Prudenza, o altra virtù desueta,
consiglierebbe di stare alla larga dai libri troppo piaciuti o premiati. Se
sono davvero buoni, un'attesa di qualche mese o anno non potrà che giovare; se
non lo sono ci si sarà risparmiato un fastidio. Inoltre non si incorrerà nella
tentazione di leggerlo con la luna storta o di parlarne male per partito preso,
perché lo ha lodato tizio, o caio, o tutta una schiera di tizio e caio che
insomma... vabbè. (C'è anche la possibilità di parlarne benissimo però, per una
specie di prosaicità terrorista, di antimanganellismo manganelliano: non l'ho
letto ma mi piace tantissimo. Il colmo della sofisticatezza.) Io mi attengo
alla regola abbastanza spesso. Poi magari capita che, siccome ammiro l'autore,
o è scattato qualche pavlovismo narrativo secondario (un risvolto, una
copertina, un personaggio), quando risuona il plauso quasi universale, questo o
quel libro l'ho già letto. Mi è capitato di recente con Limonov, di
Emmanuel Carrère, poi eletto da una giuria di critici libro dell'anno.
Accidenti, mi era proprio piaciuto! Che mi sia sbagliato?
Carrère aveva già conquistato una
discreta schiera di fedeli lettori anche in Italia, fin dalla pubblicazione di Baffi (Theoria 1987, ora nei tascabili
Bompiani), e soprattutto a partire dal passaggio all'Einaudi con La settimana bianca (1996) e i libri
successivi; ma sembra che solo ora, con questo Limonov (2012), e il nuovo cambiamento di editore (Adelphi) abbia
ottenuto un riscontro più ampio di pubblico, oltre che di critica, per quanto
non paragonabile a quello d'oltralpe, dove è un autore di successo vero e
proprio, più che di culto, come si suol dire quando le vendite annaspano (ma in
compenso i lettori sarebbero buoni e affezionati: gelosi persino! Tanto che se
al gruppo si accodano nuovi venuti, alcuni, specie tra i padri fondatori, si
defilano. Un cult di massa è un paradosso che molti candidamente auspicano, ma
non tutti: gli irriducibili devono essere minoritari per statuto). Certo ha
giovato la scelta del protagonista (scrittore maledetto, fondatore di un
partitino nazionalbolscevico di stampo fascista con mèches punk e
vagosinistrorse, avversario di Putin, uomo con stigmi di perversione e
integrità al contempo: uno che sceglie sempre e comunque di stare dalla parte
del male e insieme da quella del debole e del perdente senza vederci nessuna
contraddizione) e dell'ambiente (la Russia da Stalin a Putin, con parentesi
statunitensi e europee a cavallo del muro di Berlino). La qualità c'era già
prima. Anche gli argomenti, se è per questo (le paure e gli smarrimenti
dell'infanzia e un serial killer di bambini: La settimana bianca; un
mitomane in sembianze di uomo mite che stermina la famiglia: L'avversario,
2000; lo tsunami in Oriente, la morte di figli e congiunti, la malattia, il lutto,
la crisi, i mutui e le trappole finanziarie in Occidente: Vite che non sono
la mia, 2011: d'ora in poi solo Vite). La fame di personaggi, oltre
che di storie, si è fatta sempre più forte, e il sensazionalismo aiuta. Anche
se non basta. E tanto meno basta a definire il libro, che a me sembra
eccellente. La provocazione c'era già stata con Facciamo un gioco (2004), racconto erotico rivolto alla sua
fidanzata di allora, pubblicato su “Le Monde” (per i cui esiti si veda La
vita come un romanzo russo, trad. it. 2009, dove è stato ripreso:
d'ora in poi solo Romanzo russo), ma insomma Carrère è pur sempre
un francese; anzi: un parigino. Un bobo (bourgeois-bohème), come lui stesso si
definisce, di ottima famiglia, con la mamma, Hélène Carrère d'Encausse, figlia
di emigrati georgiani in fuga dalla Rivoluzione, membro e segretaria a vita
dell'Académie française e russologa di fama che ha previsto il crollo per
implosione dell'Unione Sovietica (sbagliando alcune modalità e effetti
importanti, è vero; ma intanto aveva colto la sostanza e la previsione con
largo anticipo, lei...).
