12/03/20

Giovanni Bellini, La Madonna di Alzano


La Madonna di Alzano di Giovanni Bellini è uno dei capolavori dell’Accademia Carrara di Bergamo, che è uno dei Musei di città minori più belli e ricchi d’Italia. Il dipinto vi è giunto grazie alla donazione che il grande esperto e collezionista Giovanni Morelli ha fatto della propria Raccolta alla fine dell’800. Ma bergamasco il dipinto lo è da sempre. È accertato infatti che sia stato commissionato al pittore da Alessio Agliardi, che l’ha poi lasciato a sua figlia Lucrezia, da vedova divenuta badessa delle Carmelitane ad Albino, per passare poi, con una sosta secolare su un altare a Alzano, da cui il suo nome, per le mani di alcuni religiosi e collezionisti fino a Morelli. L’opera era conosciuta e amata anche dai fedeli, tanto che anche il grande Giovan Battista Moroni ne ha fatto una bella copia, cambiando lo sfondo, come forse di sua mano è un'altra replica sua contemporanea.


Tra le numerosissime Madonne belliniane, questa è senza dubbio una delle più alte, come il volto di Maria è a mio parere uno dei più belli tra quelli dipinti dal grande veneziano, e dunque di tutta la storia della pittura.

Maria è vicinissima come lo può essere una donna e una donna-madre, e misteriosa, non solo per i suoi mirabili lineamenti, il suo contegno, la postura, i gesti accennati, ma soprattutto come lo è la maternità, l’essere madre, e madre Dio, come un dio è ogni figlio per ogni madre. Per un uomo, per me, affascinante, nel senso originale del termine, e incomprensibile. Fuori portata forse non dell’immaginazione, che è poca cosa, ma del sentimento incarnato, che è tutto, forse non solo in questo contesto.


Anche la Madonna Lochis, sempre alla Carrara, o quella della Presentazione di Gesù al tempio della Fondazione Querini Stampalia, o la Madonna greca di Brera sono bellissime, ma io preferisco questa. Quella di Brera è meravigliosa, con quel suo sguardo irrimediabilmente triste, per quanto composto, trattenuto; ma in quella di Alzano persino la tristezza è superata, lo sguardo va lontano, all’interno però, verso un luogo dove ogni emozione si deposita e resta, senza tradirsi in alcun modo. Non chiede com-passione, non reclama e nemmeno suggerisce nulla, e proprio per questo chi guarda è indotto, e si direbbe obbligato, a proiettare su di essa tutte le emozioni che la venerazione e l’amore (e anche la seduzione) possono suscitare, nel tentativo di colmare l’infinita distanza che proprio dalla prossimità  che sembra promessa, favorita e dischiusa dal taglio a close-up delle figure – dalla prossimità visiva cioè, e della partecipazione a uno spazio comune accentuato dalla luce dei quadri belliniani, che più che colpire le cose e i corpi, come dice Hans Belting, li circonda delicatamente – mentre viene assolutamente preclusa, proiettata in uno spazio non attraversabile, dalla postura della Donna e da quel suo sguardo che lo ignora. Inaccessibile come lo è il segreto di ciascuno, spesso persino a lui stesso; come lo è il dolore. La stessa concezione di Bellini dell’immagine, come dice ancora Belting sia pure a proposito di un altro quadro, “come luogo estetico [contribuisce a] allontana[re] la realtà rappresentata” dallo spettatore.   

Se cioè la scelta di Bellini di dipingere la Madonna a mezza figura, quasi una sua invenzione, è per portare la Vergine in presenza, come una persona nei ritratti (e difatti Ritratto mariano era considerato questo genere di opere), o come una visione, dall’altro la separazione resta. È la stessa funzione che viene affidata al parapetto marmoreo (che come è noto richiama la pietra sepolcrale e il sacrificio di Cristo, marcato ancor di più nel nostro caso dal colore rosso del marmo e dalla pera che vi è posata, allusione al peccato e alla necessità del sacrificio salvifico di Cristo, e della Madre quindi come nuova Eva), che introduce e separa: è la soglia che permette al fedele il contatto con il mondo del sacro ma anche lo tiene al suo esterno. Egli può solo guardare, provare compassione, pentirsi, pregare, adorare, ma non accedervi, se non mediante il salto della fede. Lo spazio che apre è quello della visione, che è visione della coppia sacra, ma anche della pittura, della bellezza dell’opera, perché a Venezia i quadri, inclusi quelli di devozione, erano anche oggetto da collezione ormai, visti con sguardo da amatore forse più che da credente. Allo stesso modo la firma che sul parapetto è apposta è segno della fede dell’autore, ma anche attestato della sua individualità e del suo valore di artista. Nella Madonna di Alzano la prevalenza della funzione di separazione è segnalata anche dal fatto che il bambino non giace sulla pietra né vi sta ritto sopra, magari sporgendo il piede come a entrare nello spazio del fedele come in altre varianti, e che entrambe le figure stanno nettamente oltre la soglia, per quanto avvolte dalla stessa luce del paesaggio alle loro spalle, che sembra il nostro ma non lo è, e richiama piuttosto un ideale arcadico, pacifico, dove gli uomini attendono serenamente alle proprie occupazioni, come in un sogno bucolico, in un paradiso recuperato, o da attingere.

