Sto
andando a Firenze per l’inaugurazione della mostra di due amici presso la
galleria di due amiche. Non avevo molta voglia di andarci, ma poi l’amicizia ha
prevalso. Comunque, per il momento, non sono del mio solito buon umore. Ho preso
l’Eurostar per fare in fretta, per stare più comodo e per non condividere
scompartimenti affollati dove qualcuno prima o poi mi avrebbe disturbato, fosse
pure col rivolgermi semplicemente la parola, coinvolgendomi, se non in una
delle discussioni metafisiche che i treni fanno germogliare in fioriture
rigogliose da teste altrimenti spoglie, in qualche scambio di battute a cui non
sarei stato capace di sottrarmi, perché sono educato, e vanitoso, e non so
resistere alla tentazione di sfoggiare il mio talento umoristico, poiché mi
piace essere gradevole, e gradito dagli altri, non importa se sconosciuti
(meglio, anzi: così si portano via un bel ricordo di uno di cui ignoreranno per
sempre i lati meno confortanti), e forse anche, per un istante irreversibile,
ammirato. L’ho preso per poter leggere in santa pace, isolato anche fisicamente
dagli altri; perché ho bisogno di stare in totale silenzio, ogni tanto; e
infine perché, non saprei dire per quali arcane e grottesche ragioni, in treno,
da solo e con un tragitto relativamente lungo davanti a me, mi capita spesso di
trovare l’impulso, di trovarmi a non poter fare a meno di scrivere. E in
particolare, sul tratto Milano-Firenze, mi capita sempre. Queste righe ne sono l’ulteriore conferma. Spendo di più,
ma ci guadagno. Guadagno parole impreviste. Basta niente, e sono lì. Ogni volta
sono lì, pazienti, che mi aspettano; e io, ogni volta di nuovo sorpreso, le
accolgo con grata deferenza, anche se poi dovessero rivelarsi sciocche e banali
(anche se poi io dovessi renderle sciocche e banali). Ma se anche non
venissero, stare tranquillo, da solo o con un libro, sarebbe già sufficiente
per farmi, alla lunga, contento.
Non
avendo prenotato, oggi mi sono dovuto accontentare di un posto in coda alla
carrozza, vicino alla porta automatica. Sono porte silenziose, in genere, e
poco usate, perché di solito la gente se ne sta seduta nella sua poltrona,
legge, telefona, lavora o chiacchiera composta, in un’atmosfera di rassicurante
civiltà, in una specie di utopia minore realizzata senza sforzo, e persino con
la superiore eleganza dell’inconsapevolezza, ovvero si limita a guardare dal
finestrino il paesaggio che scivola umido, come lubrificato, attorno al treno
che lo penetra (la metafora è un po’ volgare, ma obbligata, dato l’aggettivo
che mi è appena venuto – di nuovo? ahi! –; e come reazione inconsciamente irritata all’atmosfera che mi
circonda – irritata anche
contro me stesso, che l’ho cercata e ne godo –: un’atmosfera così serena che alcuni finiscono per
addormentarsi, come il signore di fronte a me, dopo aver letto una relazione, o
per averla letta).
Mentre
attendo la partenza, e già leggo, sento rumori striduli, ai quali presto poca
attenzione in quanto li attribuisco a prove dei freni (!) o ad altre manovre di
messa in moto; poi però, una volta cominciato il viaggio, sento che si ripetono
con una certa frequenza alle mie spalle, e alla fine scopro che a produrli è
proprio la porta automatica, che, al contrario, di essere lubrificata avrebbe
un urgente bisogno. Ma non me ne preoccupo, fra un po’ il fastidio cesserà, o
quanto meno si attenuerà, perché tutti finalmente si saranno accomodati e si
predisporranno a un viaggio tranquillo, proficuo o riposante, come vuole la
norma.
Invece
stavolta comincia subito un fitto andirivieni di lenti e traballanti passeggeri
e la porta è costretta a fare gli straordinari, lamentandosene di conseguenza.
O sono capitato in una carrozza molto vicina al bar, ipotesi che forse fra
un’oretta verificherò, o la gente oggi è particolarmente inquieta, per qualche
velenoso influsso astrale o magnetico, o per una delle diavolerie che circolano
per aria, oppure ancora per contagio reciproco (ipotesi che il mio antiquato
razionalismo preferisce di gran lunga). A meno che non si tratti di un attacco
generalizzato di incontinenza, alquanto improbabile (perché dovrebbero servirsi
tutti del bagno della mia carrozza? forse che gli altri sono tutti già occupati
e l’urgenza costringe i contagiati al nomadismo? ma allora come si spiegherebbe
l’andatura compassata? perché la dignità ha la meglio sul bisogno? Sarebbe la
prima volta.). Lo stridio dei battenti scorrevoli si ripete quindi a intervalli
sempre più ravvicinati, tanto che sono indotto a sperare che il traffico si
intensifichi ancora di più, fino a diventare un flusso continuo (un flusso!)
che non lasci alla porta il tempo di richiudersi, così che il rumore sia vinto
non dall’assenza ma dall’eccesso dei passanti. Ma questi, con calcolata
perfidia, scandiscono i loro passaggi sul tempo di reazione della fotocellula,
o forse è quest’ultima che, per puntiglio professionale, e per ritorsione,
richiude i battenti sul muso di ogni nuovo sfruttatore, costringendolo
all’attesa della riapertura, nonché all’aumento degli spasmi addominali nel
caso l’ipotesi dell’incontinenza fosse corretta. Esprimo mentalmente la mia
solidarietà al lavoratore meccanico. Mi sento subito meglio.
