“Se vi trovate sul Pianeta Terra mentre leggete queste cose: Buona fortuna.”
Chi non vorrebbe andare a spasso per l’universo in autostop? Saltare a scrocco da un pianeta all’altro della galassia; sentire qualcuno che non racconta la solita solfa; innamorarsi di qualche creatura strana e poco pericolosa, diversamente da qui; visitare il “Museo dell’Immaginario demenziale di Maximegalon” (al solo pensiero vado in brodo di giuggiole); nuotare in mari di altri colori sotto cieli con altre stelle, da cui andarsene prima che diventino anche loro consuetudine? In attesa che qualche astronave transiti di qui e ci dia un passaggio, possiamo sempre farci le ossa e imparare alcune nozioni indispensabili leggendo la trilogia in cinque volumi di Douglas Adams (1952-2001), Guida galattica per gli autostoppisti. La serie, che è poi diventata anche radiofonica, televisiva, film e videogioco, ripete il titolo del primo volume, uscito nel 1979 e subito diventato oggetto di un culto che non mostra sintomi di cedimento, tanto che ad esso sono dedicati siti, club e tutti i parafernalia che attorno agli oggetti di culto proliferano, incluso l’equivalente del joyciano Bloomsday, il “Towel Day” che si celebra ogni 25 maggio, a cui si può partecipare indossando per tutto il giorno “la salvietta” (“Towel”, appunto) che gli dà il nome (si raccomanda anche il resto), l’unico aggeggio veramente indispensabile per chi viaggia per la galassia, meglio se recante la scritta “Niente panico”, che campeggia anche sulla Guida. Gli altri titoli sono Ristorante al termine dell’Universo (1980), La vita, l’universo e tutto quanto (1982), Addio, e grazie per tutto il pesce (1984) e Praticamente innocuo (1992), ora riuniti, assieme al racconto “Sicuro, sicurissimo, perfettamente sicuro” nel volume Guida galattica per gli autostoppisti. Il ciclo completo (traduzione di Laura Serra, Mondadori, Oscar absolute, 2016, p. 884, E. 16,50).
Scampare per un pelo alla demolizione della Terra per far luogo a un’autostrada spaziale, nemesi planetaria per tutte le superstrade e tangenziali che hanno spazzato via il paesaggio e le case di molti che abitavano lungo i tracciati progettati (come stava per capitare al protagonista del ciclo, Arthur Dent, poco prima che l’amico Ford Prefect, che lui ignorava essere un alieno, lo salvasse, portandolo con sé proprio sulla gigantesca astronave che stava per polverizzare la nostra, al momento, unica dimora), e poi viaggiare a tutte le velocità e seguendo tutte le rotte, calcolate e imprevedibili, grazie al motore a “propulsione di improbabilità infinita” (praticamente una definizione dei meccanismi narrativi ideali per libri come questi), consultando un piccolo volume elettronico con quasi due milioni di pagine come unica guida. La guida è in continuo, ma non sempre attendibile aggiornamento: per esempio la voce dedicata al pianeta Terra, opera di Ford Prefect, che constava in origine di decine di pagine, è stata ridotta, dopo i soliti numerosi passaggi redazionali, a due sole parole: praticamente innocuo (il titolo del quinto volume della trilogia). Inutili anche quelle dopo la distruzione del pianeta.
Quello in cui si trovano a viaggiare i protagonisti della saga è un universo di infiniti mondi in cui tutti, i tanti simil-umani e le innumerevoli altre forme di vita intelligente, grazie soprattutto al pesciolino babelfish che introdotto nel canale uditivo diventa un traduttore universale, riescono a intendersi, anche se non sempre a capirsi. Molti sono coloro che viaggiano e visitano i pianeti in incognito, specie quelli arretrati come il nostro, come accade per Ford Prefect che, venuto per aggiornarne la voce sulla Guida, ci resta imprigionato per 15 anni (non troppo a disagio peraltro), o in viaggio di piacere come il bicefalo Zaphod Beeblebrox, che diventerà il presidente della galassia; altri apertamente, dove le relazioni planetarie sono già in atto da tempi immemorabili, per commerciare, o per vacanze esotiche o ricerche mistiche, o per distruggere questo o quello, che è da sempre un’attività tra le preferite da tutte le specie aliene e no, come sanno anche i bambini della nostra che con essi condividono un sistema di valori piuttosto disinvolto.
