... Una delle frasi più citate di Barthes mette accanto la
morte e la parentesi. La parentesi come parola tra le parentesi grafiche. La
citano per la morte, non per la parentesi però. Su questa non ho letto nessuno
che si soffermasse. A me sembra importante, invece. è importante per me. Non che mi faccia troppi problemi sulla
morte. Ogni tanto sì, ma solo ogni tanto. C’è. Tutto qui. Non mi riguarda
davvero. è solo la scomparsa
delle persone che amo che mi riguarda. Ma perché resti tu che le amavi e le ami
ancora. E ti senti defraudato. Sono morte. Con che fegato mi hanno lasciato qui
senza di loro? Chi gli ha dato il permesso? Devo metterle tra parentesi e non
voglio. E la parentesi si allarga, cresce, invece di stringersi e svanire. Però
la morte ci abita. E non la puoi raspare via. Se poi uno scrive, ogni parola
gli dice la sua scomparsa. è la
tua, la parola intendo, e già non ci sei più. La scrivi e già lei ti recita il
requiem. C’è chi non lo accetta. Chi si ribella. Si macera. Ne fa tutto un
cancan. O una manfrina. Altri se la tengono stretta, come un’amica. Alcuni
pochi non ci fanno troppo caso. Cioè, non fanno finta che non ci sia, questo
no, ma non ci fanno troppo caso. Che per me è la soluzione migliore. è lì, e lì resta. Stai tranquilla e non
rompere le palle. Barthes non si rassegna. Lo fa in modo composto, ma non si
rassegna. Mi pare. L’aggettivo composto mi fa venire sempre in mente la salma.
Hanno composto la salma. Ma anche, ha composto un saggio, un’opera. Ecco una parentela.
Cioè non si rassegna alla morte degli altri. Alla sua, quando si avvicina dopo
l’incidente, credo di sì. Non la morte degli altri in generale, non accetta.
Non ne accetta una sola. La morte della madre. Quella che è la sola morte, per
lui. La morte senza specificazione. La morte per antonomasia. La morte e basta.
E però, appena scrivi, le specificazioni arrivano a
frotte. I ricami. Le incisioni. Le scarnificazioni. La microchirurgia del
lutto. I rimpianti. I ricordi. Tutta la storia. Vissuta e no. Tutte le storie.
Sentite viste o lette. Il regesto universale. Altro che palle! Ma non è ancora
questo. è che la carogna entra in
ogni gesto, in ogni parola, in ogni respiro, e poi è difficile sfrattarla. Ogni
sillaba che pronunci. Ogni lettera che tracci. Scrivi, e la pagina ti rimanda
solo lei. Scherzi, e è uno scherzo acido. Mortale. A ramengo! Allora indaghi,
la cerchi in tutto ciò che scrivi. E la trovi. Matematico! Ci strologhi sopra,
continui a ravanare, immagini, deduci. Speculi a destra e a manca. E la
speculazione è il suo specchio. Cribbio! Allora decidi di smettere, di lasciar
perdere. Sì, lascia perdere, che è meglio. Questa citazione viene dai puffi.
Che palle, in fondo. è lo schermo
ubiquo. Il velo universale. La cataratta che ti impedisce di vedere ogni altra
cosa. Ogni altra cosa che c’è. E che è bella, magari. Che magari è bella per il
solo fatto che c’è. Non dico niente di nuovo. Però lo dico lo stesso. Ci metto
qualcosa di mio, il mio respiro. Il respiro che solum è mio, e che io nacqui per
lui, e ecco che è nuovo. Bisogna saper respirare. Barthes dice che si deve
sentire il corpo. A quei tempi avevano tutti la mania del corpo. Gli sembrava
di averlo scoperto loro. E ci fa tutta una tirata, Barthes, dispersa qua e là.
Tirate lunghe non ne faceva. Aveva questo buon gusto. Io penso che sono tutte
menate. Il corpo lo senti tu mentre scrivi. è
affar tuo. Punto. Quello che entra in ciò che scrivi, quello che devi sentire
quando leggi, è il respiro. Basta quello. Ma quello è tutto. O quasi. Meglio non
esagerare. Oggi mi sento categorico all’ottantasette per cento.
Sì, ma cosa dice di preciso Barthes in quella frase? Siamo
all’inizio di La camera chiara. Al
quinto capitolo, p. 15 dell’edizione italiana. è un capitolo importante. Lo segnala anche la lunghezza, più
di cinque pagine senza foto. Un capitolo in cui Barthes mette in gioco se
stesso. Quello in cui, tra parentesi, parla per la prima volta di sua madre. Di
sua madre tra parentesi.
Dà un’immagine di se stesso parlando di quando lo
fotografano. Di quando si lascia fotografare. E viene reso immagine.