Se poi il protagonista viene in
soccorso e è “tutto vero”, meglio ancora: non a caso è questo il tasto più
battuto da giornali e media: il protagonista è “vero, palpabile, già pronto,
basta descriverlo”, come ha scritto un critico. E Eduard Savenko, alias Limonov
(da 'limonka', che in russo vale per limone e per un tipo di granata a mano),
non scarseggia affatto quanto a varietà, interesse e pruriginosità di materiali
pronto uso: figlio di un cekista, giovinezza sbandata in provincia e artistoide
a Mosca, con tutto il corredo di fame, provocazioni, mestierini e eccessi di
prammatica; repertorio che si impegna ad accrescere durante l'emigrazione sui
generis negli Stati Uniti, dove disprezza, ricambiato, la maggior parte dei
suoi compatrioti: fa il servo, il prostituto, ha una vita sessuale di alta e
varia gamma sulla quale non risparmia narrazioni meticolose in una lingua
fortemente innovativa che ha convinto Sinjavskij a pubblicare e difendere i
suoi testi più provocatori, che non piacevano invece a Brodskij, come il loro
autore del resto (che a sua volta lo reputava il peggio del peggio
dell'emigrazione: gli affetti vanno ricambiati); poi beniamino degli
intellettuali parigini ai quali, negli anni '80, era da un po' che mancava il
mascalzone di turno da adorare; rimpatriato deluso nei '90, che odia Gorbaciov
e sogna un ritorno al passato; escursioni da avventuriero-esteta in guerre e
rivoluzioni quasi sempre dalla parte sbagliata (in particolare a fianco di
Karadžić,
Mladić e Arkan, in Bosnia);
fondatore del partito nazbo di cui sopra; imprigionato per presunto
contrabbando di armi e tentativo di insurrezione, ma rispettato dagli orchi che
prosperano nelle carceri russe (e fuori) e rilasciato dopo solo due anni e vari
libri scritti in condizioni terribili; sei mogli, un'infinità di amanti di ogni
genere, età, peso e statura. Insomma, l'ideale per chi è alla ricerca di storie
avventurose, ma “reali”, che qualcuno, al contrario di lui, ha vissuto fino in
fondo, subito e sofferto fino in fondo magari, se con vari errori ancora meglio
(così si può ammirare, compatire e disprezzare insieme), ma con qualcosa come
uno straccio di senso, se non per il diretto interessato, per il lettore, forse
abbastanza smaliziato da non identificarsi tanto da illudersi di vivere quelle
avventure per procura, ma abbastanza sconsolato, a volte, da raccattare quello
straccio per farlo proprio in un modo o nell'altro. Un palliativo è sempre
benaccetto.
Non mi interessa se questa ha l'aria di
essere un'operazione da furbetto, e nemmeno se qualche volta, all'interno del
testo, Carrère il furbetto lo fa davvero. Scoprire qualcuno con le dita nella
marmellata è uno dei piaceri della lettura: quello del complice. A patto che
l'autore non se la mangi tutta lui, naturalmente.
Ma in genere Carrère è tutto l'opposto:
la sua carriera di scrittore lo sta a dimostrare; e anche quando corre sul
filo, è consapevole del rischio e sta bene attento a non cascare. Fingere uno
sbilanciamento per far trattenere il fiato è concesso. Però è troppo bravo e
ambizioso per restare intrappolato in questi sotterfugi. Uno potrebbe chiedersi
cosa c'è di così ambizioso a scrivere una biografia. Beh, dipende dal come e su
chi. Carrère non è nuovo a queste imprese. Il suo primo libro è una monografia
su Herzog, ma poi ne ha scritta anche una su Dick: Io sono vivo, voi siete
morti. Philip K. Dick 1928/1982. Una biografia (Hobby & Work 2006;
prima trad. Theoria, 1995), che a suo tempo mi era piaciuta molto (non so agli
altri dickiani: siamo gente che non si capisce mai sé è troppo facile da
accontentare o troppo difficile). Qui però sceglie una figura ancora in vita.