L’alieno è un altro noi, più o meno, al quale ci si abitua abbastanza in fretta (come facciamo anche con l’alieno che noi stessi siamo), e gli altri pianeti hanno quasi tutti qualche tratto del nostro, a partire dai baracchini degli hot-dog e dei bar dove suona qualche band: magari quella di uno appena sceso da un’astronave rosa con le alette, che tutti chiamano il Re, e altri non è che Elvis, che si scopre non essere stato rapito, come vuole la leggenda, ma essersene andato di sua spontanea volontà. I re si stufano, è noto.
Colui che si trova senza volerlo impelagato in questi viaggi è l’ultimo uomo, più o meno come lo siamo tutti, quanto a noi stessi… Quello che se ne va, costretto o meno, è sempre l’ultimo. Una volta che è partito, gli altri spariscono, restano solo nella memoria, che a volte è amaro rimpianto e più spesso leggera nostalgia: una nostalgia che ha perso il suo oggetto, sparito per sempre in questo caso, o che forse sarà ritrovato in qualche universo parallelo, o in qualche angolo di questo, rifatto tale e quale per ovviare all’errore della sua demolizione, affidato da qualche specie superiore (come i due topolini bianchi che gli scienziati credevano fossero delle cavie, mentre il vero oggetto di studio erano loro e tutti gli umani…) a squadre di costruttori di pianeti, ingegneri, biologi e progettisti vari, di fiordi per esempio, che vengono risvegliati apposta dopo milioni di anni di ibernazione per mancanza di ordinazioni.
I viaggi sono costellati da inseguimenti, fughe, avventure, colpi di scena, che vedono susseguirsi come co-protagonisti e comparse i personaggi più strambi e disparati dall’“uomo che governa l’universo”, che vive, sfasato e un po’ hippie, in una baracca in riva al mare su un lontanissimo pianeta; a stolidi distruttori burocrati la cui arma più micidiale è la loro poesia, temutissima da tutta la galassia; a Worbagger, lo Sfanculatore errante, diventato immortale per sbaglio, che passa il suo tempo infinito a “insultare l’universo”, sbeffeggiando tutti i suoi abitanti secondo un rigoroso ordine alfabetico; a umanoidi dolcissimi e pacifici, che non appena escono dal loro isolamento si mettono a fare guerra ogni altra specie vivente con l’obiettivo di sterminarle tutte, restando dolcissimi tra di loro (come le SS che piangevano sentendo Beethoven e scrivevano lettere commoventi ai pargoli lontani); a popolazioni fanatiche del cricket (forse le peggiori) e via di questo passo.
Il tutto scandito da una raffica di idee talmente strampalate che la loro sfida alla coerenza mette capo a una coerenza sui generis, una coerenza caotica, altamente improbabile eppure che tiene e funziona benissimo anche dal punto di vista narrativo, che è quello che poi conta.
