Anna
Seghers (pseudonimo di Netty Reiling) nasce a Magonza nel 1900; suo padre è un
mercante d’arte e lei si laurea con una tesi su “Ebrei e ebraismo nell’opera di
Rembrandt”; nel 1928 pubblica il suo primo romanzo, La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, che per molti resta il
suo capolavoro, ed entra, per non lasciarlo più, nel Partito comunista tedesco;
nel 1933 emigra in Francia, dove continua a scrivere e a partecipare alla vita
politica; passa poi in Messico durante la Seconda Guerra mondiale, per tornare
alla sua fine in Germania, a Berlino Est, dove vive tuttora, scrittrice
affermata e autorità morale riconosciuta.
Il
suo è un caso molto interessante: per un verso infatti riporta alla mente
polemiche trentennali sui rapporto tra intellettuali e politica (indicative al
riguardo sono le date, e il luogo, delle sue prime traduzioni italiane:
Einaudi, 1949 e 1950 rispettivamente per La
rivolta... e E sette nella miniera);
per un altro si ricollega anche a problematiche oggi di stretta attualità; e
infine dimostra come entrambi questi aspetti possano convivere con una tensione
in primo artistica e di scrittura, e ne escano anzi rafforzati.
Basta
leggere, per rendersene conto, La gita
delle ragazze morte, che contiene anche un bel saggio di Christa Wolf
sull’opera e la personalità della Seghers.
Sono
quattro racconti scritti tra il 1927 e il 1945, che si riallacciano ad alcuni
dei più importanti momenti della storia tedesca di quel periodo e sembrano
quasi un felice campionario dei temi maggiormente investiti dagli odierni
intellettuali tedeschi nella rivisitazione del loro recente passato. Solo che
la Seghers li ha scritti mentre le cose stavano succedendo, con una capacità di
distanziazione spesso non minore e insieme con una notevole partecipazione
emotiva, acuite entrambe, invece che dallo scarto temporale, dalla lontananza
dell’esilio e dalle convinzioni politiche e umane.
la
progressiva proletarizzazione di una famiglia borghese negli anni della crisi;
una manifestazione a favore di Sacco e Vanzetti; la rievocazione di una gita
scolastica alla vigilia della Grande guerra che si protende fino alla Seconda
nel destino delle ragazze che vi parteciparono; il fallito tentativo di
reinserimento nell’anonimato di un SS nel 1945: gli argomenti dei racconti sono
quelli classici della letteratura realistica e impegnata, e altrettanto
classici sono i tranelli che quasi automaticamente ne derivano: schematismo
ideologico, psicologia “orientata”, naufragio della vita individuale nel flusso
storico, tendenziale ottimismo programmatico, realismo come panacea...
È
molto raro però che la Seghers vi incorra. Infatti, anche se la realtà resta in
un certo senso il suo punto di partenza e di arrivo, e proprio perché conosce,
forse esagerando un po’, il valore di impatto dell’arte nella sua epoca, non la
piega a fini estrinseci, ma semmai li “contiene”, cioè li fa emergere
dall’interno del lavoro artistico stesso.
Così,
per esempio, la storia si diffrange sempre a partire da un soggetto
caratterizzato nella sua individualità non tipica, anche laddove
un’interpretazione a posteriori ne possa estendere la portata; né l’adesione né
il contrasto ideologico portano a cadenze extranarrative o a riflessioni
astratte, qui ridotte all’osso anche nei casi in cui sarebbero più
giustificate, data la predominanza di una scrittura molto secca e oggettiva
nella quale gli scatti emotivi, e le inserzioni poetiche e fantastiche, sono
tutti devoluti ad un uso abilissimo del discorso indiretto libero e del
montaggio dei paragrafi: e se, come dice la Wolf, per la Seghers l’artista
“deve trovare il coraggio e la responsabilità di ‘puntare sulla realtà’
spericolatamente”, esercitando una critica produttiva “rispecchiandosi nel
conflitto che da secoli lacera il popolo tedesco e ha germinato in esso un
‘sentimento scisso della vita’, giacché nella sua storia ‘rivendicazioni
sociali e nazionali non sono mai avanzate insieme’”, d’altra parte deve anche
avere la “capacità di impedire che il mondo perda ogni incantesimo (...) e di
accendere e tenere desta la ricettività per quanto nel reale vi è di magico,
per i suoi aspetti prodigiosi – una sensibilità di cui l’essere umano ha
bisogno per vivere”, unendo in tal modo le due linee che fin da giovane avevano
affascinato la scrittrice: “raccontare quello che mi interessa oggi, e la
ricchezza dei colori delle fiabe”.
Forse
non sempre la Seghers si è attenuta a questo programma; a volte urgenze di
altra natura l’hanno spinta in altre direzioni e con differenti risultati, con
accentuazione dei dati psicologici e di realismo speculare, seppure di rado
platealmente; altre volte sono stati gli intenti didattici o la materia stessa
a prendere il sopravvento, a far pendere la bilancia più da un lato che
dall’altro, occorre però dire che laddove, come in La rivolta.. e nel racconto che dà il titolo al libro qui recensito,
le due linee sono fuse, al di qua di ogni intento programmatico, i risultati
sono incantevoli: qui infatti non si tratta tanto di prefiggersi un compito e
di “dominare in qualche modo il tempo”, quanto di “arrendersi umilmente ad
esso” eseguendo un compito che nella storia della scrittura è radicato molto
lontano.
Anne
Seghers, La gita delle ragazze morte,
La Tartaruga, Milano, 1981
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