Nel 1936 Jean Cocteau, per rendere
omaggio a Jules Verne nel centenario della nascita, decide di ripetere
l’impresa del Il giro del mondo in
ottanta giorni, romanzo dal quale anch’egli, come generazioni di altri
bambini, aveva imparato “il gusto dell’avventura e il desiderio di viaggiare”.
Ma nei resoconti che scrive per Paris-Soir
poi riuniti in questo volume, di avventuroso non c’è nulla, al massimo qualche
serata passata nei quartieri a luci rosse o nelle fumerie d’oppio delle città
orientali (ma senza “toccare la pipa”); per il resto il viaggiatore Jean
Cocteau non dimentica mai di essere in primo luogo un poeta, e in quanto tale
il viaggio per lui non può che avere al proprio centro la bellezza, “come si
presenta e il posto esatto che occupa”, esattamente quello che , a suo parere,
“i viaggiatori non raccontano mai”. Non c’è il tempo, e forse nemmeno la
voglia, di conoscere realtà e persone, anche se non mancano accenni alla
società e alla politica del fascismo e del colonialismo; tutto sfila come una
parata che sembra interessare principalmente per il fascino dei paesaggi e
delle opere d’arte, per le emozioni che l’armonia dei corpi, i colori, le fogge
delle vesti e il gusto dei cibi possono suscitare e per la possibilità poi di
trasformarle in immagini e parole da degustare come un frutto squisito. Il
primo colpo d’occhio è già la verità, la prima impressione si tramuta
istantaneamente in formula, a nessun luogo sarà fatta mancare la sua bella
definizione, spesso di sapore dannunziano (Roma è una “città pesante”, mentre
Atene è “leggera”; Il Cairo è “una città morta” e New York, “un giardino di
pietra”), così come non mancheranno quegli spunti meditativi e morali, meglio
se un po’ provocatori, la cui assenza stonerebbe al cospetto di culture diverse.
Eppure, se gli ingredienti dello stereotipo del viaggio dell’esteta sembrano
tutti presenti, raramente Cocteau finisce per caderci, in primo luogo per
l’attenzione prestata alla scrittura, al solito curata proprio nella sua
apparente immediatezza, ma soprattutto per l’adesione non manierata, mai
astratta, spesso corporea anzi, per il mondo che vede e le persone che gli è
dato, sia pure di sfuggita, di incontrare. Non a caso i momenti migliori sono
quelli in cui maggiore è la presenza dell’esterno e dell’altro, in particolare
le descrizioni degli spettacoli e dei loro protagonisti, si tratti del kabuki o
dei musicisti e dei danzatori di Harlem. Quando poi il caso gli fa incontrare
Chaplin su una nave, la descrizione quasi devota del suo carattere e dei suoi
progetti e la registrazione dei suoi discorsi si innalzano al punto che
basterebbero queste pagine a giustificare la lettura del libro.
Jean Cocteau, Il mio primo viaggio - Il Giro del mondo in 80 giorni, ed.
Olivares, Milano, 1994, pag. 245, £. 15.000
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