Da ogni pagina traspare la gioia sfrenata di inventare, di dare nomi a interi mondi, ai loro abitanti e oggetti e opere, di creare situazioni sorprendenti e divertentissime, con grande dispiegamento di tutte le strategie di delusione delle attese, spiazzamento, rovesciamento, estraniazione ecc., che però, se suscitano meraviglia e piacere, possono anche portare da una parte timore, ansia da spaesamento e perdita di riferimenti nel vedersi sparire, letteralmente nella Guida, la Terra sotto i piedi e con essa la certezza delle apparenze. Viceversa però, dallo spaesamento e dall’angoscia può anche derivare gioia, sorriso e persino riso dionisiaco, liberatorio, non appena si vede che è possibile stare in piedi senza Terra, o su un’altra che non si sospettava nemmeno (“Sì, è sicuramente il pianeta giusto” ripeté. “Il pianeta, giusto, l’universo sbagliato.”), e si impara a conoscere mondi nuovi in modi nuovi, estendibili anche al resto delle convenzioni, dei comportamenti e sentimenti in cui credevamo di essere avvolti e protetti, essendone al contempo imprigionati, una volta per tutte. Il ventaglio delle reazioni può andate da disorientamento e angoscia sempre pronta a riaffiorare (Arthur, in genere più stordito che acuto: abbastanza stupido insomma da poter assurgere a rappresentante legittimo di noi tutti – esclusi i lettori), a euforia esuberante e estrosa (Zaphod) o incline all’incazzatura ma capace anche di lasciar correre senza nessuna ombra di moralismo (Ford), e una propensione all’avventura smodata e insieme ragionevole, fifty fifty (Trillian, l’altra terrestre sopravvissuta, che ha seguito senza rimpianti Zaphod quando questi le ha offerto di viaggiare con lui negli spazi infiniti: poi tornerà in una versione meno accattivante nell’ultimo volume, novella Eva dell’improbabile nonché inconsapevole Adamo-Arthur, tramite uno dei campioni di seme da lui venduti alle diverse banche del seme della galassia per guadagnare qualche spicciolo e continuare i suoi viaggi).
La comicità può anche rivestire un ruolo critico, a volte bonario, altre feroce, come quello, ricorrente, della tecnologia: porte e ascensori parlanti untuosi o riluttanti a fare il loro mestiere; un “rivoluzionario modello di fermacarte”; il “cacciavite dentato (che) ha bisogno di un cassetto buio e impolverato in cui restare per anni”; robot che hanno perso la bussola; un’astronave in ritardo di novecento anni … e soprattutto, uno dei personaggi più riusciti del ciclo, Marvin, il robottino CPV, “con caratteristiche di persona vera”, che serve Zaphod sulla Cuore d’oro, l’astronave che viaggia a velocità maggiore della luce da lui rubata per spassarsela in giro per l’universo – così almeno crede. Marvin ha un “cervello grande come un pianeta” ma è sempre depresso, perché sa e sa fare tutto mentre gli vengono richiesti solo servizi banali (più o meno quello che, democraticamente, chiede al cervello la maggior parte degli umani: lo faccio sempre anch’io…). Sa tutto e proprio la sua lucidità, il vedere sempre e comunque dove va a parare ogni cosa senza potersene dimenticare un istante, accentua la sua depressione paranoica, che si traduce in lagna perenne, con il solo effetto di scocciare tutti, esattamente come lui teme (perché l’imperativo dei robottini domestici, lo sanno anche i bambini, è di essere amati; non come noi). Il computer di bordo della Cuore d’oro, invece, è sempre pimpante e allegrissimo, ma con l’identico risultato tuttavia di rendersi altrettanto, se non più fastidioso ancora. La tecnologia non ha tatto. Marvin sa tutto, tranne una cosa, cioè dimenticare, passar sopra e ridere, che è esattamente quello che a volte riescono invece a fare quelli che sanno molto meno, ma qualcosa comunque sì; e quello che probabilmente farebbe sempre uno che davvero avesse capito tutto (come insegnano alcuni rari dei: rivelazione a cui anche Marvin dopo milioni di anni arriverà quando avrà letto la parola definitiva di dio, che non svelerò – il bello è la ricerca, no? –, così che potrà spegnersi sollevato, se non contento). Non so se noi lo abbiamo capito, o se ce lo ricordiamo sempre, ma sono certo che almeno il sospetto ci verrà, ogni volta che ridiamo leggendo la Guida. Si spera, almeno.
