In un
diario che va dal 23 settembre al 24 dicembre 1941, un giovane agente segreto
tedesco, teorico dell’intrigo e dell’agitazione e animato da una grande volontà
di potenza, narra le vicende della sua missione in Medioriente per attirare le
tribù curde, ariane e ostili tanto agli arabi che agli inglesi, sotto
l’influenza nazista. Viaggia nel deserto, soggiorna in squallidi paesini,
prende contatti, uccide un agente inglese, fa saltare un ponte, ma proprio
quando le sue ambizioni stanno per realizzarsi e il suo senso di indipendenza è
massimo, la missione è sospesa ed egli, richiamato in patri, viene inviato a
Parigi con mansioni di cui non gli importa nulla.
Il 30
novembre 1821, un cappellano militare pronuncia l’elogio funebre di un
immaginario generale prussiano, amante della musica e della letteratura, che
per primo ha avuto il merito di capire i grandi mutamenti intervenuti nella
guerra con la Rivoluzione francese e Napoleone, e di abbozzarne la nuova
metafisica. Il cappellano ne ripercorre la vita, gli incontri con grandi
personaggi storici e di fantasia (Clausewitz, Napoleone, Goethe, Hoffman, il
Bezuchov di Guerra e pace...) e i
contrasti con le alte sfere dell’esercito prussiano ancora legate alla vecchia
concezione, astrattamente razionale e meccanica oltre che disumana, di Federico
II, fino al trionfo delle sue idee, diventate uno dei cardini della rinascita
germanica.
Questi,
in succinto, gli argomenti di Una sfida
nel Kurdistan e di Elogio funebre del
generale August-Wilhelm vob Lignitz, due brevi romanzi pubblicati in
francese ne 1969 e nel 1973 dal quarantacinquenne ginevrino Jean-Jacques
Langendorf, che ora Maurizio Andolfato ha tradotto per Adelphi.
Langendorf
è uno studioso di Clausewitz e del pensiero militare prussiano, sul quale sta
preparando da anni una monografia, ed è persino troppo ovvio che attorno alla
guerra, alla sua concezione e ai suoi episodi, ruotino i suoi romanzi. È noto
però che delle cose troppo ovvie è meglio dubitare. Non conoscendo i risultati
dei suoi studi, è impossibile specificare influenze o relazioni, tuttavia dalla
lettura dei suoi romanzi appare evidente che la guerra, la guerriglia e
l’intrico, sono solo i riflessi visibili di altri fuochi assenti, anche se una
delle numerose qualità di questi libri, forse la maggiore, consiste nella
perfetta corporeità di questi riflessi. Si tratta cioè di testi dall’apparenza
felicemente anacronistica e dotati di una leggibilità quasi dimenticata, con
personaggi a tutto tondo, una psicologia meticolosa, situazioni esemplari e una
trama coerente e compiuta, scritti in una prosa limpida e accurata, e pur ricca
di tessere poetiche sottili del tutto amalgamate alla narrazione, ma, anche se
già basterebbe, non si fermano a questo: altri piani emergono già nella lettura
attenta alla sola diegesi, per imporsi poi con evidenza (quell’evidenza che
invano cerca attraverso i suoi gesti, che vorrebbe plasmatori, l’agente
nazista) alla fine, verso nuovi significati scaturenti, più che suggeriti,
dalla narrazione che sembra esaurirsi in se stessa in una sorta di gioco
innocente. (Anche il gioco è un elemento che torna qua e là nella narrazione,
come tema non tra i minori, accanto a quello dell’immaginazione e del suo
rapporto con l’astrazione presso gli arabi – in Una sfida... –, che culmina in un’affermazione che potrebbe anche
essere indicativa per la nostra lettura: “Via via che l’immaginazione fugge
davanti all’astrazione, l’ornamentazione si accumula”).
