Tiene la grande borsa dal
fondo rigido a tracolla verso l’esterno, con nonchalance, o imprudenza, anziché verso l’interno, sul fianco e
sul ventre, difensivamente, come l’amica con cui sta parlando, e quando sta
relativamente ferma, a parte i sussulti della carrozza, non fa altro che
coprire con l’angolo basso una parte della pagina di sinistra del libro che sto
leggendo (Satin Island, di Tom McCarthy: interessantissimo e molto
bello, pure), frapponendosi alla direttrice del mio sguardo verso le righe
stampate in alto, spezzate in diagonale così che devo spostare il volume quando
volto la pagina; quando invece il discorso o la scomodità della postura la
portano a fare piccoli movimenti, lo spigolo della borsa, senza che lei se ne
accorga o mostri di darvi peso tanto da spostarsi abbastanza da evitare il
contatto (il piccolo urto: così da evitare di urtare), picchietta contro la mia
spalla, come per richiamare la mia attenzione distogliendola da quello che sto
facendo verso qualcosa di più importante, di delicatamente decisivo, o come
fanno quelle persone fastidiose che mentre ti parlano ti colpiscono con un dito
il petto o, appunto, la spalla per accertarsi che le stai seguendo perché la tua
attenzione sembra che vaghi altrove o che tu non dia il dovuto peso ai loro
argomenti, o per provocarti, ma qui in modo leggero, quasi impercettibile, data
l’involontarietà, o viceversa ancora più offensivo per lo stesso motivo, in
quanto inavvertito da chi lo produce, perché è come se ti dicesse quanto poco
conti, come un certificato della tua insignificanza emesso da automaticamente un’entità
burocratica superiore anonima, la prova, mentre ti ricordava della sua esistenza, dell’inconsistenza del tuo stesso corpo,
che non fa più ostacolo a niente, il sigillo della tua assenza, non futura ma
attuale, eterna, già da sempre e per sempre. Aveva ragione Marx: tutto ciò che
è solido si dissolve nell’aria.
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