È bello
poter parlare di un libro come questo, che non solo è la testimonianza della
fedeltà alla memoria di un uomo morto giovane e che in vita non aveva
pubblicato nemmeno un libro, una memoria che continua a rinnovarsi
propagandosi, senza clamori ma tenace, da coloro che lo avevano conosciuto e
amato ai loro amici e da questi ai propri e così via, ma permette anche a un
pubblico più ampio di conoscere un’opera finora nota quasi ai soli specialisti.
Altrimenti il nome di Dino Garrone, nato a Novara nel 1904 e morto di
setticemia a Parigi nel 1931, avrebbe corso il rischio di confondersi tra i
tanti citati più o meno di sfuggita nei capitoli che le storie letterarie
dedicano alle riviste minori e regionali del ventennio fascista.
Dai
frammenti citati nella sua intensa introduzione dal curatore di queste Prose
scelte, Francesco Scarabicchi, e in un saggio posto da Luigi Russo in
appendice a La critica italiana contemporanea, sarebbe anzi auspicabile
anche una riedizione delle Lettere, pubblicate per la prima volta nel
1938 a cura di Berto Ricci e Romano Bilenchi, che ha poi parlato di Garrone
anche nel suo libro Amici.
La figura
che risulta anche da queste testimonianze è tanto interessante da obbligare
quasi ad una lettura bifocale di queste prose, sovrapponendo alla sorpresa e
agli stimoli che esse suscitano, l’inutile gioco del vagheggiamento di come
avrebbe potuto evolvere un’opera già valida di per sé. Ma, per quanto
comprensibile, sarebbe un errore, perché, oltre a distogliere da esse
l’attenzione che meritano, quando la morte lo colse, la parabola di Garrone era
in qualche modo già compiuta, e non tanto perché la morte proietta sempre
retrospettivamente una forma compiuta sulla vita che interrompe, quanto perché
Garrone stesso sembrava aver prefigurato nei propri testi, quando non
desiderato, questa conclusione che a noi appare prematura.
Lo si
vede sia da numerosi passaggi delle sue
lettere, sia soprattutto dal ricorrere di fantasie apocalittiche in molte delle
sue prose, tanto che sono proprio esse a fornire loro il tono dominante che
permea anche gli altri motivi ricorrenti, quelli del viaggio (qui i treni, le
macchine della Mille miglia, le navi della gente marchigiana; nella sua
vita il sogno di viaggi lontani e la realizzazione della traversata su un cutter
dell’Adriatico in tempesta, oltre che l’emigrazione a Parigi alla ricerca di un
ampliamento dei propri orizzonti culturali e esistenziali) e della patria, che
non ha niente dell’oratoria fascista e rileva invece di un radicamento ad una
terra e ai segni, di carattere e moralità, che essa imprime in chi la abita e
che niente potrà mai cancellare.
Questo
senso di una fine sempre imminente non contrasta con quella che il Russo chiamò
una “ritardata avidità romantica” di vita, ricca di “gusto veloce e bruciato,
di esperienze e avventure molteplici, generosamente indistinte”, pur nella
consapevolezza che “la vita è uno sbatter di teste, è un patimento oscuro
infinito, è un bere l’acqua nera.”
E allo
stesso modo questa consapevolezza non smorza, e al contrario esalta impulsi
ideali che se lo indussero a partecipare alla vita del suo tempo (basti pensare
all’adesione entusiastica al fascismo, mai rinnegata neppure quando onestà e rigore intellettuale
lo avevano portato su posizioni critiche e osteggiate dalle gerarchie) secondo
istanze di “verità” “coraggio” e “purezza” che se ai nostri orecchi mandano un
suono fesso e dubbioso, nondimeno per lui si manifestarono come assenza di
piccinerie e compromessi e soprattutto in un inflessibile impegno nei confronti
della scrittura, inteso all’obbiettivo precipuo di “dipanare la propria
musica”.
Le prose
e i racconti di questo libro sono, di questo impegno, l’effetto e la
testimonianza anche quando non del tutto compiuti sono i risultati, quando cioè
spuntano debiti non ancora risolti con aspetti della letteratura che altri suoi
contemporanei si erano già lasciati alle spalle, come una certa propensione per
la prosa d’arte e per l’abbozzo di “caratteri” e certa vena popolareggiante
patetica. Ma non qui va cercato Garrone; come scrive Scarabicchi, Garrone va
“individuato dove la parola è essenziale, dove il referto aderisce alle cose,
dove la nominazione si infittisce (...) e dove l’ascolto (...) si fa “stile e
“sostanza” opponendosi alla grammatica calligrafata, alla “maniera”, alla
verosimiglianza, all’imitazione”. E soprattutto va cercato nell’espressione tesa
della “coscienza senza sonno” (B. Ricci) di “un uomo e di uno scrittore,
“nomade e dissipato” (Russo) quanto accorto e sorvegliato sulla pagina tenuta
al morso del talento”.
Dino
Garrone, Prose scelte, ed. Sestante,
p. 155, £ 17.000
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