Non si
tratta tanto di livelli metaforici e nemmeno di parabole o apologhi come
suggeriscono le pur belle quarte di copertina (a meno che non elimini ogni
implicazione di insegnamento per limitarsi alla capacità della narrazione di
instaurare un doppio significato), quanto di linee tangenziali che il cerchio
conchiuso emette, per pura contiguità narrativa, senza cessare di essere
conchiuso: la guerra è la guerra cioè, ma nella guerra stessa, e in ciò che la
narrazione vi pone attorno, ci sono gli elementi per altro, lo stimolo verso
agganci ulteriori che tuttavia non porteranno ad alcun ancoraggio definitivo.
Per
individuare, ancorché schematicamente, almeno uno di questi motivi, si potrebbe
leggere ambedue i romanzi come le opposte facce, differenti come sempre lo
sono, della stessa medaglia, o come variazioni sullo stesso tema, quello dei
rapporti tra razionale e irrazionale e tra ordine e caos, che la guerra da una
parte e l’avventura dall’altra già implicano e sono. Temi eterni, che Langendorf
sviluppa a partire dalla prospettiva romantica che per molti versi sta alla radice
del nostro presente: non a caso il generale von Ligntz vive appunto nel periodo
romantico, partecipandovi in prima persona con le sue idee, le sue composizioni
letterarie e musicali e le sue amicizie, e ancora di fondo romantico sono la
personalità e le aspirazioni del giovane agitatore, con tutte le sfumature che
ciò comporta in tempi che con il proprio grigiore ne sono la negazione, anche
se appunto per questo con maggior forza vi spingono chi non intende
assoggettarvisi (salvo poi scoprire di aver giocato con il proprio un gioco di
altri: che cioè il burattinaio è solo un impiegato del teatro).
Lignitz
sa che la guerra non conosce regole, come vorrebbero invece i federiciani,
perché è il luogo dell’irrazionale e dell’instabile, un “gioco” nel quale più
essenziale dell’intelligenza è l’attesa, l’adeguamento alle circostanze,
l’azzardo e l’entusiasmo per gli ideali, e non intende forzare il destino
perché è impossibile sia sovrastare i tempi che circoscrivere una realtà
inafferrabile. L’agente nazista invece cerca un’assoluta indipendenza e la
propria affermazione individuale, vuole tracciarsi un destino rettilineo
forgiando avvenimenti ai quali non dà la sua adesione solo con il gioco vigile
della sua intelligenza dell’intrigo, e nemmeno dice di aderire al nazismo nel
quale vede solo lo strumento più adatto ai suoi scopi, tutto preso nel culto
della giovinezza che implica l’assoluta padronanza di sé e degli altri, lo
“stare sulla cresta fino all’estremo” e il rifiutare “anche la più piccola
particella di responsabilità”.
A Lignitz
“le azioni interessavano solo quando erano sul punto di compiersi. Quelle già
compiute lo annoiavano”; egli infatti “aveva fatto propria la massima del
Maresciallo di Sassonia. ‘Meglio partire che riuscire nella vita’”. Il giovane
agente cerca invece nell’avventura la coincidenza tra sogno e realtà e lascia
l’Occidente in preda al caos, ma dominato dall’ordine della tradizione, per
realizzarla nell’Oriente, dove l’immane disordine gli permetterebbe
l’imposizione di un ordine tutto suo. Ma le sue suddivisioni sono troppo
schematiche: Occidente e Oriente, anziché separabile con il coltello, si
intersecano, l’uno domina l’altro, e anche partiti non si è mai abbastanza
lontani, così che l’avventura si risolve sinistramente nella trama più ampia di
ciò che intendeva fuggire. C’è da chiedersi tuttavia, per finire, se von Lignitz,
che pure viene presentato come personaggio positivo (ma non potrebbe essere
altrimenti in un elogio funebre), non contenga appunto per questo gli elementi
ironici della sua critica, e in fin dei conti se proprio delle sue premesse, o
di alcune tra esse, sia il romantico agitatore che il mondo che lo produce non
siano la logica conseguenza.
Jean-Jacques Langendorf, Una sfida nel Kurdistan, Adelphi, Milano £ 5.000
Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz, ib. £ 3.000
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