Sceglie di scrivere la vita di uno che conosce e che gli può rispondere. Di
erigere (comunque) un monumento (che ha sempre qualcosa di funebre, anche se il
destinatario sembrerebbe lusingato: tutta pubblicità) a uno che ha vissuto con
il principale obiettivo di costruire la mitologia di sé stesso, che in genere
consiste appunto nell'erigersi da solo il monumento funebre vita natural
durante.
A proposito della biografia di Dick, in
un'intervista Carrère afferma: “Mi sono divertito a scriverla, è stato facile.
Anche se Dick era per certi versi un uomo terribile, ho sempre provato una
forma di tenerezza nei suoi confronti. Era come un grande bambino perso nella
sua vita. Studiando i suoi romanzi mi sono reso conto che libro dopo libro si
era scritto una sua strana autobiografia”. Credo che questa osservazione valga
anche per Limonov, il quale, oltretutto, nei suoi libri non ha praticamente
parlato d'altro (in Italia ne sono stati pubblicati quattro, quasi tutti
tornati in circolazione dopo il successo della biografia di Carrère: Diario
di un fallito oppure un quaderno segreto, Odradek 2004; il notevole Libro
dell'acqua, Aletti 2004; Eddy-baby ti amo, Salani 2005; Russian
attack, Salani 2010, a cui si è aggiunto il recentissimo Il trionfo
della metafisica. Memorie di uno scrittore in prigione, Salani 2013).
Zachar Prilepin (di cui ricordo almeno il recente Il peccato, edito come altri suoi libri da Voland), che da ragazzo
aveva fatto parte del partito nazionalbolscevico di Limonov e continua a avere rispetto
per lui anche ora che se ne è allontanato, accusa Carrère, tra le altre magagne
anche più gravi, di aver preso per oro colato tutto quanto vi è scritto, e di
averlo fatto per comodo, per cattiva coscienza (per esempio non c'è traccia di
testimonianze di tutti coloro che l'hanno conosciuto a Parigi, figurarsi
altrove), ma non credo che l'argomento sia così importante, dato il tipo di
biografia che Carrère ha scritto: una biografia in cui l'autore, decidendo di
recitarvi un ruolo di primo piano, si espone scientemente al rischio di
proiettare sul protagonista la propria luce di deuteragonista, narratore e
testimone al contempo, come un personaggio che è quindi opportuno leggere in
modo analogo a quello in cui lui tratta Limonov. Ma d'altra parte a Carrère
Limonov appare sempre sincero e professione di sincerità la fa spesso anche
lui. Cosa curiosa, con tutto il dibattito sulla trasparenza, la finzione, la
verità che ha attraversato la cultura francese, e non solo, dagli anni '60 in
poi e che Carrère stesso non misconosce di certo. È la parte di necessario
narcisismo? Un narcisismo che nel nostro autore sarebbe piuttosto spiccato?
Ne dubito. Intanto di solito ci pensa
lui stesso a non dare un'immagine poi così edificante di sé (a volte persino
quando non vorrebbe). Anzi, spesso si sminuisce, soprattutto in quest'ultimo
libro, per lasciare tutti riflettori centrati sulla figura debordante del
protagonista; e anche se è vero che il
narcisista pur di stare anch'esso sul proscenio è disposto a qualche figuraccia
(soprattutto se ha un minimo di autoironia: è una tecnica che abbiamo adottato
tutti prima o poi...), la sua presenza resta nondimeno indispensabile a tutta
la sua strategia narrativa più recente, in cui la stessa onestà e veridicità e
trasparenza assumono una funzione fondamentale.
La biografia sta
vivendo una notevole reviviscenza sia grazie ai cosiddetti romanzi storici, sia
grazie ai biopic e, in forma di parziale autobiografia, nella variegata veste
dell'autofiction (o romanzo dell'io, per dirla con Philippe Forest). Anche nei
fumetti, a quanto scrive il “Post” (http://www.ilpost.it/matteostefanelli/2013/02/04/il-fumetto-nel-2012-in-7-tendenze/).
In Francia, il ritorno ai generi di cui
sopra e il risveglio del dibattito critico e teorico sono in corso già da un trentennio,
dopo il tentativo di radiazione totale dell'io sia dalla letteratura, sia dalla
teoria e dalla critica almeno dagli anni '960 e '70, tanto che ha già
cominciato a mostrare la corda. Non è superfluo riprenderne alcuni aspetti pr
cercare di capire meglio Carrère.
