alberi, dove si intravedeva un ponticello di cemento largo non più di un metro
che immetteva su un sentiero che si inoltrava nell’aperta campagna. Mi è venuta
allora l’idea di non abbandonare, per quel giorno, le carraie usate solo dai
contadini e con mia sorpresa mi sono accorto che potevo proseguire
indefinitamente senza attraversare quasi mai strade più ampie o asfaltate, come
se i miei passi, negli interstizi della consueta geografia, ne cucissero una
diversa, autonoma e parallela anche sotto l’aspetto temporale.
E indefinitamente ho proseguito,
per vedere dove sarei arrivato. Ho fatto una breve sosta attorno alle due per
mangiare il panino e il frutto che avevo messo nelle ampie tasche della mia
giacca da passeggio, e per il resto ho camminato di buona lena, spensierato,
guardandomi attorno con entusiasmo crescente a ogni angolo nuovo che
incontravo, fino a quando, poco prima del tramonto, non ho sentito che le gambe
stentavano a rispondermi, gonfie di acido lattico. Mi sono fermato e, mentre mi
accorgevo di ignorare dove fossi, sono rabbrividito, non tanto al pensiero di
non trovare la strada per il ritorno, perché conosco bene la mia zona e per
orientarmi sarebbe bastato raggiungere i paraggi di qualche centro abitato,
anche se il buio mi avrebbe creato qualche problema, quanto a quello della
fatica e del tempo che mi sarebbero occorsi. Il mattino successivo mi attendeva
un impegno inderogabile e non è mia abitudine presentarmi al lavoro in
condizioni meno che decenti. Di chiedere un passaggio tuttavia, o chiamare un
taxi o un conoscente qualsiasi perché mi raggiungesse alla prima casa che avrei
incontrato, non mi sfiorava nemmeno l’idea. Mi sono quindi seduto contro un
albero per prendere fiato e fare qualche esercizio per sciogliere i muscoli, ho
mangiato una barretta di cioccolato e dato fondo alla borraccia che avevo a
tracolla e dopo un po’ ho ripreso la marcia, lentamente e con tenacia. Ma non
ci è voluto molto perché la stanchezza tornasse ad assalirmi; e se da una parte
ero troppo stanco per continuare a camminare, dall’altra non volevo arrendermi.
Allora ho cominciato a volare.
Mi è venuto spontaneo; mi ero
fermato per riprendere fiato e, mentre mi voltavo ad ammirare il profilo scuro
di alcuni gelsi lungo un fosso, ho pensato: adesso volo. E l’ho fatto. Così,
come se niente fosse. Ho spiccato un saltello quasi in stile Fosbury e mi sono
ritrovato a muovermi a un metro e mezzo da terra, con la faccia rivolta verso
il cielo. L’unica sorpresa l’ho provata quando mi sono accorto di volare
all’indietro, forse a causa dello stile adottato per il salto. Ho percorso una
cinquantina di metri a modesta velocità, più o meno quella delle corsette fatte
in souplesse, e poi sono atterrato sulla schiena, morbidamente.
È stato solo dopo l’atterraggio che
lo stupore quasi mi ha paralizzato, ma non abbastanza da impedirmi di
riprovarci. Mi sono guardato attorno per controllare se ci fossero stati
testimoni e per indagare, alla scarsa luce lunare, il tragitto che mi aspettava
e gli eventuali ostacoli, e ho spiccato un nuovo salto nell’identica maniera di
prima. Per evitare inconvenienti, dato che il sentiero più in là voltava verso
il filare dei gelsi, ho scelto di sorvolare un grande prato popolato soltanto
da stoppie di granoturco. Quando è stato il momento di atterrare, dopo qualche
centinaio di metri stavolta, ho cercato istintivamente di frenare piegando le
gambe verso il basso, attento al momento in cui i piedi avrebbero raggiunto il
terreno per appoggiarli in modo saldo ma elastico, così da non ruzzolare. In
capo a pochi tentativi, durante i quali finivo per lo più seduto, sono riuscito
a fermarmi quasi alla perfezione, con tre o quattro passettini di assestamento.
Il segreto era raggiungere gradualmente una posizione perfettamente verticale,
rallentando e scendendo di quota man mano che l’inclinazione del corpo
aumentava. In tal modo, alternando voli più lunghi a brevi marce quando
scorgevo in lontananza un luogo abitato o dovevo attraversare strade
trafficate, in breve tempo (in quello che a me è parso un tempo breve) sono
arrivato alla periferia del mio paese, da dove ho raggiunto casa a piedi.
Confesso che a causa dell’ebbrezza
una volta sono finito tra i rami di un gruppo di acacie, in parte ancora
frondosi ma fitti di spine. Per fortuna ero ancora ai primi tentativi e volavo
piano e basso, così che ci ho rimesso solo qualche graffio e dei piccoli
strappi alla giacca, peraltro già trasandata. Successivamente, presa
confidenza, ho provato anche a aumentare la velocità, fino a una trentina di
chilometri orari credo, e ad alzarmi un po’ più da terra, ma mai oltre i
sei-sette metri, anche dopo aver perfezionato la fase di atterraggio.