Un’immagine che poi sarà in balia di chiunque. Anche dei malintenzionati. Dei
malintenzionati più di chiunque altro. Parlando di quando si espone
all’obiettivo, si espone anche al lettore. E appena si espone, racconta. O
viceversa. E appena racconta, sbuca la morte. La parentesi. E le parentesi
aumentano. Le parentesi sono il luogo in cui Barthes si espone. O si espone di
più. Mette se stesso fuori di sé, mettendosi tra parentesi. Mi scuso del
giochetto. è un residuo
dell’epoca. Quella di cui parlo qui. «In quel momento io vivo una
micro-esperienza della morte (della parentesi): io divento veramente spettro».
L’argomento è la «Foto-ritratto». Barthes la descrive come «un campo chiuso di
forze» dove si incontrano, si affrontano e deformano quattro immaginari, tutti
imperniati sul «soggetto» del ritratto. Parole sue. Sull’io-R. B. che viene
fotografato. Sull’io-L. G., qui, immagino io. Immagino io mentre scrivo e leggo
ciò che scrivo. Io L. G. di R. B. di L. G. fotografato nella scrittura e nella
lettura, come R. B. immagina se stesso mentre viene fotografato e viene
immaginato da colui che lo fotografa. Quattro immaginari. Rispettivamente,
quello che il fotografando crede di essere, quello che vorrebbe essere, quello
che l’altro, il fotografo, crede che lui sia e «quello di cui egli si serve per
far mostra della sua arte». Il parallelo con la scrittura e la lettura non è
perfetto. C’è gioco tra gli ingranaggi. Va bene lo stesso. Meglio, anzi. Così
chi vuole può giocare. In quel momento Barthes, dice lui, non è «né un oggetto
né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto». La
«micro-esperienza della morte», il sentirsi diventare «veramente spettro»,
avviene allora. è un’immagine.
Un’immagine verbale suscitata dall’immagine fotografica. Un’immagine che parla
delle sue paure, ovviamente, non della morte. Della morte non si ha esperienza,
in nessuna forma. Al massimo è un’immaginaria esperienza della morte
immaginata. Niente di più. Del resto non possiamo fare altro. La morte
calamita, ma è fuori portata. Non ci resta che girarle attorno. La formula fa
un discreto effetto però. Funziona bene. Ma è una pia illusione. Esattamente ciò
che si chiede alle parole, del resto. Barthes infatti parla ancora della Morte.
Con la maiuscola. Nella sua foto, lui diventa «Tutto-Immagine, vale a dire la
Morte in persona». Nientepopodimenoche. Ma quel che davvero lo preoccupa è ciò
che potranno fare «gli altri – l’Altro», di questa immagine. E di lui. Lo atterrisce
essere espropriato di se stesso. Come se già non lo fosse. Come se già non lo
fossimo. Ha questa fantasia masochista che gli altri possano disporre di lui a
loro piacimento, «con ferocia» addirittura. Mi autorizzo l’approssimazione. Una
in più non cambia nulla. Ma di un masochista che ha perso il controllo del
rituale. Terrore allo stato puro. Si gode anche così? Se qualcuno ne ha
esperienza, esperienza diretta intendo, me lo dica, mi piacerebbe saperlo.
Queste piccole curiosità! Ma lui continua imperterrito con la Morte. Gli preme
arrivare a un’altra bella formula. E ci arriva infatti. E la formula è così
bella che molti l’hanno fatta propria con la massima disinvoltura. Se la sono
messa all’occhiello, dove indubbiamente fa la sua bella figura. Un po’ démodée,
ma la fa. Eccola qui: «la Morte è l’eidos
di quella Foto». C’è del vero. Forse. Ma è il vero che riguarda ciò che sente
Barthes, che qui lo dice indirettamente. Direttamente invece, secondo me, il
sentimento più vero Barthes lo mette tra parentesi, come di passaggio. è lì che lui si nasconde e rivela. Mi
verrebbe da dire che si apre nel chiuso delle parentesi, ma stavolta non ci
casco. Dunque, tra parentesi, di passaggio, mette: «La “vita privata” altro non
è che quella zona di spazio, di tempo, in cui io non sono un’immagine, un
oggetto. Ciò che devo difendere è il mio diritto politico di essere un soggetto». Sì, mi pare che Barthes abiti qui.
Che qui lasci trapelare davvero qualcosa di sé. Che qui, rivendicando un
sacrosanto diritto a cui oggi quasi tutti hanno tranquillamente rinunciato,
dica qualcosa che davvero gli preme. Un diritto e una paura. Qualcosa per cui
lottare. Dove il privato si intreccia al pubblico. Nell’angolo in cui più
si sente minacciato, viene alla luce. E
qui ti ritrovo io, amico. Qui mi ritrovo.
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