Ieri mattina
quando ho incontrato l’uomo che saluta alzando l’avambraccio di scatto stava maneggiando
per prendere una sigaretta direttamente dal pacchetto senza toglierlo dalla
tasca. Alla fine c’è riuscito, proprio mentre ero giunto quasi alla sua
altezza, tanto che ha rimediato al ritardo del saluto estraendo la mano in
tutta fretta e alzando il braccio con uno scatto ancora più rapido e secco del
solito con la sigaretta spenta tra le dita rigide, quasi stritolandola, ma nel
farlo qualcosa gli è caduto di tasca senza che lui se ne accorgesse. Sorpreso
dalla manovra, ho risposto al suo saluto con un buongiorno più sonoro del
solito e solo un attimo più tardi mi sono accorto del pezzo di carta che svolazzava
verso la polvere dello sterrato. Nel frattempo lui mi aveva già superato e io ho
evitato di farglielo notare, con la scusa di non interrompere la sua andatura
veloce e meccanica per qualcosa che certo non aveva importanza, un fazzoletto
sporco o cose del genere (a volte mi tratto da anima bella), ma di fatto già
pensando di lasciarlo allontanare fino a dopo la prossima curva per tornare io
a raccoglierlo e vedere cos’era, nella speranza inconfessata neppure a me
stesso di scoprire qualcosa su di lui. (E’ quando faccio il cinico che cerca di
illudere il se stesso ingenuo, che sono davvero un’anima bella fino al midollo:
il midollo dell’anima). L’idea, mentre mi chinavo a raccoglierlo e lo mettevo
in tasca con un gesto furtivo che ora mi fa un po’ ridere (il 20 %) e per il
resto mi imbarazza profondamente, era che avrei potuto restituirlo oggi o domani,
o lasciarlo dopo avergli dato un’occhiata sul ciglio della strada dove era
caduto.
Si
trattava di un foglio a quadretti piegato in quattro con un margine un po’
slabbrato come se fosse stato strappato da un quaderno, riempito di sui due
lati da una scrittura minuta e piuttosto fitta, che non rispetta le righe ma
tende a fare una curva verso l’alto dalla metà in poi come se chi scriveva
fosse in una postura scomoda, di lato, o il piano di appoggio fosse irregolare,
ma tutto sommato leggibile, a parte alcuni brevi passaggi dove l’inchiostro non
ha fatto bene presa o è stato sciolto in qualche macchia, di unto o altra
materia che non intendo indagare.
C’è
scritto questo:
C’è
quest’uomo anziano, con gli occhiali e un cappellaccio in testa d’estate e
d’inverso (diversi per materiale e colore, ma simili) che incrocio spesso sulla
via sterrata lungo il naviglio o nel tratto asfaltato successivo, verso
Groppello: io che salgo, lui che scende, mai il contrario. Cammina con passo
spedito, a volte con gli auricolari o che maneggia il cellulare, altre con un
libro in mano, che si affretta a chiudere quando mi vede da lontano, mettendolo
in tasca o tenendolo nella sinistra quasi incollata alla coscia, come se questo
bastasse a nasconderlo. Altre invece è così assorbito nella lettura che mi vede
solo all’ultimo momento, come capita anche a me, che in questi casi lo saluto
alzando di scatto l’avambraccio senza profferire sillaba, al che di solito lui
risponde con un cenno della testa o, più raramente, con un buongiorno. Non è
che io saluti tutti in questo modo, ma mi è capitato di farlo con lui un paio
delle prime volte che ci siamo incrociati, forse sovrappensiero o per qualche
maneggio in cui ero impegnato, e poi ho ripetuto il gesto ogni volta perché mi
è parso di capire, da un lampo strano nei suoi occhi, che lo gradisse. Vai a
capire perché. Forse gli piace questo saluto veloce e silenzioso perché non
disturba la sua lettura, quella che continua nella sua mente anche a libro
momentaneamente chiuso, o i suoi pensieri. Mi guarda quasi di sfuggita, come se
mi vedesse sui margini del suo mondo pronti a inghiottirmi e dimenticarmi in un
attimo, e saluta anche lui in modo veloce per tornare appena può alle sue
occupazioni. E’ uno che immagina cose, temo… Temo che gli piaccia.
Se non
legge, cammina con la testa china di chi esplora il terreno, più che dell’uomo
depresso. Magari lo è pure, ma chi può dirlo? Oppure basta pensare per essere
depressi? Non so. Allora lui è insieme depresso e attento, depresso e svagato,
depresso e curioso, perché qualche volta che l’ho osservato in questi
frangenti, mentre era intento, mi è parso che alzasse e muovesse la testa a
guardare di là dal canale alla sua sinistra, verso gli alberi e le ville
dell’alta riva, o giù verso la boscaglia e, sotto, il fiume alla sua destra, o
in altro verso il cielo, le nubi, la luna, nei mattini che è visibile a ovest.
E’ in
genere ben vestito, non certo con eleganza da occasioni ufficiali ma sempre un
po’ al di sopra di quello che ci si aspetterebbe da uno che va a passeggio, mai
in tenuta sportiva comunque, a parte i bermuda nelle giornate più calde, di
discreta qualità comunque e accompagnati da camiciole di lino o da belle
magliette polo dai colori ben combinati. E’ sempre ben rasato, con i capelli
più bianchi che grigi tagliati corti, da quel che ho notato le rare volte che
era senza cappello, e, come si suol dire, dimostra un po’ meno degli anni che
ha o dovrebbe avere, che sono, o dovrebbero essere, un po’ di più di quelli che
dimostra. Quanti di preciso non saprei. Sopra i sessanta ad ogni buon conto.