Nonostante tutto non mi sentivo ancora sicuro, e ancor meno ero sicuro che la
facoltà di volare non sarebbe svanita da un istante all’altro, senza preavviso,
provocando una caduta rovinosa. Non sono un eroe (casomai il contrario), e
proprio non mi solleticava trovarmi con qualche osso rotto, di notte, in aperta
campagna. In realtà, appena cominci a volare ti accorgi che è come andare in
bicicletta e che sarai sempre in grado di rifarlo; a trattenermi era piuttosto
la vertigine degli inizi, quella che ti porta a esagerare, a rifarlo fino allo
sfinimento (non so se mi spiego…).
In casa, mi sono abbandonato
esausto sulla poltrona davanti al televisore con l’intenzione di seguire
qualsiasi programma fino a che non mi fossi addormentato, quasi per non pensare
a ciò che era successo. L’acido lattico un po’ l’avevo smaltito, ma in compenso
c’era ancora in giro parecchia adrenalina. Pensare alla chimica corporea può
essere consolante, a volte. Ho lasciato la mia mente fluttuare tra le immagini
del video e il basso materialismo, finché non mi sono trovato a volare verso la
cucina. Probabilmente il corpo, affamato, aveva deciso per conto suo. Meno male
che il tragitto è rettilineo e ho potuto fermarmi senza danni, né alla persona
né alle cose. Però questa intraprendenza autonoma un po’ mi ha allarmato e mi
sono ripromesso di stare più attento. Ho mangiucchiato qualcosa, sono tornato
(a piedi) alla poltrona e ho seguito un programma su un canale sportivo fino a
che sono crollato. Non ricordo di essermi coricato, ma quando è suonata la
sveglia ero nel letto col pigiama addosso e tutte le luci scrupolosamente spente.
Sono andato regolarmente al lavoro
e al ritorno mi sono dibattuto, mentre mi rassettavo, se uscire o no: ovvio che
alla fine, prima che fosse buio, ho preso la via dei campi. Per tutta la
settimana mi sono dedicato a perfezionare i vari aspetti del volo, in primo
luogo le fasi del decollo e dell’atterraggio, quindi a accelerare e rallentare
a piacimento, a scendere e a salire sfruttando ogni refolo di vento, e poi
anche in assenza di vento, eccetera. Dovendo esercitarmi al buio, non mi
allontanavo troppo dai dintorni del paese, che conosco a menadito, ma a causa
dell’inquinamento luminoso restavo sempre
entro spazi circoscritti che prima avevo ispezionato minuziosamente per
non incappare in qualche coppietta appartata o nei contadini che irrigavano di notte.
In genere sceglievo grandi campi circondati da alberi e non mi alzavo quasi mai
sopra le loro cime, e solo quando ho raggiunto una certa abilità sono entrato
in un boschetto di betulle canadesi, piantate a distanza sufficiente perché
potessi muovermi a mio agio tra l’una e l’altra, affinando cambi di direzione,
le conversioni e i movimenti laterali, come su una pista di slalom.
Nonostante tutte queste
precauzioni, è improbabile che qualcuno non mi abbia visto, magari di sfuggita,
ma la notizia non si è sparsa o non è stata creduta. A mia conoscenza c’è stato
solo un contadino che mi ha intravisto, sopra le cime degli alberi, dalla
finestra della sua camera una notte molto tiepida che provavo un’ascesa
repentina: l’uomo si era alzato a causa della cattiva digestione e, mentre
andava a cercare una pastiglia tutto
insonnolito, mi ha scoperto a volteggiare nel mio Bolscioi celeste, ma
prima ancora che si decidesse a svegliare la moglie io ero scomparso; ragion
per cui, quando ha provato a raccontarlo, lui stesso è stato il primo a non
esserne convinto e presto, su ingiunzione della moglie rafforzata da minacce
molto dettagliate, ha smesso di insistere per evitare il ridicolo. Qualcuno
però lo ha intravisto le notti successive che si aggirava per la campagna in
cerca di conferme della sua visione; se non che io avevo prudentemente diradato
le mie esercitazioni, o altrimenti andavo a farle in zone lontane che
raggiungevo in macchina, cambiando sempre destinazione.
Le notti serene guardavo le stelle
muovendomi a bassa velocità, sdraiato nell’aria. Ammetto a malincuore (perché
questo implica una significativa e prolungata omissione precedente) che era
come se le vedessi per la prima volta, e forse lo era davvero; ruotavo in
lunghi cerchi senza stancarmi di cercare le costellazioni che a casa
memorizzavo sulle mappe, o solo di ammirarle con lo stupore incantato di un
adolescente, senza i suoi interrogativi però. A restare fermo invece, librato
nell’aria, non sono mai riuscito (evidentemente la specialità è riservata ai
mistici); ci sono solo arrivato vicino, all’incirca come quando si fa il morto
in acqua, che per restare a galla basta dare ogni tanto dei colpetti con le
mani e con i piedi. È strana questa
necessità, perché altrimenti non è che ci si deve agitare in volo: solo quando
si vuole frenare, svoltare o scendere, bisogna fare qualche movimento, e anche
allora modesto, minimo, come piegare le mani e i piedi, nelle varie
combinazioni, assieme o separate, avanti o indietro, a destra, a sinistra,
verso l’alto, verso il basso, e con le differenti angolazioni. Richiedono
invece un movimento appena più accentuato delle mani l’accelerazione e la
frenata brusca, che si potrebbero effettuare anche aiutandosi con le braccia,
con un gesto un po’ plateale ma bello e rilassante. Filogenetico.