Non è
nemmeno da escludere che la porta, col tempo, abbia finito per innamorarsi del
rumore che produce (agli schiavi càpita, come ai perversi del resto, musicisti
inclusi), che lo ritenga il proprio segno distintivo, il proprio marchio di
identità (non si nega a nessuno, quello), la dimostrazione che esiste e che fa
il suo lavoro secondo l’ordine prestabilito delle cose, il destino che le è
stato assegnato: e allora sarebbe per questo minestrone di destino orgoglio
paura e rappresaglia che non perde occasione per mettersi in funzione, per
ripetersi, per affermarsi, per affermarsi nella ripetizione.
Io
continuo, a dispetto di tutto e di tutti, a leggere e, strano, a leggere con
profitto, arrivando addirittura a capire ciò che leggo nonostante il libro sia
difficilino, io che fatico a capire anche quelli facili. E mi sembra che il
miracolo sia dovuto proprio ai cigolii, come se questi tracciassero varchi al
senso nella densità ottusa della prigione del mio cervello; come se aprissero
sfiatatoi da cui possano finalmente evadere i fumi eterni che lo ottenebrano,
creando quella vaga, ma piacevole, placentare nebbia, che in fondo mi permette
di abitarvi senza troppa angoscia, di ignorare mura sbarre catene muffe e topi,
senza cioè vederlo: senza vedermi.
Così,
mentre all’inizio ogni stridio prometteva di diventare una lametta che avrebbe
inciso i miei nervi fino a oltrepassare la mia soglia di tolleranza (che è
piuttosto ampia, posso affermarlo con vanto), ribaltando il viaggio nella sua
versione peggiore, cioè in astiosa attesa dell’arrivo e, di più, in attesa
astiosa, al nanosecondo, della sua, dello stridio, iterazione, tanto che già
prefiguravo la sua progressiva fusione coi motivetti, sempre cretini, dei
cellulari che nel frattempo avevano cominciato un loro furioso risveglio, con
le parole dei miei vicini amplificate in volume e insensatezza dalle
circostanze, e col rumore del treno che a sua volta aveva preso a crescere,
come se lui pure fosse preso dalla smania di affermare il proprio diritto
all'esistenza, così da costringermi ad alzare il volume dei miei pensieri in
modo da potermi illudere di seguire qualcosa di più pacato, ma che in tal modo
si sarebbe fatto a sua volta sempre più furioso, devastante, autodistruttivo,
quasi che lì dentro ci fosse qualcosa da distruggere, tanto che poi, non
trovandolo (appunto), sarebbe stato costretto a rivolgere la sua aggressività
verso l’esterno, cercando qualcosa da annientare a mo’ di compensazione per
sfogarsi: e io già mi vedevo prendere per il collo lo spilungone che mi siede
accanto, strappargli a morsi le orecchie, azzannargli le guance peraltro poco
appetitose, coperte come sono da una precolombiana topografia di brufoli e
eczemi, infilzargli con la biro gli occhi che non farebbero nemmeno in tempo a
rivolgermi lo sguardo di doloroso stupore che in questi casi è di prammatica,
mentre io, come un guaritore filippino, sono già passato a estrargli a mani
nude le viscere (che tuttavia, rispetto al resto, farebbero la loro bella
figura), primo assaggio di un’ecatombe che a questo punto il mio invasamento mi
avrebbe obbligato a portare a termine senza risparmiare nessuno, dagli
occupanti della mia carrozza che, per immobilità da panico o riflessi
appannati, non fossero riusciti a mettersi velocemente in salvo, ai controllori
che osassero affrontarmi, per concludersi coi conducenti (presumo siano due)
del treno, che quindi avrebbe proseguito senza controllo la sua corsa fino a
sfracellarsi in qualche stazione preferibilmente affollata provocando
un’ulteriore, e finalmente soddisfacente carneficina di cui nessun giudice
riuscirebbe mai a trovare il movente, e tanto meno il colpevole (questa non
sarebbe una novità, peraltro); invece di tutto ciò, ora accolgo quasi con gioia
il ritorno del supplizio, come una benefica agopuntura spirituale, grato dei
doni che mi porta, della rabbia che suscita e poi devia, del fastidio rancoroso
che si transustanzia in calma e indulgenza, addirittura in benevolenza e
tenerezza verso tutto e tutti, per il creato e persino per il creatore, per il
vento e la sabbia, per il freddo e l’acqua salata, per gli insetti e per gli
animali più complessi (ma meno duraturi), per gli uomini e le donne di tutte le
razze e le età (e persino religioni), e in particolare per le due ragazze
salite a Bologna che ora di fronte a me leggono e commentano, scambiando al
contempo spiritosissimi messaggi con il cellulare, gli oroscopi di un
giornaletto cronometricamente sincronizzato sulle loro età e facoltà mentali:
ragazze che in altre circostanze avrei strangolato volentieri, tanto più che
sono brutte.
Sono
stupefatto: dalla benevolenza mi era capitato un paio di volte di essere
affetto, ma la tenerezza fino ad ora mi aveva risparmiato, e ciononostante non
mi rivolto contro questa nuova debolezza, sintomo indubitabile di
invecchiamento. Mi sopporto, e anche questa è una discreta novità. Mi sopporto
mentre scrivo, e questa è una novità ancora più sorprendente. Allora alzo la
testa e tiro un lungo sospiro. Nel farlo, mi accorgo che mentre ero assorbito
nella redazione di queste paginette, per un lunghissimo tratto la porta ha
smesso di cigolare, segno che più nessuno è transitato: allora mi sono alzato
io e sono andato alla toilette. Lavora, schiava!
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