Tra parentesi anche a me, fatta la tara
dei miei ritardi cronici e delle mie idiosincrasie (non ho mai amato il
genere), non era mai capitato di leggere tanti libri a struttura biografica
come negli ultimi mesi (Sebald prima, ok, che è uno degli autori di riferimento
di Carrère; e poi Bernhard, Roth e Oè ecc). Penso, per esempio, al notevole Come un furioso elefante. La vita di B.S.
Johnson in 160 frammenti di Jonathan Coe (Bompiani, 2011); alle biografie
uscite qualche anno prima di Nick Tosches, come quella di Dean Martin (Dino, Baldini Castoldi Dalai, 2004) e
Sonny Liston (Il diavolo e Sonny Liston,
Mondadori, 2005), a propensione moralistico-sapienzale, sempre pronta a
impennare i toni nella distesa di fatti e dialoghi a volte fin troppo minuziosi
e delle numerose testimonianze dirette spesso inserite a tocchetti nel flusso
della narrazione o del ragionamento (opere più che buone, comunque); o alla
trilogia di Echenoz (Ravel, Correre, Lampi, tutti editi da
Adelphi), che invece procede per tagli e silenzi, dove l'ambiguità e il tenore
romanzesco sono nutriti e accentuati dalla chiarezza e dall'essenzialità del
dettato, che giunge quasi a spolpare e rendere impalpabili i fatti, tutti
peraltro documentati; alla recente autobiografia della giovinezza di Mathieu Lindon, Cosa vuol dire amare (Barbès, 2012), che non mi ha convinto del
tutto, ma in Francia ha vinto il Prix Medicis mentre a Carrère per Limonov
è stato negato il Goncourt, con il compenso parziale del Renaudot
successivamente, solo a causa della sconvenienza del personaggio, più che delle
cose narrate, che invece in Lindon non scarseggiano: ma poi, pure qui (ma
viceversa, trattandosi di prurigini e glorie nazionali) il nome, e i
protagonisti, e il padre dell'autore fondatore delle Editions de Minuit, e
Barthes, Guibert, Foucault, le morti tragiche e le vite piene, fruttuose e
gaudenti...; e infine, giusto per fermarmi qui, ai libri di Forest e Mauvigner.
Se qualcuno è
implicato nella storia che intende raccontare, o inventa la voce di un terzo,
oppure usa la prima persona. La seconda è un vezzo raro; e una faticaccia, dai
risultati incerti e dai dividendi scarsi (a parte Un uomo che dorme di Perec). Anche il presunto terzo può far dire
io al personaggio di cui racconta la storia o che l'ha raccontata a lui, che
l'ha sentita da un altro ancora che a sua volta forse ha detto io o forse no
(chi vuole sbizzarrirsi non ha che da leggere Conrad, come noto), ma la
presenza di chi dice io è indispensabile in certi contesti, in particolare quando
gli assunti morali e di verità vengono presi in carico per rafforzare il
discorso o viceversa denunciarne l'infondatezza e tutte le gradazioni di
menzogna o finzione: chi parla? chi si assume la responsabilità del dire e del
detto? da dove parla? con che legittimità? che rapporto ha con le persone e gli
eventi narrati? e così via.
Per esempio,
Carrère in Baffi non lo fa e in parte il libro, peraltro bello, ne
risente, specie nel finale che ha certo bisogno di essere narrato da una voce
esterna, ma in tal modo rende più fragile lo statuto del delirio paranoico di
tutto il resto: il protagonista ha mai avuto i baffi? È vittima di uno scherzo
del cazzo tirato troppo in lungo? Dove cavolo si trova chi parla nel momento in
cui parla? I buchi nel ragionamento, le ipotesi che al lettore sarebbero venute
in mente per prime e che sono bellamente omesse, sono a carico di chi: del
personaggio o del narratore? È giusto che questi, quando si addentra nei
cosiddetti meandri della follia, o della mente, del protagonista, giochi un po'
a sovrapporvisi e un po' no? Se uno mi propone un patto, esigo che lo rispetti
lui per primo.