Ma più strano è che per molto
tempo, nonostante il virtuosismo conseguito, mi sia limitato a volare in
posizione supina, certo più contemplativa ma spesso scomoda, come se voltarmi
fosse impensabile. Solo per caso ho imparato a voltarmi: un giorno che ero
andato in montagna per sbizzarrirmi, mentre sorvolavo una stretta vallata sono
stato attratto dal rumore di una cascatella che non avevo visto arrivando,
forse nascosta dalla vegetazione; allora, d’istinto, ho girato la testa per guardare
e il corpo ha seguito il movimento. Per un attimo mi sono sentito disorientato,
ho perso alcuni metri di quota e ho creduto di precipitare (volavo a una
cinquantina di metri, sopra gli alberi), ma mi sono subito ripreso e poi ho
mantenuto la nuova posizione, allungando il braccio destro come Nembo Kid,
felice come una pasqua. È bello
potersi voltare, anche perché, oltre naturalmente a permetterti di controllare
sempre dove diavolo stai andando, pone rimedio a quella che è forse la maggiore
scomodità del volo supino, una certa rigidezza del collo, con compressione
delle vertebre cervicali e affaticamento dei muscoli dorsali, e conseguenti
dolori di schiena, non acuti ma noiosissimi (il che, peraltro, mi offriva la
scusa per andare a visitare una certa massaggiatrice thailandese di mia
conoscenza; ma di scuse ne potevo facilmente trovare altre).
Non è che da allora abbia
rinunciato alla posizione originaria, per la quale anzi nutro la naturale
predilezione che si prova per il primogenito: sdraiato nell’aria, le mani
dietro la nuca, uno stuzzicadenti in bocca e i piedi incrociati, me la prendo
comoda, con solo il cielo sopra di me, senza altre distrazioni. Do libero sfogo
a fantasie da perfetto fannullone, senza prestarvi troppa attenzione;
sonnecchio; canto a voce spiegata; leggo il giornale; fumo una sigaretta;
mastico caramelle o mangio dolcetti; improvviso filastrocche; imbastisco un
breve corso di nuvologia; faccio il cialtrone. Le altre posizioni hanno tutte
un che di funzionale, e col tempo ho imparato a distinguerne le sfumature e a
sfruttarle secondo le finalità del momento, incluse quelle del capriccio;
questa conserva la leggerezza e l’arbitrarietà del desiderio da cui è nata. È come incorporea: il corpo si sente così
bene che non prova il bisogno di sbandierare la propria esistenza. Nelle altre
invece, per un verso o per l’altro, qualche segnale lo manda, in particolare
nelle uniche due che ho scoperto essermi vietate, l’accartocciata e la
verticale, che trascinano verso il basso in una specie di risucchio, le prime
volte, sconvolgente. Perché poi ho finito per giovarmi anche di esse: a volte
infatti, dopo essermi portato a notevoli altezze, mi azzardavo ad assumerle per
il puro gusto della vertigine, dello smarrimento, per sollecitare appunto il corpo
in altro modo, sentire gli organi interni scombussolati, lo sfintere vicino a
trasmigrare armi e bagagli nell’intestino, i polmoni che premono come un masso
contro la gola, il cervello ridotto a un foglio (bianco) incollato alla calotta
cranica; ma all’inizio non era raro che mi ritrovassi a vomitare, il respiro
latitante e la testa che vagolava per proprio conto, col rischio di non
riuscire più a controllare la caduta e a riprendere il volo. E siccome la
ripetizione mi annoia (al pari degli eccessi), ho smesso molto presto.
Con l’approssimarsi dell’inverno
si è posto il problema del vestiario. Mentre scemava l’entusiasmo iniziale che
mi rendeva tollerabile ogni disagio, il freddo ha preso a penetrarmi le ossa,
una volta fino al limite del congelamento, con conseguenti difficoltà nelle
operazioni di volo. Il mio guardaroba si è subito rivelato inadeguato, perché
non potevo certo volare infagottato, con tre magliette e due mutandoni di lana,
due paia di guanti e altrettanti maglioni, cappotto mistocachemir, borsalino e
compagnia bella (per la verità ci ho provato, e non sarebbe bastata la
goffaggine dei risultati, sia detto a mia eterna ignominia, a indurmi a
desistere, se non avessi incontrato gravi ostacoli sia in fase di decollo e
atterraggio sia a mantenere una decente velocità di crociera, perché l’aria che
si insinuava nei vari strati degli abiti mi frenava, facendomi perdere
progressivamente quota); così mi sono dovuto procurare un equipaggiamento di
tute, calzature, guanti, tessuti di microfibre, berretti e maschere, da
spedizioni artiche e himalayane, il più leggero e meno ingombrante possibile:
tutta roba molto costosa e che inoltre, superate una certa velocità e una certa
altezza, a più di tanto non serviva (tenendo anche conto del mio fisico non
certo da grande atleta).
