La Madonna di Alzano di Giovanni Bellini è uno dei capolavori dell’Accademia Carrara di Bergamo, che è uno dei Musei di città minori più belli e ricchi d’Italia. Il dipinto vi è giunto grazie alla donazione che il grande esperto e collezionista Giovanni Morelli ha fatto della propria Raccolta alla fine dell’800. Ma bergamasco il dipinto lo è da sempre. È accertato infatti che sia stato commissionato al pittore da Alessio Agliardi, che l’ha poi lasciato a sua figlia Lucrezia, da vedova divenuta badessa delle Carmelitane ad Albino, per passare poi, con una sosta secolare su un altare a Alzano, da cui il suo nome, per le mani di alcuni religiosi e collezionisti fino a Morelli. L’opera era conosciuta e amata anche dai fedeli, tanto che anche il grande Giovan Battista Moroni ne ha fatto una bella copia, cambiando lo sfondo, come forse di sua mano è un'altra replica sua contemporanea.
Tra le
numerosissime Madonne belliniane, questa è senza dubbio una delle
più alte, come il volto di Maria è a mio parere uno dei più belli tra quelli
dipinti dal grande veneziano, e dunque di tutta la storia della pittura.
Maria è vicinissima
come lo può essere una donna e una donna-madre, e misteriosa, non solo per i
suoi mirabili lineamenti, il suo contegno, la postura, i gesti accennati, ma
soprattutto come lo è la maternità, l’essere madre, e madre Dio, come un dio è
ogni figlio per ogni madre. Per un uomo, per me, affascinante, nel senso
originale del termine, e incomprensibile. Fuori portata forse non
dell’immaginazione, che è poca cosa, ma del sentimento incarnato, che è tutto,
forse non solo in questo contesto.
Anche la
Madonna Lochis, sempre alla Carrara, o quella della Presentazione di Gesù al tempio della
Fondazione Querini Stampalia, o la Madonna greca di Brera sono
bellissime, ma io preferisco questa. Quella
di Brera è meravigliosa, con quel suo sguardo irrimediabilmente triste, per
quanto composto, trattenuto; ma in quella di Alzano persino la tristezza è
superata, lo sguardo va lontano, all’interno però, verso un luogo dove ogni
emozione si deposita e resta, senza tradirsi in alcun modo. Non chiede
com-passione, non reclama e nemmeno suggerisce nulla, e proprio per questo chi
guarda è indotto, e si direbbe obbligato, a proiettare su di essa tutte le
emozioni che la venerazione e l’amore (e anche la seduzione) possono suscitare,
nel tentativo di colmare l’infinita distanza che proprio dalla prossimità che sembra promessa, favorita e dischiusa dal
taglio a close-up delle figure – dalla prossimità visiva cioè, e della
partecipazione a uno spazio comune accentuato dalla luce dei quadri belliniani,
che più che colpire le cose e i corpi, come dice Hans Belting, li circonda
delicatamente – mentre viene assolutamente preclusa, proiettata in uno spazio
non attraversabile, dalla postura della Donna e da quel suo sguardo che lo
ignora. Inaccessibile come lo è il segreto di ciascuno, spesso persino a lui
stesso; come lo è il dolore. La stessa concezione di Bellini dell’immagine,
come dice ancora Belting sia pure a proposito di un altro quadro, “come luogo
estetico [contribuisce a] allontana[re] la realtà rappresentata” dallo
spettatore.
Se cioè la scelta
di Bellini di dipingere la Madonna a mezza figura, quasi una sua invenzione, è
per portare la Vergine in presenza, come una persona nei ritratti (e difatti
Ritratto mariano era considerato questo genere di opere), o come una visione,
dall’altro la separazione resta. È la stessa funzione che viene affidata al
parapetto marmoreo (che come è noto richiama la pietra sepolcrale e il
sacrificio di Cristo, marcato ancor di più nel nostro caso dal colore rosso del
marmo e dalla pera che vi è posata, allusione al peccato e alla necessità del
sacrificio salvifico di Cristo, e della Madre quindi come nuova Eva), che
introduce e separa: è la soglia che permette al fedele il contatto con il mondo
del sacro ma anche lo tiene al suo esterno. Egli può solo guardare, provare
compassione, pentirsi, pregare, adorare, ma non accedervi, se non mediante il
salto della fede. Lo spazio che apre è quello della visione, che è visione della
coppia sacra, ma anche della pittura, della bellezza dell’opera, perché a
Venezia i quadri, inclusi quelli di devozione, erano anche oggetto da
collezione ormai, visti con sguardo da amatore forse più che da credente. Allo
stesso modo la firma che sul parapetto è apposta è segno della fede dell’autore,
ma anche attestato della sua individualità e del suo valore di artista. Nella Madonna
di Alzano la prevalenza della funzione di separazione è segnalata anche dal
fatto che il bambino non giace sulla pietra né vi sta ritto sopra, magari
sporgendo il piede come a entrare nello spazio del fedele come in altre
varianti, e che entrambe le figure stanno nettamente oltre la soglia, per
quanto avvolte dalla stessa luce del paesaggio alle loro spalle, che sembra il
nostro ma non lo è, e richiama piuttosto un ideale arcadico, pacifico, dove gli
uomini attendono serenamente alle proprie occupazioni, come in un sogno
bucolico, in un paradiso recuperato, o da attingere.
