14/10/19

La borsa sulla direttrice



Tiene la grande borsa dal fondo rigido a tracolla verso l’esterno, con nonchalance, o imprudenza, anziché verso l’interno, sul fianco e sul ventre, difensivamente, come l’amica con cui sta parlando, e quando sta relativamente ferma, a parte i sussulti della carrozza, non fa altro che coprire con l’angolo basso una parte della pagina di sinistra del libro che sto leggendo (Satin Island, di Tom McCarthy: interessantissimo e molto bello, pure), frapponendosi alla direttrice del mio sguardo verso le righe stampate in alto, spezzate in diagonale così che devo spostare il volume quando volto la pagina; quando invece il discorso o la scomodità della postura la portano a fare piccoli movimenti, lo spigolo della borsa, senza che lei se ne accorga o mostri di darvi peso tanto da spostarsi abbastanza da evitare il contatto (il piccolo urto: così da evitare di urtare), picchietta contro la mia spalla, come per richiamare la mia attenzione distogliendola da quello che sto facendo verso qualcosa di più importante, di delicatamente decisivo, o come fanno quelle persone fastidiose che mentre ti parlano ti colpiscono con un dito il petto o, appunto, la spalla per accertarsi che le stai seguendo perché la tua attenzione sembra che vaghi altrove o che tu non dia il dovuto peso ai loro argomenti, o per provocarti, ma qui in modo leggero, quasi impercettibile, data l’involontarietà, o viceversa ancora più offensivo per lo stesso motivo, in quanto inavvertito da chi lo produce, perché è come se ti dicesse quanto poco conti, come un certificato della tua insignificanza emesso da automaticamente un’entità burocratica superiore anonima, la prova, mentre ti ricordava della sua esistenza, dell’inconsistenza del tuo stesso corpo, che non fa più ostacolo a niente, il sigillo della tua assenza, non futura ma attuale, eterna, già da sempre e per sempre. Aveva ragione Marx: tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria.

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