Ho preso in considerazione
l’ipotesi di trasferirmi ai tropici o in qualche paese subsahariano, ma a fare
che? Se fosse servito a qualcosa, che so?, a migliorare la mia vita o quella
degli altri, d’accordo; ma subordinare ogni mia scelta alla facoltà di volare
sarebbe stata una sciocchezza. Non sono un fanatico. Volare sembra chissà che,
e in un certo senso lo è, ma quando lo fai abitualmente alla lunga è solo
volare. I grandi viaggi sono lunghi e spossanti, data la ridotta velocità di
volo: la mia di crociera si aggira tra i quaranta e cinquanta orari, con
punte attorno ai sessanta che però non
sono in grado di mantenere per più di un quarto d’ora (forse dipende dai miei
scarsi requisiti, non saprei); non ci si può caricare di oggetti troppo
pesanti, al massimo uno zainetto o un bagaglio a mano, perché altrimenti si
cade; e pertanto non sono moltissime anche le cose che si possono fare mentre
si vola, se non ci sono ostacoli di mezzo. Si può leggere, scrivere,
telefonare, usare un pc portatile, fare la calza, intrecciare piccoli oggetti
di vimini e poco altro: tutta roba di poco conto insomma. Lavorare sul serio è
escluso, ammesso che uno lo voglia fare (un pazzo).
Se tutti volassero, certo si
risolverebbero molti problemi, in primo luogo quello del traffico e di
conseguenza, in parte, quello dell’inquinamento, e forse la gente, con questa
bella soddisfazione in più, sarebbe un po’ più tranquilla, meno pronta ad
attaccar briga; nondimeno, fattoci il callo, la maggior parte delle cose resterebbe
com’è: un enigma per lo più insolubile, anche se non spetta a me dirlo. Ci
sarebbe inoltre, tanto per fare qualche esempio, la soddisfazione di vedere
alcuni potentati economici abbassare un po’ le ali (eh eh); si guarderebbe
forse meno la televisione (ammesso che sul mercato non siano immediatamente
lanciati dei modelli “da volo”); l’obesità diminuirebbe; l’architettura e
l’arredamento si modificherebbero in modo sostanziale e gli urbanisti avrebbero
finalmente l’opportunità di applicarsi a qualcosa di serio e di utile, invece
di fare solo danni (ma scommetto che ci riuscirebbero lo stesso); si dovrebbe
adattare il codice della strada e riprogettare gli spazi urbani tenendo conto
del volo (ma ci sarebbero anche zone vietate, aumenterebbero forse gli
attentati e gli abbattimenti in volo sarebbero di routine, anche da parte di
qualche stordito cacciatore); l’incubo dei parcheggi diventerebbe una leggenda
metropolitana e le città guadagnerebbero molti spazi verdi (a meno che gli
sfollati non ritornino di corsa dalle periferie: con gran sollievo dei vecchi
paesani, peraltro); nessuno resterebbe più bloccato negli ascensori, perché
uffici e abitazioni avrebbero anche un accesso esterno (con guadagno dei ladri
e soprattutto dei costruttori di sistemi di sicurezza, e corrispettivo
detrimento dei giallisti e dei produttori hollywoodiani, che tuttavia sarebbero
costretti a darsi una mossa per inventare dei surrogati, purché suscettibili di
assurgere immediatamente a clichés): insomma, qualche vantaggio ne deriverebbe,
questo è sicuro, ma se la vita di qualcuno è di merda, come pare succeda,
dubito che subirebbe qualche essenziale trasmutazione alchemica. Volare è
sempre meglio di un calcio nel sedere, comunque.
Comunque questi interrogativi li
ho rinviati a più tardi. Convinto che la facoltà di volare fosse solo mia,
nonostante sia un chiacchierone e come tutti mi piaccia essere ammirato, ho
cercato di evitare ogni pubblicità. Un segreto! Non stavo nella pelle dalla
voglia di spiattellarlo a qualcuno: mi figuravo le mille varianti della
rivelazione, le strategie retoriche a seconda dei casi, i preamboli o la frase
buttata lì come per caso, oppure che mi sarei semplicemente alzato da terra
senza profferir verbo volteggiando attorno all’interlocutore allibito (questo
coup de théatre, nelle mie fantasie più faraoniche, lo avrei però riservato
alle belle donne, confidando nel suo potere seduttivo, in assenza di uno mio);
eppure sono riuscito a mantenerlo.
Ero orgoglioso di me, e questa
soddisfazione compensava tutte quelle a cui rinunciavo con il silenzio. Non è
che mi capiti tutti i giorni di esserlo. Tuttavia a trattenermi era più che
altro il pensiero dei fastidi che la sua divulgazione mi avrebbe rovesciato
addosso; non riuscivo a immaginare quali e quanti sarebbero stati, figurarsi se
avrei saputo superarli. Essendo la cosa più grande di me, la pubblicità avrebbe
provocato certamente effetti che non sarei stato in grado di controllare, e se
da un lato la mia libertà avrebbe subito restrizioni, cosa che bene o male
avrei potuto sopportare, dall’altro temevo che la mia stessa sopravvivenza
avrebbe corso dei pericoli. Non mi sentivo pronto al trapasso, e non credo che
lo sarò mai. La vita mi piace troppo. Adoro il mondo.