Tra le due figure
in primo piano non sembra quasi esserci interazione, né la Madre né il figlio
indulgono a qualche gesto reciproco, la scena è immobile, contemplativa, come
lo sguardo rivolto verso l’alto del Bambin. Nessun aneddoto, nessuna emozione
sembra trasparire, anche se questo non si traduce in una rappresentazione
ieratica, monumentale. I corpi si stagliano in volumetrie nette, ma, oltre al
panneggio morbido del manto e alla carne soffice del Bambino che evidenziano le
pieghe delle cosce e le fossette sulle manine, il colore impedisce ogni
rigidità, li soffonde dell’aura di corpi vivi, per quanto immobili. Nessuna
scenetta tra loro, nessun gesto esplicito, nessun indizio di presagio, nessuna
smanceria così come nessun dramma.
Mentre in molte
versioni tra la Madonna e il Bambino non c‘è grande contatto (Julia Kristeva
arriva a dire che prevale “la distanza, se non l’ostilità”, la separazione e
nessun “accesso diretto”), qui la Madre tiene il figlio sulle ginocchia, le
mani non solo lo sostengono, ma la destra gli tocca delicatamente il petto,
quasi lo accarezza, anche se gli sguardi non si incontrano. E forse nemmeno si
cercano. Almeno in questa circostanza. Il bimbo guarda in l’alto, ma non è
rivolto verso la madre; mentre lo sguardo di Maria sembra rivolto verso il
basso, con le palpebre un po’ socchiuse, ma non verso il figlio. Il suo sguardo
sembra non avere nessun oggetto concreto, è pensoso, serio, quasi grave, ma la
sua direzione è interiore. Non malinconico, o forse appena un po’; la
compostezza sembra non tradire emozioni, e piuttosto trattenerle, e non certo
per celarle a uno sguardo esterno, per dissimularle, quanto perché l’esterno è
escluso, e quindi anche qualsiasi forma indiretta di comunicazione con lo
spettatore (il fedele); la distanza, che in altri quadri era quella fisica dal
bambino, qui sembra verso tutto e tutti, quasi da configurare il gesto materno
che, con quelle bellissime mani che mi hanno fatto ricordare le parole
dell’Angelo dell’“Annunciazione” di Rike (Tu non sei più vicina a Dio / di noi:
siamo lontani / tutti. Ma tu hai stupende/ benedette le mani. / Nascono chiare
a te dal manto, / luminoso contorno: Io sono la la rugiada, il giorno, / ma, tu
sei la pianta) trattiene e tocca il Bambino con un che di tenero, ma
automatico: di automaticamente tenero, quello di un corpo che non dimentica mai
di amare il Figlio anche quando non sembra lui l’oggetto diretto dei pensieri. Sollecitudine,
forse, più che tenerezza, quanto meno nel momento qui rappresentato; che però,
in quanto rappresentato, e rappresentato nel modo dell’icona, dell’immagine di
devozione, non è parte di un continuum esistenziale e psicologico ma momento
assoluto, che studiosi e teologi inseriranno nella serialità delle tipologie,
ma qui, per chi guarda, è a sé stante, attuale, senza tempo.
Il Bambino è seduto
sulla coscia sinistra rialzata della madre, e pure lui ha uno sguardo
meditativo, forse estatico, come se fosse rivolto al Padre più che alla Madre,
contemplando il destino che gli è riservato, con lo sguardo al cielo che
rivolgerà sulla croce nel pronunciare le sue ultime parole, quelle
dell’angoscia e del senso di abbandono. Il bellissimo piedino sinistro piegato
a cercare un appoggio più saldo, come una memoria del corpo che non rinuncia a
se stesso anche quando pare messo tra parentesi, pare richiamare questi
momenti, perché è dipinto in quella posizione per ovviare allo squilibrio
causato dalla gambina messa in diagonale per nascondere e insieme, proprio in
questo modo, indicare il sesso, che in molte altre opere simili è invece
esibito, a segnalare l’umanità, e quindi la mortalità di Cristo, come ha
mostrato Leo Steinberg nel suo capolavoro La
sessualità di Cristo.
Intanto lei, con
quel suo purissimo ovale, il lungo collo, non piegato verso il bambino nel
gesto della tenerezza, ma ritto, quasi teso nella meditazione, o nella
fantasia, continua a cercare di sondare l’inconoscibile, pur percependolo e
vivendolo come tale e sapendo che tale sempre resterà, eppure non potendo
sottrarvisi, perché l’ha portato prima in sé e ora lo regge sulle ginocchia.
Quell’inconoscibile a cui, davanti a lei e al quadro, non possiamo sottrarci
nemmeno noi, calamitati dall’ombra scura che proietta, simile a quella sul
drappo d’onore alle spalle di Maria, chiamati a cercare di comprenderlo, di
farlo nostro, sempre più esclusi, quanto più faticosamente riusciamo a
inoltrarci in esso, abbagliati dal suo buio, eppure in qualche modo illuminati,
appagati.
Nota di lettura
Rona Goffen, Giovanni
Bellini, Motta editore, 1990.
Hans Belting, Giovanni
Bellini. La pietà, Panini editore, 1996
Julia Kristeva,
“Maternité selon Giovanni Bellini”, in Polylogue, Seuil, 1977, p.
409-435
Massimo Cacciari, Generare
Dio, Il mulino, 2017
Federico Zeri e
Francesco Rossi, La raccolta Morelli nell’Accademia Carrara, Credito
bergamasco, 1986
Marco Lucco e
Giovanni Carlo Federico Villa (a cura di), Giovanni Bellini, Silvana
Editoriale, 2008
Otto Pächt, La
pittura veneziana del Quattrocento, Bollati Boringhieri, 2005
Rainer Maria Rilke, Poesie, trad. it. Giaime
Pintor, Einaudi, 1970
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