In Aldo Zargani sembra resuscitare la
figura del Narratore, che Walter Benjamin dichiarava ormai estinta ottant’anni
fa per la scomparsa dell’esperienza dal mondo contemporaneo. Così non è, anche
se purtroppo a farla rinascere non ci ha pensato l’incanto della novella da cui
muoveva il discorso del grande studioso (Il
viaggiatore incantato, di N. Leskov), bensì l’orrore; e questo in aperta
contraddizione a ciò che un non sempre sollecito amico dello stesso Benjamin,
T.W. Adorno, aveva decretato impossibile dopo Auschwitz, evento che avrebbe
dovuto ridurre al silenzio ogni velleità di poesia e di racconto. E se anche
per alcuni davvero così è stato (quanti superstiti hanno preferito non dire una
parola per tutta la loro restante vita, aggiungendo al dolore di ciò che
avevano vissuto quello di non poterlo, o volerlo, condividere), per altri
invece il lager si è trasformato in urgenza di parlare, raccontare, gridare,
descrivere e addirittura cercare di capire. Per alcuni questo impulso, come
sappiamo da Primo Levi, si era già fatto strada mentre erano ancora all’inferno
e non sapevano se ne sarebbero usciti, e nonostante temessero, se sopravvissuti,
di non essere creduti, come predetto dagli aguzzini, tanto inverosimile avrebbe
potuto sembrare agli ascoltatori.
A Zargani per sua fortuna la tragedia
dell’internamento è stata risparmiata, ma non quella della perdita di tanti
famigliari e amici e, più ancora, quella vissuta direttamente dalla sua famiglia dopo le leggi razziali e durante la guerra, fino
alla liberazione, come raccontato in quel grande libro che è Per violino solo (Il Mulino, 1995), e
nei primi anni del dopoguerra, nel suo degno seguito, Certe promesse d’amore (Il Mulino, 1997). La prospettiva da cui lo
scrittore parla è almeno duplice, perché oscilla senza confonderli tra i punti
di vista del bambino, che viveva queste esperienze anche come scoperta e
avventura, e dell’uomo maturo, che ne ha attraversato tutte le metamorfosi e
che ha preso a raccontare le sue esperienze fondative solo una volta raggiunta
la pensione, cioè cinquant’anni dopo. Sguardo del bambino che non lo ha
abbandonato nemmeno nella sua verdissima età di 84enne attuale, e che fa la
ricchezza del suo modo di raccontare, in cui un grande ventaglio di sentimenti,
dalla paura all’entusiasmo, dall’empatia all’ira (quella giusta però, di
dantesca ascendenza), convive con una memoria infallibile che niente vuole
dimenticare, nemmeno quando sarebbe più facile abbandonarvisi. Il discorso è
permeato da una grande saggezza, con il distacco che essa implica, che non
preclude però un sempre rinnovato, sorgivo stupore; e il radicale scetticismo,
ma anche l’ironia, che dalla saggezza derivano, non impediscono la gioia, e il
suo riso aperto, divertito, né, con paradosso solo apparente, una lucida
speranza che non nasce solo dalla volontà ma anche da un’apertura alla vita
originaria, una vocazione inscalfibile alla felicità. È come se la
maturità non fosse stata conquistata da Zargani liberandosi dall’infanzia ma
restandovi radicato e conservandola in sé come la propria onnipresente,
inesauribile e sempre attuale, risorsa: come qualcosa che non è mai acquisito
una volta per tutte, quindi, ma è sempre da conquistare e rinnovare. È
dall’insieme di questi fattori, dal loro intreccio, ma anche dal loro
contrapporsi e arricchirsi vicendevole, ciascuno con il suo tono, grave e
acuto, divagatorio e essenziale, ma sempre leggero, che derivano la capacità di
narrare di Zargani e al contempo di fare esperienza, che egli, scriva o parli o
reciti o ricordi, riesce a trasmettere, viva, freschissima e ricchissima, in
chiunque lo legga o ascolti, con la stessa reazione, anche lui (anche noi), del
bambino che chiede di andare avanti ancora e ancora.
Tutte
queste caratteristiche si ritrovano, con esiti ammirevoli, anche nel recente volume In bilico
(noi gli ebrei e anche gli altri), che raccoglie i racconti scritti da Zargani
in questi ultimi anni. In essi vengono ripresi alcuni dei temi presenti nei
libri precedenti, a partire dagli anni della guerra, della persecuzione e della
fuga (non a caso il libro si apre e si chiude con il settembre del 1939 con due
racconti che sono dei veri e propri capolavori: “Profumo di Lago” e “Sicilia”),
e del periodo immediatamente successivo, arricchiti di nuovi episodi di volta
in volta terribili o divertenti, e spesso terribili e divertenti insieme, fino
ai nostri giorni e agli eventi che continuano a sollecitare lo scrittore e la
sua passione etica e civile. Passione
che emerge quasi ad ogni pagina, sia che si parli di una visita in Israele o in
Australia, sia che incontri dei bambini in una scuola romana per portarvi la
propria parola non di testimone ma di “attestatore” ricevendone viceversa una
lezione sul significato della nostalgia (si veda il bellissimo racconto che ha
questo titolo): perché è solo quando si è aperti ad apprendere dall’altro a cui
si parla che anche la tua parola può passare e farsi esperienza per entrambi.
Uno dei nuclei più significativi ha per
oggetto la Germania, che l’autore narra giustamente umiliata dopo la sconfitta
e poi conosce nella sua nobiltà riconquistata durante un tour promozionale per la
traduzione della sua Sonata, o nella
famigliola in vacanza all’isola del Giglio dello straordinario, breve quanto
folgorante, per usare una volta tanto in modo appropriato questo aggettivo,
“Berlinesi”.
Ma da tutti i racconti arriva qualcosa
che ci fa sentire appagati, anche se a volte sgomenti, più lucidi e insieme più
appassionati, risvegliati nelle nostre emozioni elementari che spesso crediamo
estinte o sopite. Segno che l’esperienza è passata, che il narratore ha colpito
nel bersaglio e che questo ne è stato modificato, non è lo stesso di prima, e
gliene è grato.
Nel racconto di chiusura, “Sicilia”, che
narra l’umiliante trasloco del padre musicista in una provincia siciliana
arretrata ma anche incantata e mitica, che per il piccolo Aldo è anche l’ultima
stagione innocente e insieme anche la scoperta della morte, lo scrittore narra
un episodio che gli è accaduto in occasione di un suo ritorno nell’isola ormai
adulto, con la sua famiglia, composta da moglie e figlioletta, e quella di un
amico. Dopo un avventuroso salvataggio
del gruppo che si era sventatamente avventurato in mare nonostante
l’avvicinarsi di una tempesta, ad Aldo, che timidamente ringrazia il salvatore
e gli chiede “Potremmo... offrirvi... qualcosa?”, questi risponde “Perché?
Quanto pensi che valga la vita d’un uomo?”. Nel racconto il protagonista non sa
rispondere, né il narratore aggiunge altro, ma credo che il lettore, chiudendo
questo libro, lo sappia, ora, un po’ di più.
Aldo Zargani, In bilico (noi gli ebrei e anche gli altri), Marsilio, 2017, p. 187
Articolo pubblicato su Pagine ebraiche, agosto 2017, che ringrazio.
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