Del resto, non ho avuto nemmeno il
tempo di prendere in esame le varie implicazioni perché una notte è venuta a
farmi visita in camera della gente mascherata, che mi ha imbavagliato prima che
potessi aprir bocca, mi ha narcotizzato, legato come un salame e portato via
senza che nessuno se ne accorgesse. Qualcuno ha persino chiuso a chiave la
porta e tanti saluti. I miei vicini, coi quali di rado ho scambiato più di tre
parole, non vedendomi hanno certamente creduto che fossi partito in vacanza o
per uno di quei noiosissimi viaggi di lavoro che ogni tanto mi dovevo sorbire;
in ditta hanno invece pensato a un colpo di testa, che qualcuno ha giurato di
essersi sempre aspettato da un momento all’altro da un tipo come me (perché,
che tipo sono io? se qualche stranezza mi si può attribuire, quale però non saprei,
non si discosta da quelle che tutti manifestano agli occhi degli altri: banale
e stupida quanto incomprensibile) e soltanto quattro o cinque tra lontani
parenti e amici, coi quali peraltro avevo allentato i rapporti da tempo,
all’inizio mi hanno cercato senza troppo insistere.
Quella che ha avuto più sospetti e
non ha mai smesso di indagare su di me è stata una collega con la quale avevo
avuto una breve relazione, terminata, credevo, per volontà più sua che mia e
senza strascichi di sorta, tanto che avevamo conservato rapporti amichevoli,
senza nessuno sforzo da parte mia e nemmeno da parte sua, con mio discreto
stupore, trattandosi di una donna (per il poco che ne so, ti serbano rancore
anche quando a lasciarti sono loro, se non ti dimostri affranto per la perdita
ogni volta che le incroci). È
persino andata alla polizia, dove, non essendo né mia parente né altro, è stata
trattata con cortese ironia: lei che credeva che gli investigatori dotati di
umorismo fossero confinati ai libri. La vita è piena di sorprese. Quando ho
saputo di questa sua tenacia (di questa sua affezione), una vampata di calore
mi ha gonfiato il cuore; l’ho cercata e ho scoperto che aveva accettato il
trasferimento, con promozione, presso la sede centrale e che si era sposata. Eh
sì, la vita riserva sempre sorprese.
Quando mi sono svegliato ero nudo,
completamente rasato e depilato, legato a un lettino con dentro e addosso tutto
un armamentario di aghi, cannucce, sonde e elettrodi che andavano a finire in
monitor e macchinari che nessuno controllava di persona. Erano connessi senza
dubbio a dei terminali situati in un locale adiacente, separato dal mio da una
parete composta per metà di un grande vetro a specchio, dietro il quale chissà
chi mi stava sorvegliando. Mi sono riaddormentato e svegliato per brevi
intervalli non so per quanti giorni, finché non mi sono ritrovato, sempre nudo
ma sotto un lenzuolo, in un’ampia cella molto alta e ben riscaldata il cui
unico mobilio, oltre al letto in cui giacevo finalmente libero di muovermi, consisteva
in un wc, in un lavabo e, molto probabilmente, in microtelecamere mimetizzate
nei muri e nel soffitto. Sono rimasto per alcuni minuti a guardarmi attorno e
poi mi sono alzato e ho abbozzato un paio di esercizi per sgranchirmi i
muscoli, leggeri, perché mi sentivo piuttosto debole. Se mi sono chiesto dove
ero, che cosa ci facevo lì e chi mi ci aveva portato e perché, dev’essere stato
solo per un attimo, dal momento che non ricordo niente né del disorientamento
né del panico che comportano abitualmente domande metafisiche di questo
calibro. Probabilmente ho capito subito che sforzarmi sarebbe stato inutile e
ho rinunciato ad arrovellarmi a vuoto: quello che avrei potuto sapere me lo
avrebbe comunicato a suo tempo e luogo chi mi aveva sequestrato.
Dopo qualche ora, da uno sportello
rasoterra la cui apertura era manovrabile solo dall’esterno è passato un
vassoio, fatto di qualche carta speciale come le stoviglie, il coltello e la
forchetta, con cibo e bevande. Acqua, vino rosso, spezzatino e spaghetti.
Spaghetti al pomodoro fresco con due foglioline di basilico! Che meraviglia! Ho
mangiato tutto di gusto, senza preoccuparmi che potesse essere drogato, e così
ho fatto anche nei giorni seguenti. Dedicavo il tempo da sveglio a camminare
tranquillo e a esercizi ginnici, i pochi che conoscevo e ero in grado di
sostenere. Pensare, il meno possibile; immaginare, meno ancora. Volare,
assolutamente niente. Non ho neppure tentato di verificare se ne ero ancora
capace: lo sapevo e basta.
Assieme al cibo, un giorno è
filtrato dallo sportello un sacchetto di cellofan contenente degli abiti:
mocassini, pantaloni e casacca, tutto di tela color cielo (niente mutande,
chissà perché). Ho aspettato un po’ a indossarli, tanto per lasciare in sospeso
i miei sorveglianti, e infine, sorridendo tra me e me, mi sono vestito e
avvicinato alla porta, che si è immediatamente aperta. Ad aspettarmi c’erano
due signori dai modi gentili che mi hanno invitato a seguirli in un italiano
pressoché perfetto (ammesso che qualcuno sappia com’è) e senza particolari
inflessioni. Io non ho detto niente: non per dispetto, ma perché non avevo
niente da dire. E poi fatico sempre, all’inizio, a conversare con gli estranei;
in compenso, una volta cominciato fatico a smettere. Mi hanno guidato
attraverso lunghi corridoi deserti e silenziosi finché si sono fermati davanti
a una porta. La porta si è aperta, io sono entrato e loro sono spariti.
