… che poi
è verissimo che quel che conta, lo stile o comunque lo si voglia chiamare, è se
si ha qualcosa da dire: si tratta di vedere che cosa è la cosa che, o su cui si
ha da dire. Lo stato del mondo o dell’umanità; cosa è bene e cosa è male; o lo
stato di quel tipo o oggetto o relazione in quel dato momento e luogo, e cosa
pensa o fa, o su una papera, o un albero o un sasso, quello lì proprio allora,
o prima, o cosa prevede di fare, o altro, dopo.
“Qualcosa
da dire” per me e buona parte della mia generazione suona tanto “messaggio”,
“idea di fondo”, “contenuto”. E lo stesso suona il discorso che misura il
“cosa” da dire dal suo peso, di qualsiasi tipo esso sia: politico, morale,
filosofico ecc.
Se
qualcuno è in grado di parlarne in modo che non prevalga sul resto, ha tutta la
mia ammirazione. Ma è così difficile… impossibile, o quasi (e il “quasi” lo
aggiungo per non cadere nello stesso difetto che qui segnalo). Perché quel che
conta non è ciò che uno sa e ha da dire (da insegnare: perché trasmettere è
insegnare), ma quanto sa imparare, quanto è disposto a imparare, dagli altri,
dal mondo, ma anche da ciò che lui stesso è, e fa, e diviene, senza saperlo
(senza saperlo prima, una volta per
sempre): quanto e come, nei modi in
cui già si trova immerso ancor prima di cominciare, in quelli che gli sono
offerti e che lui stesso scopre, inventa e tenta. Come, per esempio, scrivere.
(Cosa e come è importante, ma non qui.)
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