C’è, in un romanzo peraltro deludente, e anzi che mi ha fatto spesso incazzare (* si può leggere anche dopo), incentrato sulla vita di Kierkegaard (Stig Dalager, L’uomo dell’istante. Un romanzo su Søren Kierkegaard, Trad. it. I. Basso, 2016, Iperborea), anche se ovviamente in Danimarca ha vinto premi importanti (e ti credo!), e forse anche altrove, una lettera che parla dell’amore. Una lettera d’amore: perché se uno scrive una lettera che parla dell’amore, in realtà è una lettera d’amore che sta scrivendo, che lo sappia o meno – torto che non farò di certo al suo autore. La riproduco qui in fotografia.
È una lettera molto bella ma non voglio parlarne
per ciò che dice dell’amore (ne ho piene le palle di leggere su questo
argomento, e non intendo infierire sul lettore accrescendo il ciarpame, perché di
meglio io non saprei fare), e tantomeno analizzarla all’interno della
concezione che ne offre il filosofo danese, su cui sono state scritte
tonnellate di carta, anche ipotizzando una grammatura molto bassa, quanto per
come mi sembra sia stata scritta, per alcuni meccanismi che ho avuto
l’impressione di scorgere… La lettera infatti è un esempio eccellente di dove
possano portare l’esaltazione e le parole a cui si lascia briglia sciolta, cioè
la possibilità che hanno le parole, paradossale per un filosofo così sottile e
attento a ogni sfumatura e implicazione di ciò che scrive, di andare per proprio
conto una volta imboccata una strada (una direzione) senza altro controllo e
solo in perfetta sottomissione e aderenza alla loro logica del momento,
parzialissima e insieme assoluta, delirante di desiderio e volontà di distinzione
(di personalizzazione: di unica, inconfondibile individualità: io sono così; io, e io solo), che si
autoalimentano, una dopo l’altra, in costante rilancio che innesca la
successiva con impeto inarrestabile sempre più intenso. Cosa a cui peraltro
ambisce quasi sempre chiunque scrive, perché comporta insieme una grande forza
e un’estrema arrendevolezza, resistenza e cedimento intrecciati, indiscernibili
(per la lucidità c’è sempre tempo).
E
questa intensità trascina anche chi legge, finché non alza la testa, tira il fiato
stiracchiandosi per dare sollievo al collo e alle sue povere, deboli spalle, e
si dice: alt! un momento… pensiamoci un po’ sopra, proviamo a ragionare… È così, ha ragione, – pensa –, l’amore è questo, è
proprio così che funziona, è così che vogliamo essere, accettarlo, coltivarlo,
servirlo. Però…
Però
no: in realtà si vuol solo far colpo (sedurre, anche quando si pongono degli
ostacoli, quando si vuole attrarre e al contempo respingere, allontanare,
negarsi, sottrarsi, fuggire, come farà anche un altro K.), si stanno mettendo
in atto delle strategie lucidissime anche se a volte involontarie, almeno in
quel momento, e insieme si vuole credere a ciò che per sedurre si dice. E
magari si è convinti di crederci per davvero. Gli scrupoli a posteriori, i ‘se’
e i ‘ma’, i ‘però avrei potuto’, gli ‘era meglio se’ ecc., derivano da questo:
non da un eccesso di buona coscienza e delicatezza (troppo bello!, è ancora
debitore della stessa logica), ma dal senso di colpa, dalla cattiva coscienza,
dalla consapevolezza, in alcuni acutissima, della falsità, perché è impossibile
sedurre, volere far colpo, e essere sinceri, immacolati. Allora si rilanciano
le parole, ci si abbandona, smemorati, fiduciosi, alla loro corrente, e con
esse, o subito dopo, si cade in balia proprio di ciò che si intendeva più di
tutto rifuggire, la cattiva coscienza. Per le anime sensibili (e quale
innamorato non lo è?), l’autoflagellazione.
Se
uno si autoflagella è perché ne ha tutte le ragioni.
*
Il
libro, con accorgimento banale, ripercorre la vita e il pensiero di Kierkegaard
partendo dagli ultimi giorni, alternando la narrazione della fine a quella del
passato che, tra sogno e ricordo e allucinazione, viene ripercorso in senso
rigorosamente (e un po’ ridicolmente) cronologico. Già è difficile attribuirla
ai ricordi, ma immaginare sogni e più ancora allucinazioni che infilano le
perline nel filo della linearità è pretendere un po’ troppo dal lettore, patto
o non patto stipulato… Le due linee temporali, entrambe al presente, si alternano
in modo piuttosto meccanico, per quanto l’autore, che non è certo uno
sprovveduto e ha numerose qualità, si ingegni a variare i passaggi dall’una
all’altra, le suture e le lunghezze, il respiro delle rispettive sequenze.
Per
forza che il tempo deve procedere lineare dall’inizio all’anticamera della
fine, si dirà: è una biografia; e invece no: è un romanzo, che utilizza con
sicura competenza i sempre interessanti e talora bellissimi documenti e le opere del filosofo danese per ricostruirne sentimenti,
pensieri, psicologia e esperienze, cercando di uniformare, di rendere omogenei,
senza eccessivi dislivelli e gradini, citazioni dirette o indirette e
ricostruzioni fattuali, documentate o immaginariamente ricostruite, in un tono
unitario, ovviamente più narrativo che saggistico, immergendo così tutto nel brodino
della facilità romanzesca di stampo ottocentesco, nonostante le malizie della
modernità, con tanto di narratore onnisciente (ma ben nascosto in un’aura di
oggettività), personaggi impacchettati nella loro bella caratterizzazione,
descrizioni liriche e documentarie, e il sempre benvenuto colore locale e
storico e paesaggistico. Stonato, oggi, se non falso. Anzi: falso, e quindi
stonato. Anche se in letteratura si dovrebbe dire il contrario: stonato, e
quindi falso.
Con
tutto questo l’ho letto fino in fondo (416 pagine). Kierkegaard merita qualche
penitenza.
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