Nella stanza c’erano tre persone
dalla diversa tipologia fisica e, come poi ho scoperto, mentale, che mi hanno
fatto accomodare su una seggiola pieghevole e, non prima di essersi informati
come stavo (Benissimo, grazie), hanno cominciato a chiedermi alcune cose
banali. Ho risposto a tutte le domande in modo schietto e esauriente: del resto
erano facilissime e quasi tutte dal soggetto estremamente interessante, cioè il
sottoscritto. Mi ha fatto anche piacere che fossero così informati sul mio
conto: semplici dati, è vero, senza sfumature ideologiche o morali, però tanto
minuziosi da risultare in qualche modo affettuosi (o almeno è così che li ho
interpretati io: è sempre gratificante verificare che interessi a qualcuno. Mi
hanno congedato dopo un’oretta. Forse temevano di stancarmi. Fuori dalla porta
sono ricomparsi i due di prima che mi hanno riaccompagnato, stavolta in
silenzio, al mio alloggio. Li ho salutati come vecchi amici.
Questa routine è durata per un
paio di settimane: le domande diventavano man mano più complicate, alcune erano
persino buffe a mio modo di intendere (per esempio: Ero stato rapito dagli Ufo,
o lo credevo o lo avevo sognato? Risposta: No. Aggiunta non richiesta: Non
credo agli Ufo né ad alcunché d’altro. Scambio di sguardi dei miei
interlocutori. Timido sorrisino mio), ma che in ogni caso non erano mai al di
sopra della mia mediocre portata. Quando non sapevo cosa rispondere o avevo
qualche dubbio derivante da eccessiva distanza temporale o da esperienze che
scioccamente avevo considerato secondarie e quindi dimenticato, lo ammettevo
senza timore. Se sostenevano che era impossibile che non lo sapessi o me ne
fossi dimenticato, mi applicavo coscienziosamente e una cosuccia o l’altra mi
tornava in mente. Niente che avrebbe cambiato la mia cognizione dell’esistenza
comunque. Questo loro desiderio di fare luce su ogni dettaglio della mia vita
mi commuoveva e io cercavo di venirgli incontro con tutto me stesso. Ah, ho
detto la mia su tutto e tutti, e quando c’era da andar giù pesante non mi sono
risparmiato! In più di un caso li ho fatti ridere (era gente alla buona), e
solo raramente invece li ho fatti arrabbiare, senza alcuna mia intenzione
peraltro. In genere, credo che fossero soddisfatti di me, perché non mi hanno
mai punito né somministrato farmaci (che io sappia, almeno). Per quanto strano
possa sembrare, sono certo che si fidavano di me.
Nelle occasioni in cui si sono
arrabbiati, manco a dirlo, le domande concernevano il volo; in un caso mi sono
arrabbiato anch’io (Se vi dico che non lo so come faccio a volare, vuol dire
che non lo so, porcaccia la miseriaccia!). Con il tempo, e nonostante i miei
propositi iniziali, ho ceduto a tutte le loro insistenze e alla fine ho persino
accondisceso a dare qualche dimostrazione e a permettere che mi monitorassero
in lungo e in largo: alla gentilezza non so resistere. Con quali risultati lo
ignoro, perché, una volta appurato per la millesima volta che non avevo
informato nessuno delle mie doti, che non avevo documenti che testimoniassero
le mie facoltà (a parte quelli in loro possesso), che non avevo intenzioni
bellicose o qualsivoglia progetto di sfruttamento di quello che loro chiamavano
il mio potere, che non ero affiliato a nessuna associazione o partito e via di
questo passo, per un certo periodo mi hanno lasciato in pace, tanto che pensavo
che si fossero dimenticati di me.
Per riempire le lunghe giornate di
segregazione ho chiesto e ottenuto che mi fosse dato qualcosa da leggere. I
libri li sceglievano loro, a caso, saccheggiando le loro bibliotechine
domestiche o su consiglio di mogli e amanti, che notoriamente hanno un sacco di
tempo da gettare, o più probabilmente con criteri sperimentali che mi
sfuggivano, magari con l’intento di studiare le mie reazioni alle diverse
tipologie: che so? fantascienza, gialli, romanzi storici o di costume; tutti
comunque di autori a me sconosciuti, perché al di fuori dell’aggiornamento per
il mio lavoro di solito leggevo pochissimo, e tutti, senza distinzione,
ugualmente belli, interessanti e divertenti, con mio grande stupore. Non
sospettavo che il mondo rigurgitasse di tanto talento. Mi avevano dato persino
del materiale per scrivere, ma non l’ho mai usato se non per fare scarabocchi
volutamente insensati e contraddittori che poi affidavo alla loro giusta
destinazione, il water. Non dubito che attraverso i monitor i miei sorveglianti
e i loro collaboratori li abbiano registrati e studiati minuziosamente: il
pensiero delle loro eventuali deduzioni mi ha fatto molta compagnia.