È difficile dire se il ciclo della Guida, proprio in quanto comico, possa essere definito un’opera di fantascienza. Ci può essere una fantascienza comica? Ironica magari sì, almeno in parte, con qualche spruzzo di comicità pure; paradossale e inattendibile pure, per definizione; ma comica? Strutturalmente comica, intendo, comica nel suo principio e motore? Non so; però una cosa è certa: se prima non c’era mai stata, con la Guida ha preso ad esserci. Ci sono stati sviluppi? Lo ignoro. Ma ne dubito, anche se alcuni prodotti hollywoodiani recenti, sulla falsariga di fumetti e cartoni animati, sembrano aver tentato questa strada, con risultati alterni, a volte gradevoli ma mai di più. La Guida, mi pare, inventa un genere di cui essa stessa è la cattedrale e insieme la pietra tombale, e questo basta a dirne il valore.
L’assenza di vincoli e riferimenti, se toglie il respiro e suscita angoscia, può aprire anche lo spazio alle ipotesi più inverosimili, a storie e tempi alternativi, avventure inaudite e paradossi, a una contrologica comica insomma, che è poi quella su cui è costruito il ciclo della Guida. Dove certo l’angoscia in fondo persiste (molto in fondo) per affiorare solo a tratti, rigettata e messa in sordina ma mai del tutto eliminata dal comico, che ad ogni buon conto resta una tecnica di sviamento e attenuazione raccomandabilissima, se non di superamento definitivo, auspicabile quanto impossibile. (Comunque anche l’angoscia finisce prima o poi, tranquilli, non è il caso di darle troppo peso.)
Il comico, da parte sua, non è così facile come sembra, i meccanismi sono fragili, l’equilibrio delicato e sempre a rischio di spezzarsi e di trasformarsi in banalità troppo legata alla contingenza o, alla meno peggio, in spiritosaggine, che tuttavia ha la deplorevole tendenza a irrancidirsi. In Adams però questo avviene di rado, ciò che la dice lunga sulla qualità della sua invenzione, anche linguistica. Ma quando capita, specie nel terzo e nel quarto volume, dopo che i dialoghi e lo sminuzzamento delle azioni e delle intenzioni sono stati tirati in lungo con il solo scopo di esasperarti e di aumentare la suspense, o di arrivare alla fine del capitolo o della puntata radiofonica, invece del climax o del colpo di scena non c’è nessun premio (non dico consolazione o altri benefici minori, anche quello, a mio parere maggiore invece, di un’apertura alla conoscenza), c’è solo il flop della delusione e della noia, superata solo grazie al credito accumulato in precedenza dall’autore, che ha reso il lettore benevolo.
Nel quarto volume, Addio, e grazie per tutto il pesce (a parte il titolo, bellissimo come tutti gli altri, e particolarmente misterioso, finché non si scopre che è l’ultimo messaggio lasciato dai delfini prima di abbandonare il pianeta per sfuggire alla sua distruzione), a peggiorare le cose entra in ballo anche una storia d’amore, per quanto stralunata. Adams sembra indeciso se cantare l’amore o parodiare il peraltro non molto vario spettro delle sue rappresentazioni, a dispetto del loro infinito numero, o forse proprio per questo, ma poi finisce per parlarne in entrambi i modi contemporaneamente, col prevedibile effetto di irritare gli animi poco propensi al lirismo (tra i quali teoricamente sarebbe da annoverarsi anche lui, se non fosse che il rifiuto sistematico del lirismo tradisce una proporzionale propensione; a meno che in quel periodo fosse innamorato, che comunque non è una scusa – semmai un’aggravante).
È il rischio di tutti i libri e i film comici, quando non sorretti da un robusto editing (leggasi: una brutale castrazione) e da un ritmo narrativo, come nella Guida, serrato e ricco di sorprese stupefacenti che sembrano partire per tutte le tangenti, inclusa quella che porta al ristorante da cui si può assistere in diretta alla spettacolare fine dell’universo, e invece non fa che parlarci di noi, della Terra, della vita e tutto quanto.