Carrère deve
essersi accorto del problema se, dopo aver ripetuto questo schema in La
Settimana bianca, con maggior circospezione trattandosi di un bambino e
limitando al minimo l'odioso sotterfugio di attribuirgli dei punti di vista
poco ortodossi e una causalità imperfetta e immaginaria nella lettura del mondo
(con quegli effetti miserabili che spesso ricercano coloro che non ne sanno
suscitare di più efficaci con la sola forza di una fantasia e di un pensiero
adulto), e con migliori risultati, l'ha definitivamente abbandonato quando ha
dovuto affrontare il compito greve e angoscioso di scrivere L'avversario,
cioè di entrare personalmente e per un
lungo periodo in contatto diretto con un mostro e il suo pacifico inferno
mettendo a rischio il proprio equilibrio mentale, come difatti è avvenuto. (Che
sarebbero affari suoi, se questo non avesse influito, e positivamente, sui suoi
libri a venire.)
Qui gli esempi
non mancavano, a cominciare da uno dei capostipiti del new journalism, cioè da A
sangue freddo di Truman Capote, che però è sì per Carrère un grande libro,
ma rappresenta al contempo il modello stesso della falsità e della malafede
quanto a tutto il resto: figura del narratore e scelte morali dell'autore in
primis (osservazione che porterebbe lontano, a volerla discutere). (Per inciso:
documenti recentissimi hanno confermato le manipolazioni e la scarsa
correttezza, diciamo così, dello scrittore americano.) Carrère, quanto a sé,
non voleva stare come un avvoltoio affamato sul tetto della prigione ad
aspettare che il mostro Romand morisse. E d'altra parte gli interessava meno
ricostruire fatti e motivazioni che avevano portato agli eccidi (perché sono
due, più un terzo non portato a termine: prima i genitori, poi l'amante –
fallito –, e infine moglie e figli con tentativo di suicidio), già ampiamente
scandagliati da ogni genere di esperti durante il processo, quanto piuttosto la
vita di quest'uomo nei 18 anni in cui, giorno dopo giorno, se n'era stato in
giro a tirar sera senza fare nulla, e soprattutto cosa pensava di sé e di
quello che aveva fatto e come viveva la sua sopravvivenza in prigione ora (ora
che la religione gli ha porto la sua caritatevole mano). A Carrère interessa il
male, quello inspiegabile, immedicabile, senza remissioni o attenuazioni, senza
scuse: che venga da dentro, magari partendo da un piccolo, impercettibile
scarto che poi si ingigantisce fino a diventare normalità, una routine che
falsa e travolge silenziosamente tutto, come nell'Avversario; o che
provenga da paure più grandi, come la perdita di figli, o che distrugga
esistenze già di per sé miserevoli, come in Vite; ma soprattutto quello
che brucia dentro ciascuno di noi, che ci consuma e ci tiene in bilico e che
può condurci senza che ce ne accorgiamo sia alle infime spregevoli mascalzonate
della vita quotidiana, sia, individualmente e collettivamente, a scelte
storiche ben più terribili (in quella zona grigia, incubatrice dell'orrore, che
Primo Levi in I sommersi e i salvati ci invita a non perdere mai di
vista e a non stancarci mai di indagare). Riprenderò l'argomento a proposito di
Limonov; per ora mi serve per indicare come sia comprensibile che,
avvicinandosi a una materia così incandescente e pericolosa, fosse necessario
prendere delle precauzioni, e per Carrère la precauzione migliore è stata non
allontanarsi, adottare un resoconto puramente fattuale e oggettivo: non
chiamarsi fuori, quindi, ma entrare nel terreno paludoso in prima persona, pur
senza immedesimarsi, e anzi lottando contro la tendenza a farlo, contro
l'impulso a lasciarvisi sprofondare che il lato buio dentro di lui (dentro
ciascuno di noi) lo spingeva a seguire, ma davanti al quale nello stesso
istante non intendeva abbassare lo sguardo o retrocedere di un passo, perché lì
si giocava la sua vera partita personale, prima ancora di quella del libro.
Rischiare così. (A me sembra ammirevole.)