Periodicamente, forse in seguito
ai risultati più recenti delle loro indagini, tornavano alla carica con inedite
strampalate richieste che esaudivo con la solita cortesia, e poi mi lasciavano
di nuovo in pace. Credo che finii per essere dimenticato sul serio. Finché un
giorno, dopo molti mesi o forse un paio d’anni, non mi hanno liberato, non
senza avermi calorosamente ringraziato della mia collaborazione. Sono stato di
nuovo narcotizzato e riportato, ancora di notte e furtivamente, a casa mia.
Nella tarda mattinata successiva
sono stato svegliato come dal brusio di una folla educata ma impaziente. Quando
ho acceso la luce, si è levato un boato seguito da un lungo applauso. Ho
pensato che la sordità della mia vicina, che si degna di tenermi costantemente
informato sulle sue preferenze musicali e televisive, fosse peggiorata e,
scuotendo la testa, sono andato in bagno. Appena accesa la luce del bagno il
boato, come se fosse connesso agli interruttori, si è trasformato in un urlo da
stadio che scandiva il mio nome. Il mio nome proprio!, indice di una
familiarità di cui ignoravo l’origine. Un po’ eccessiva però per la mia
riservatezza, anche se appena adeguata per la mia megalomania, di solito
contenuta e ben mascherata.
Con questo accompagnamento che
l’acqua corrente non riusciva a sovrastare, ho fatto la doccia e poi la barba.
Quindi mi sono asciugato i capelli, pettinato, profumato e, infine, vestito con
uno dei vecchi abiti trovati nell’armadio così come li avevo lasciati (solo
impregnati di odore di chiuso e forse impolverati: difetto a cui ho rimediato
con una nuova spruzzata di profumo). Quando sono andato in cucina per farmi un caffè
e ho alzato la persiana della porta che dà sul balcone, il boato è cresciuto
ulteriormente. Allora ho scostato la tenda per dare un’occhiata: santo cielo!,
la palazzina era circondata da una folla enorme, tenuta indietro a fatica dalle
forze dell’ordine e da automezzi di ogni genere, da cui spuntavano antenne e
gente con cuffie e microfoni e telecamere orientate verso il mio appartamento.
Sono corso all’ingresso e ho sbirciato dallo spioncino: davanti alla porta
c’erano altri gendarmi e il corridoio era intasato dai miei vicini accompagnati
da vari parenti (loro).
In breve: era grazie a tutta
quella gente che ero stato liberato. Pare che qualcun altro fosse in possesso
di filmati che mi riguardavano (pur con tutta la mia paranoia, avevo trascurato
l’esistenza dei satelliti spia); probabilmente costoro avevano su di me le
stesse mire dei miei sequestratori e hanno cercato di mettersi in contatto con
loro per spartire le informazioni, ma, vistesele negare e vistisi persino
negare che ero nelle loro mani, hanno divulgato tutto il materiale di cui
disponevano; loro, o qualche cane sciolto che ha aperto il rubinetto di sua
iniziativa, così che gli altri non hanno potuto che seguirne l’esempio.
C’è stata una campagna di stampa;
sono spuntati parenti, amici, conoscenti, excompagni di scuola, dall’asilo in
su, che si sono fatti miei paladini, disseppellendo ricordi e notizie la cui
veridicità mi sono ben guardato dal controllare; mi sono state dedicate
trasmissioni televisive, siti internet, servizi di ogni genere, con grande
spargimento di sapienza da parte di studiosi di ogni disciplina ma tutti
ferrati in mestessologia; infine sono sorte sette new age che mi hanno eletto
loro profeta, presto divise in fazioni in lotta per l’ortodossia o per
l’ufficialità della denominazione e dei marchi. I membri di alcune tribù del
deserto, notoriamente più visionarie delle popolazioni stanziali, hanno giurato
di avermi visto che accompagnavo in volo le loro migrazioni; le santerie
brasiliane e caraibiche hanno subito sintetizzato la mia immagine con quella di
alcuni potenti demoni di cui hanno l’esclusiva; un grande psicanalista
junghiano mi ha salutato come la più attendibile reincarnazione del trikster
archetipico; alcune decine di persone si sono ferite gravemente, e quattro
purtroppo sono morte, cercando di imitarmi. E adesso tutti erano lì fuori (a
parte i quattro sciagurati) a pretendere il conto.
Intanto il caffè era traboccato
dalla cuccuma: ho bevuto il poco che era rimasto, dal sapore bruciaticcio e
ammuffito, e poi ho scostato un po’ la porta richiamando l’attenzione dei
gendarmi che vi stavano quasi spiaccicati contro. Ne ho fatti entrare due e ho
chiesto lumi su ciò che potevo fare per evitare tutta quella ressa. Loro hanno
chiamato rinforzi e, facendomi scudo, mi hanno scortato verso un mezzo
corazzato che stazionava nel parcheggio condominiale.
Nonostante il cordone protettivo,
ho corso il rischio di venire travolto, ragion per cui ho mulinato le mani per
farmi spazio. Immediatamente alcuni dei più vicini si sono lasciati cadere in
ginocchio, ringraziandomi per la benedizione, altri hanno fatto il segno della
croce o baciato la terra che avevo calpestato, e un piccolo gruppo ha intonato
un inno in cui ricorreva il mio nome, con un flebile coro che si è propagato a tutta
la folla, o quasi, come a un concerto rock. Non ho visto fiammelle di accendini
o candele agitarsi nell’aria; forse perché c’era un sole caldo, e pure
abbagliante. Quindi era estate.