Nonostante questo decoro esteriore che di solito è caratteristico di uomini che
abitano con una donna che li tiene sotto controllo, o per una lunga
consuetudine di vita, per dovere professionale (ha l’aria di essere un impiegato o piccolo funzionario in pensione), mi dà l’idea di essere un uomo
solo. Totalmente, irrimediabilmente solo; e non tanto perché non l’ho mai visto
in compagnia (qualche volta fermo a scambiare qualche breve battuta con
qualcuno sì, però), ma per la sua postura complessiva, per come si muove: non
nel modo spontaneo, funzionale, e quindi bello, o quasi, di chi si muove come è
opportuno farlo in relazione a ciò che sta facendo, ma come per dare
l’impressione, anche quando non c’è in giro nessuno che lo veda, o che lui veda
che lo sta vedendo, di essere solido, felice (o press’a poco), sicuro e
soddisfatto di sé.
Anch’io passeggio sempre da solo, ma lo faccio per respirare, per prendere una pausa da tutta la compagnia che mi sta addosso giorno e notte, che apprezzo e anzi amo tantissimo, ma che rischia di togliermi quel po’ di autonomia a cui mi sono assuefatto fin dalla giovinezza. Lui invece credo che non abbia di questi bisogni. L’unica pausa a cui forse ambirebbe è quella da se stesso, di cui però sono certo che va orgoglioso. O che almeno sbandiera in tal senso, tanto che alla lunga probabilmente se ne è convinto lui stesso. Interrogato direbbe che meno gente ha attorno, meglio sta; che stare solo gli piace. Con tutto che, quando l’ho visto parlare, mi è sembrato gradevole e gentile. Ma a sembrarlo sono capaci tutti. Meglio che non fare nemmeno finta, in ogni caso. Un amico che una volta gli ha chiesto come mai camminasse sempre a capo chino, anche quando non leggeva, che peso gravasse sulle spalle o nella testa, ha risposto: “Niente, sto solo controllando la strada per non inciampare. Guardo i sassi, gli esseri viventi nell’erba, nell’acqua o sui muriccioli. Ho le spalle un po’ curve sin da piccolo. Me lo diceva sempre mio papà (che da vecchio era diventato quasi gobbo)...”
Anch’io passeggio sempre da solo, ma lo faccio per respirare, per prendere una pausa da tutta la compagnia che mi sta addosso giorno e notte, che apprezzo e anzi amo tantissimo, ma che rischia di togliermi quel po’ di autonomia a cui mi sono assuefatto fin dalla giovinezza. Lui invece credo che non abbia di questi bisogni. L’unica pausa a cui forse ambirebbe è quella da se stesso, di cui però sono certo che va orgoglioso. O che almeno sbandiera in tal senso, tanto che alla lunga probabilmente se ne è convinto lui stesso. Interrogato direbbe che meno gente ha attorno, meglio sta; che stare solo gli piace. Con tutto che, quando l’ho visto parlare, mi è sembrato gradevole e gentile. Ma a sembrarlo sono capaci tutti. Meglio che non fare nemmeno finta, in ogni caso. Un amico che una volta gli ha chiesto come mai camminasse sempre a capo chino, anche quando non leggeva, che peso gravasse sulle spalle o nella testa, ha risposto: “Niente, sto solo controllando la strada per non inciampare. Guardo i sassi, gli esseri viventi nell’erba, nell’acqua o sui muriccioli. Ho le spalle un po’ curve sin da piccolo. Me lo diceva sempre mio papà (che da vecchio era diventato quasi gobbo)...”
Sarà, ma io qualche sospetto lo nutro. Per esem-”.
La
scrittura sul verso del foglio finisce con questo mozzicone di parole. Forse
c’è un altro foglio su cui continua, forse il signore che saluta alzando
l’avambraccio di scatto si è stancato di scrivere o ha perso interesse per
l’argomento. Non mi sento di biasimarlo.
“Proprio
così”, ho pensato di scrivere io nella riga sotto, di quadretti tagliati
a metà, con la mia scrittura altrettanto minuta, dopo avere a fatica decifrato
questo presunto, inaffidabilissimo mio ritratto, perché è di me che si tratta, non c'è dubbio. Ma poi ho deciso di limitarmi
a riportare il foglio dove era caduto, in modo che fosse visibile ma non
esibito, come è consuetudine con le chiavi o altri oggetti trovati per terra,
che vengono appesi in bella vista a un ramo o appoggiati su un paracarro o a
una colonnina del guardrail. Ci sono andato un po’ più presto del solito per
non incontrarlo, poi ho fatto un lungo giro su un percorso diverso e quando
sono passato di nuovo di lì il foglio c’era più. Forse l’ha preso lui; forse un
altro dei rari passanti su quello sterrato; forse è volato via. Forse non è
vero niente. A parte il vago senso di amarezza che mi sfarfalla tra i lobi
frontali e l’esofago, che potrebbe però derivare da tutt’altro e non mi
abbandona.
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