Quanto pesante
sarà lo scotto che lo scrittore dovrà pagare per questa scelta e per il
rapporto diretto con Romand e il suo mondo, e quali percorsi dovrà saggiare per
cercare di superarne l'impasse, che peraltro già si intravedeva anche nei libri
precedenti dove tutti i suoi fantasmi si dispiegavano con un'evidenza che però sarà
tale solo a posteriori, è la storia dei lavori narrativi e cinematografici più
recenti: lotta con il rimosso familiare, il divieto materno a parlarne e la
tendenza a distruggere ogni relazione sentimentale in Romanzo russo;
apertura agli altri che passa attraverso il contatto diretto con il lutto, la
malattia e la miseria, in Vite; e un nuovo, diverso respiro, più vivace
ma non più lieve o meno impegnativo, in Limonov.
La via dell'inclusione di se stesso
come personaggio e voce narrativa, con strategie e modalità diverse, sarà
quella che Carrère percorrerà quindi nei libri successivi, appoggiandosi a
storie che deve cercare di ricostruire, come quella del soldato ungherese
chiuso per 50 e più anni in uno sperduto manicomio russo; o la perdita dei
figli o dei congiunti, e dei patrimoni; o le complicazioni, gli smarrimenti, le
ingiustizie che si affacciano persino nella vita di una canaglia come Limonov
non appena la si guarda un po' più da vicino (anche se una canaglia resta). Davanti a temi e personaggi così forti e ambigui, le
trappole della retorica (della maniera, della falsità che si nasconde
nell’adesione empatica come nella pretesa di separazione “oggettiva”) non sono
evitate tramite l’understatement dell’ironia, con tutta la condiscendenza che
essa comporta verso il suo oggetto o bersaglio (sia pure velata di tenerezza),
ma vengono smorzate dalla distanza, o meglio: dal distanziarsi, che non è il
rifiuto di rischiare il contatto con la materia, ma il movimento del passo
indietro o di lato per poi accostarsi di nuovo, che è palesato nel suo stesso
effettuarsi e consente quella varietà di sguardo e di analisi che poi può dar
luogo anche a prese di posizione ponderate. Il movimento è essenziale se, pur
senza rinunciare alla risolutezza, da una parte si vuole impedire che una
focalizzazione statica, “fotografica”, si traduca in un giudizio senza appello,
e dall'altra che la distanza si irrigidisca in verità, anche solo quella dei
documenti, dei cosiddetti fatti: per questo colui che narra e riflette sulla vicenda,
e che se è il caso emette giudizi su fatti e personaggi, deve muoversi
all’interno della rappresentazione nello stesso momento e con lo stesso gesto
con cui se ne dichiara, o si inscena, come l’autore, cioè come colui che sta
fuori. Che fuori è uscito nel momento, e per il fatto stesso che scrive.
Essenziale a questo movimento è un
aspetto a cui non molti hanno dato il dovuto risalto e che meno ancora hanno
analizzato nel dettaglio (eh, non c'è mai tempo e spazio: io pure...). È
indubbio che i temi e le figure che Carrère affronta nella sua opera siano di
quelli che non lasciano indifferenti, ma a farne uno scrittore importante, più
che loro sono la lingua, sempre molto curata in tutti i suoi registri, e la
forma, anzi, meglio: la fantasia della forme, la sua notevole varietà e la
flessibilità e duttilità delle sue componenti e funzioni, e il montaggio che vi
presiede a ogni livello; il montaggio dei segmenti o blocchi narrativi
(capitoli ecc.) e quello ad essi interno: dei tempi e delle prospettive, e
infine quello dei punti di vista, della tipologia delle inquadrature e dei
campi di profondità (Carrère ha iniziato come critico cinematografico e poi ha
fatto film e documentari, sia pure un po' particolari, come Retour à
Kotelnitch, del 2003, la cui genesi è narrata in Romanzo russo e La moustache, it.