Arthur Dent, il protagonista di queste peregrinazioni senza trascendenza (Dante di cui Ford Prefect è la guida-Virgilio), è il principale tramite di questo discorso sottotraccia, che attraversa comunque, di rovescio o di traverso, tutte le vicende e le avventure. Lui vi è costretto dal caso, controvoglia, sorretto da nessun altro scopo, si direbbe, al di fuori della mera sopravvivenza, mentre Ford le abbraccia per “lavoro” e perché gli piace l’avventura, e Zaphod perché… boh, non lo sa nemmeno lui, in quanto ha bloccato l’accesso a una parte di uno dei suoi due cervelli proprio per non saperlo (o per qualche altro motivo che si scoprirà in corso d’opera).
L’erranza
che sembra senza meta si scopre poi guidata da un disegno, o da un destino,
nascosto; la peregrinazione diventa un pellegrinaggio; la perdita di
orientamento e di luogo, una quête: tutti i viaggi finiscono fatalmente per diventarla, metafisica o
d’accatto, poco importa. La sostanza è quella. La Guida, laica da cima a fondo, non sfugge alla regola.
Quête di
risposte che magari arrivano ma restano incomprensibili; di frasi finali che
non spiegano niente; di un’altra Terra da abitare; di una chiave a forma di un
paletto da cricket distrutto e disperso nella galassia che libererebbe un
pianeta con conseguenze apocalittiche per l’universo tutto; persino di un amore…;
ma sempre in chiave comica. Perché l’oggetto di queste ricerche può anche avere
una sembianza o un retrogusto metafisici, ma la narrazione si mantiene
radicalmente laica. L’unica sacralità che Adams riconoscerà, sarà quella della
vita, destinata però a restare un mistero.
Cerchiamo
risposte definitive e non le troviamo, e se anche per caso ci capitasse di
conoscere l’ultimissima, quella decisiva, che come tutti sanno è “42”, non
sapremmo formulare l’esatta domanda a cui essa risponde. Per arrivare a
conoscerla c’è voluto un immenso computer e milioni di anni di elaborazioni;
per la domanda ne sono stati necessari molti di più e un elaboratore ancora più
complesso, “che fu chiamato Terra, (…) talmente immenso che spesso veniva
scambiato per un pianeta”, che però, ahimè sarà distrutto per errore qualche
minuto prima di portare a termine il suo compito (poi, per ironia della sorte
si saprà che la superstrada era stata deviata ma che i distruttori o non erano
stati informati in tempo o avevano fatto finta di non saperlo, perché tanto
erano già lì e non se ne sarebbero andati senza finire il lavoro: la deontologia
della distruzione non contempla eccezioni). E anche il Messaggio Finale di Dio
al Creato, che campeggia sulla cresta delle Montagne di Quentulus Quazgar su un
pianeta remoto a lettere fiammeggianti (come Hollywood, più o meno), sarà forse
consolatorio (o suscettibile di irritare ancora più della sua assenza…), ma non
cambierà niente, dato che niente deve cambiare, e dio stesso non è poi così
potente come si crede ecc…“Un giorno il Vecchio Sozzurlo aveva detto che a volte, se si riceve una risposta, si può anche eliminare la domanda.”
C’è questo errore fondamentale di cui spesso non si tiene conto: non è detto che la risposta migliore a una domanda precisa debba per forza essere diretta; e viceversa non è detto che la risposta giusta debba arrivare solo a una domanda precisa; l’una e l’altra possono essere declinate in tanti modi e forme, in gran parte indiretti; e infine, soprattutto, non è affatto detto che una risposta e una domanda giuste, magari anche dirette, esauriscano e mettano a tacere tutto il brulichio di rispettive domande e risposte indirette o diversamente formulate che già in esse, non fuori o di lato o sopra o sotto, convivono. E allora: quali sono le domande per “42”? E quante risposte “42” è?
“Qualcuno ha voglia di bere qualcosa con me?” chiese.
“Guarda che è un canale d’emergenza, bello” gracchiò una voce dall’altra parte della galassia.
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