Tra le due figure in primo piano non sembra quasi esserci interazione, né la Madre né il figlio indulgono a qualche gesto reciproco, la scena è immobile, contemplativa, come lo sguardo rivolto verso l’alto del Bambin. Nessun aneddoto, nessuna emozione sembra trasparire, anche se questo non si traduce in una rappresentazione ieratica, monumentale. I corpi si stagliano in volumetrie nette, ma, oltre al panneggio morbido del manto e alla carne soffice del Bambino che evidenziano le pieghe delle cosce e le fossette sulle manine, il colore impedisce ogni rigidità, li soffonde dell’aura di corpi vivi, per quanto immobili. Nessuna scenetta tra loro, nessun gesto esplicito, nessun indizio di presagio, nessuna smanceria così come nessun dramma.

Mentre in molte versioni tra la Madonna e il Bambino non c‘è grande contatto (Julia Kristeva arriva a dire che prevale “la distanza, se non l’ostilità”, la separazione e nessun “accesso diretto”), qui la Madre tiene il figlio sulle ginocchia, le mani non solo lo sostengono, ma la destra gli tocca delicatamente il petto, quasi lo accarezza, anche se gli sguardi non si incontrano. E forse nemmeno si cercano. Almeno in questa circostanza. Il bimbo guarda in l’alto, ma non è rivolto verso la madre; mentre lo sguardo di Maria sembra rivolto verso il basso, con le palpebre un po’ socchiuse, ma non verso il figlio. Il suo sguardo sembra non avere nessun oggetto concreto, è pensoso, serio, quasi grave, ma la sua direzione è interiore. Non malinconico, o forse appena un po’; la compostezza sembra non tradire emozioni, e piuttosto trattenerle, e non certo per celarle a uno sguardo esterno, per dissimularle, quanto perché l’esterno è escluso, e quindi anche qualsiasi forma indiretta di comunicazione con lo spettatore (il fedele); la distanza, che in altri quadri era quella fisica dal bambino, qui sembra verso tutto e tutti, quasi da configurare il gesto materno che, con quelle bellissime mani che mi hanno fatto ricordare le parole dell’Angelo dell’“Annunciazione” di Rike (Tu non sei più vicina a Dio / di noi: siamo lontani / tutti. Ma tu hai stupende/ benedette le mani. / Nascono chiare a te dal manto, / luminoso contorno: Io sono la la rugiada, il giorno, / ma, tu sei la pianta) trattiene e tocca il Bambino con un che di tenero, ma automatico: di automaticamente tenero, quello di un corpo che non dimentica mai di amare il Figlio anche quando non sembra lui l’oggetto diretto dei pensieri. Sollecitudine, forse, più che tenerezza, quanto meno nel momento qui rappresentato; che però, in quanto rappresentato, e rappresentato nel modo dell’icona, dell’immagine di devozione, non è parte di un continuum esistenziale e psicologico ma momento assoluto, che studiosi e teologi inseriranno nella serialità delle tipologie, ma qui, per chi guarda, è a sé stante, attuale, senza tempo.

Il Bambino è seduto sulla coscia sinistra rialzata della madre, e pure lui ha uno sguardo meditativo, forse estatico, come se fosse rivolto al Padre più che alla Madre, contemplando il destino che gli è riservato, con lo sguardo al cielo che rivolgerà sulla croce nel pronunciare le sue ultime parole, quelle dell’angoscia e del senso di abbandono. Il bellissimo piedino sinistro piegato a cercare un appoggio più saldo, come una memoria del corpo che non rinuncia a se stesso anche quando pare messo tra parentesi, pare richiamare questi momenti, perché è dipinto in quella posizione per ovviare allo squilibrio causato dalla gambina messa in diagonale per nascondere e insieme, proprio in questo modo, indicare il sesso, che in molte altre opere simili è invece esibito, a segnalare l’umanità, e quindi la mortalità di Cristo, come ha mostrato Leo Steinberg nel suo capolavoro La sessualità di Cristo.


Intanto lei, con quel suo purissimo ovale, il lungo collo, non piegato verso il bambino nel gesto della tenerezza, ma ritto, quasi teso nella meditazione, o nella fantasia, continua a cercare di sondare l’inconoscibile, pur percependolo e vivendolo come tale e sapendo che tale sempre resterà, eppure non potendo sottrarvisi, perché l’ha portato prima in sé e ora lo regge sulle ginocchia. Quell’inconoscibile a cui, davanti a lei e al quadro, non possiamo sottrarci nemmeno noi, calamitati dall’ombra scura che proietta, simile a quella sul drappo d’onore alle spalle di Maria, chiamati a cercare di comprenderlo, di farlo nostro, sempre più esclusi, quanto più faticosamente riusciamo a inoltrarci in esso, abbagliati dal suo buio, eppure in qualche modo illuminati, appagati.



Nota di lettura

Rona Goffen, Giovanni Bellini, Motta editore, 1990.

Hans Belting, Giovanni Bellini. La pietà, Panini editore, 1996

Julia Kristeva, “Maternité selon Giovanni Bellini”, in Polylogue, Seuil, 1977, p. 409-435

Massimo Cacciari, Generare Dio, Il mulino, 2017

Federico Zeri e Francesco Rossi, La raccolta Morelli nell’Accademia Carrara, Credito bergamasco, 1986

Marco Lucco e Giovanni Carlo Federico Villa (a cura di), Giovanni Bellini, Silvana Editoriale, 2008

Otto Pächt, La pittura veneziana del Quattrocento, Bollati Boringhieri, 2005

Rainer Maria Rilke, Poesie, trad. it. Giaime Pintor, Einaudi, 1970



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