08/06/18

D.M. Thomas, L’albergo bianco, Frassinelli, 1983



Nel carteggio apocrifo che fa da prologo a L’albergo bianco (pubblicato nella bella traduzione di M. Amante dalle edizioni Frassinelli), Freud scrive al grande discepolo e amico Ferenczi: “Una mia paziente, una giovane afflitta da una grave isteria, ha appena “dato alla luce” degli scritti che paiono fornire un supporto alla mia teoria (della pulsione di morte, ndr.): una fantasia libidica spinta all’estremo, combinata con un’estrema morbosità. E’ come se Venere si guardasse allo specchio e vedesse la faccia di Medusa”.
Nell’emergenza di questa figura che è mortale fissare direttamente, nella sua sempre più netta delineazione a partire dall’altra figura nello specchio, fino ad uscirne per dilatarsi da un luogo senza nome che è in noi ai luoghi più innominabili (ma che proprio per questo più degli altri si deve con insistenza indicare e nominare) della storia, possiamo individuare una delle più feconde vie d’accesso a questo notevole libro, stratificato e insieme leggibilissimo.
Ma come Medusa non è un semplice riflesso o l’avversario complementare di Venere, così non è lineare la sua espansione dalla dimensione infrapersonale a quella interpersonale prima e collettiva poi. Il reticolo che conduce dalla storia privata di Lisa Erdman al massacro di 34.000 ebrei a Babi Yar, come il rapporto tra Eros e Thanatos è, cioè, pluridimensionale, fitto di intersecazioni, legami, accavallamenti, contrasti, connivenze, interruzioni, ritorni e cambiamenti di livello, come la struttura stessa di questo romanzo nella varietà e discontinuità delle sue sezioni e dei suoi linguaggi. I quali non mancano, tuttavia, di moltiplicare echi e riprese o variazioni, che se da un lato creano un insieme coerente e compatto oltre le membra sparse, dall’altro consentono un ampliamento semantico e concettuale su più piani e da più angolature. Quasi a ripetere, ai vari livelli semantici, simbolici e stilistici, quella che in psicanalisi viene chiamata surdeterminazione. Così che, assecondando i suggerimenti e le tracce sparse nel testo, le sei sezioni che seguono il prologo si fanno leggere, frazionare e ricomporre in vari modi, non solo tutti legittimi, ma tali da arricchirsi l’un l’altro.
La prima di queste sezioni è composta da un poemetto scritto nelle interlinee di uno spartito del Don Giovanni di Mozart, ulteriore conferma della centralità del tema amore-morte. In esso la protagonista racconta un allucinato incontro erotico con un figlio di Freud in un albergo bianco attorno al quale si susseguono eventi straordinari e mostruosi, come tempeste, incendi improvvisi e caduta di stelle.
Sotto forma di un diario in terza persona questo episodio viene ripreso e sviluppato nella seconda sezione, alla quale fa seguito, molto abilmente modellata su quelle vere, l’analisi del caso da parte di Freud, che ci permette di ricostruire la vita della protagonista e la sua storia interna , fino alla radice della malattia legata soprattutto alla madre, perita nell’incendio di un albergo mentre consumava un suo amore più o meno clandestino.
La quarta sezione racconta la storia di Lisa dopo l’analisi, apportandovi anche correzioni e integrazioni, e accompagna la sua attività di cantante lirica fino al matrimonio con un collega che segna il suo ritorno in Russia, alle origini. Proprio qui Lisa resta coinvolta nel massacro di Babi Yar, che viene narrato con molti particolari che D. M. Thomas ha potuto desumere da un libro di ricostruzione e testimonianze di A. Kuznetsov.
Non è questa tuttavia la fine del libro, che termina infatti con una specie di sogno escatologico, il racconto di una risurrezione, quasi che il treno diretto in Israele sul quale pensavano di partire le ignare vittime, le avesse davvero condotte nel paese dove si possono reincontrare tutti coloro  con i quali si è vissuto e chi si è amato, per vivere serenamente, chiarite le menzogne e gli equivoci del passato e nominati i segreti.
Ogni sezione ha una sua traiettoria narrativa e un suo linguaggio, che va dal poetico al saggistico al documentario, ma la forza del libro consiste nel non aver ceduto alla facilità della frammentazione del caos e nell’aver saputo ricondurli a una superiore unità e coerenza sia di tono che di struttura, assumendo in tal modo una tensione etica ben lontana dalla semplice constatazione del mondo crollato in schegge incoerenti e dalla sua speculare esibizione nell’opera, come avviene spesso con un gesto che si vorrebbe oggettivo ma che di fatto si rivela consenziente e banale.
C’è in L’albergo bianco come un partito dell’oggettività che prende la forma di reperti esibiti senza commenti, ma si tratta a ben guardare di un’esigenza di misura nel tono della scrittura, onde evitare, anche nei momenti più eccessivi e violenti, la retorica complementare del moralismo e del cinismo, e che riesce anzi a coniugare ironia e pietà in una sorta di diffusa tenerezza. Proprio quella tenerezza nella quale Lisa e la madre riconoscono, nel loro incontro finale, la forma più degna dell’amore e la radice di ogni speranza e salvezza. La tenerezza, e non l’amore, troppo strettamente legato, nell’esperienza di Lisa, alla violenza e alla morte. Quest’ultima scena credo possa indirizzare verso un’ulteriore interpretazione del significato dell’albergo bianco, oltre quella canonica del corpo della madre, “luogo senza peccato, libero dal nostro fardello di rimorso”.
Tra le diverse possibilità di lettura e collegamenti fra le sei parti del libro cui accennavo prima, una delle più evidenti è quella che rapporta la prima all’ultima sezione, segnate rispettivamente da una marca edenica prima e dopo il tempo, quello della caduta e della storia, ma volte in direzione opposta. L’albergo bianco del poemetto si può intendere come il luogo chiuso dell’abbondanza e dell’appagamento dei desideri, ma anche della distruzione, che si rimpiange fuori da ogni possibile ritorno, mentre nell’ultima parte esso si configura come un campo aperto che si desidera e forse si può raggiungere, come utopia positiva che non cancella il tempo e l’errore ma opera verso una conciliazione, senza la quale la storia finisce a Babi Yar.

20-05-1983

 
D.M. Thomas, L’albergo bianco, Frassinelli, Milano, 1983, p. 306, £ 12.500

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