Devo dire che la polizia italiana
mi ha protetto come meglio non si sarebbe potuto. Mi ha portato in una località
segreta e informato di quanto era successo. Io ho informato loro per filo e per
segno di quanto era successo a me e ho chiesto di organizzare alcuni incontri
con la stampa e gli altri media, durante i quali ho negato risolutamente ogni
diceria apparsa su di me e sulle mie presunte facoltà. Tutte le notizie che
erano state diffuse erano pure invenzioni o vaneggiamenti, i filmati erano
tutti truccati, le testimonianze fasulle, i miei cosiddetti seguaci dei poveri
di spirito, molti dei veri e propri cretini. Chiunque chiedesse qualcosa a mio
nome era un truffatore e chiunque si proclamasse mio parente o amico un
millantatore. Ogni setta, gruppo o partito che facesse in qualsiasi modo
riferimento alla mia persona era da considerarsi a pieno titolo un’associazione
a delinquere; tutti i soldi che, come venni a sapere, erano stati depositati su
conti a me intestati andavano restituiti ai donatori o, se impossibile,
devoluti in beneficenza. Nessuno mi aveva rapito e quindi nessuno poteva
arrogarsi il merito di avermi fatto liberare: durante il periodo in cui si era
persa ogni traccia di me, mi ero semplicemente fatto i cazzi miei, come avevo
sempre fatto in passato e avevo intenzione di fare anche per il resto della mia
vita. E che mi lasciassero in pace una volta per tutte.
Per avvalorare le mie parole e
screditare ogni leggenda ho accettato di fare qualche campagna pubblicitaria,
molto ben remunerata, a prodotti scelti con cura tra i più risibili e scadenti,
con la clausola che fosse evidente e dichiarato che ogni ripresa in cui avrei
volato fosse un trucco dozzinale. I pubblicitari, gente smagata e cinica, non
hanno sollevato obiezioni di sorta: a loro bastava usarmi; esattamente quello
che bastava a me. Col ricavato mi sono sottoposto a una elaborata plastica
facciale in una riservatissima clinica, manco a dirlo svizzera (ah, gli
svizzeri!), e già che c’ero mi sono fatto dare una sistematina anche da qualche
altra parte. Dopo qualche tempo, per maggior sicurezza, sono andato in un’altra
clinica, di un altro paese, a farmi ritoccare i ritocchi. Ho approfittato della
compiacenza delle autorità locali per dotarmi di nuovi documenti adatti ai
diversi lineamenti. In qualche archivio giace persino un nuovo certificato di nascita. Adesso sono più
bello, ho un nome straniero e mi è persino avanzato un gruzzoletto che, sommato
ai precedenti risparmi, alla liquidazione e ai proventi della vendita di ogni
mia proprietà, ho investito presso una banca per puro caso svizzera e mi permette
di vivere di rendita, sia pure modestamente. Poi sono sparito.
Da allora, in genere, vivo un po’
qua un po’ là tra l’Amazzonia, alcune isolette del Pacifico e la Siberia
(d’estate) e volo quando mi pare. Infatti gli abitanti di questi luoghi ci sono
abituati: i loro sciamani sostengono di volare da millenni e loro danno per
scontata tale facoltà, tanto che li declasserebbero immediatamente (se non
peggio) se ne fossero sprovvisti. Nonostante questo, presso alcune tribù sono
assurto al rango di un modesto dio locale, condizione tutt’altro che sgradevole
a non volerne approfittare troppo (gli dei sono notoriamente invidiosi). A
volte è capitato che alcuni miei sedicenti discepoli abbiano convinto i
rispettivi gruppi di essersi messi a volare pure loro, anche se io non li ho
mai visti: per evitare scaramucce di potere e altri fastidi collaterali me ne
sono andato anche da lì, e per sempre.
Ogni tanto torno in Italia e,
ultimamente, mi sorprende il desiderio di farlo stabilmente, anche perché
questa vita alla lunga mi sta annoiando. Sono stufo di novità che finiscono per
assomigliarsi tutte e non vedo perché dovrei rincorrere lo shock del continuo
cambiamento. Sento nostalgia del normale tran-tran; ho voglia di parlare del
più e del meno nella mia lingua con chiunque abbia voglia di farlo con me e di
muovermi in uno spazio che senta mio centimetro quadro per centimetro quadro.
Ho persino intenzione di riprendere a lavorare, il che è tutto dire. Bramo la
quiete della ripetizione. Tanto ormai nessuno mi riconoscerebbe e forse col
tempo la gente potrebbe fare il callo sia a me che alle mie innocue abitudini.
Del resto, vaffanculo: se volare è una cosa che si può fare, e è scontato che
sia possibile dal momento che ci sono riuscito io, probabilmente qualcuno l’ha
già fatto prima di me e certamente qualcun altro lo farà anche in futuro. Prima
o poi ci riusciranno tutti, forse. Allora diventerà scontato e non se ne
parlerà più di tanto. Per il momento quanto ho scritto qui dovrebbe essere
sufficiente. È tutto quello che so:
per conto mio, basta e avanza.
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