L'amore sospetto, tratto da Baffi). Sono qualità presenti già nei
primi libri ma che hanno trovato un'articolazione più complessa e risultati di
grande rilievo negli ultimi tre. Di solito la materia c'è già; ci sono già i
soggetti (i soggetti della narrazione, per dirla con il doppio genitivo di
prammatica), i fatti, gli eventi esterni, la cronaca ecc.: Carrère non deve e
non vuole inventare niente, il resoconto non deve essere falsato, fatti e
persone vanno rispettate fin nei dettagli (anche quando sono un po' o tanto
ripugnanti), la scrittura non deve essere virtuosistica (se si escludono alcuni
passaggi ironici, o anche patetici in Romanzo russo o in Vite; ma
d'altra parte, come sostiene Carrère stesso, un libro che non rischia il pathos
forse non vale granché; il dolore va narrato senza essere troppo reticenti o
allusivi: “il pathos fa parte della vita e la letteratura che preferisco è
quella che lo accoglie”), non deve mandare riverberi vistosi, luccicori,
brillanze, sfoggiare contrasti o deformazioni espressionistiche, ma semmai
celare la sapienza nella referenzialità, nel rimando apparentemente primario
alle cose (o alle riflessioni sulle cose), mai a se stessa (anche se poi la
componente “meta” è sempre presente sotto una forma o l'altra, come non è
difficile intuire). Cosa resta allora a uno scrittore con le sue grandi qualità
e ambizioni? Appunto la costruzione. Tanto accurata da essere invisibile, da
tradurre la complessità delle articolazioni in pause di un ritmo fluido,
“naturale” come un respiro, tanto meno marcato quanto invece è più evidente il
coinvolgimento personale: addirittura specioso, esibito e tematizzato. Ma,
contrariamente a quello che si potrebbe credere, il meno narcisistico possibile:
anzi, la narrazione dei fatti, la ricostruzione degli eventi non deve mai
essere disgiunta dal coinvolgimento personale perché la loro rilevanza si
misura meno con qualche scala esterna a valenza oggettiva che dalla sua
capacità di mettere in gioco i grumi più acquattati, i groppi non sciolti e più
intricati di chi scrive e di chi legge.
(E poi, come dice con una formula
perfetta Gabriella Bosco nell'introduzione a Il romanzo, il reale di Philippe Forest, Rizzoli, 2003: “l'io
esiste solo nella finzione che lo narra”; “il romanzo, la finzione narrativa
che nasce dal racconto di certe esperienze, è l'unico luogo in cui l'io
esiste”; che se poi lo scrivente o il lettore trovano riscontri nella loro
realtà, tanto meglio. O tanto peggio. Dipende dall'uso che se ne fa.)
Il movimento di cui parlavo deriva e ha
a sua volta come effetti, nonostante la chiarezza della lingua, un
accrescimento della complessità delle storie e dell'ambivalenza di attanti e
parlanti, che ovviamente non implica, come si diceva, astensione dalla scelta,
quanto impossibilità di un giudizio univoco proprio in ragione della
complessità e/o contraddittorietà del personaggio, e dell’autore e del lettore,
che di volta in volta sono adottati o respinti, che possono rinvenire caratteri
comuni tra di loro ma anche altri estranei che però potrebbero suscitare, in
certi momenti, più attrazione e maggiore identificazione di quelli per i quali
condivisione o complicità sarebbero più scontati, o almeno plausibili.
L'altro fondamentale effetto è di trasformare
la forma letteraria della biografia (con Limonov), pur
rispettando le contraintes che il genere esige (aderenza ai
fatti, ricerca dei documenti, interviste, ecc.), a cui si sovrappongono anche
alcune tipiche dell'autobiografia: in primo luogo, oltre a mettersi
direttamente in scena, sfruttando le risorse della temporalità e
dell’alternanza e dell’intreccio dei piani (personale, documentario, storico,
etico, ecc.) come solo un romanzo può permettere di fare.
È questa la grande novità di Limonov, che
lo apparenta al dittico delle vite immediatamente precedente, ma operando un
ulteriore spostamento rispetto a quelli che esso già aveva compiuto nei
confronti dei libri precedenti che pure avevano segnato la sua maturità di
scrittore (La settimana bianca e L’avversario): qui si vede anche una
specie di leggerezza nella narrazione, un carico comunque più leggero da
portare, e che allarga i suoi orizzonti, senza abbandonare le zone grigie del
nostro essere, per estenderle alla scena sociale e politica e storica. Alla
foschia in cui vaghiamo.
Le vicende della vita di
Savenko-Limonov sono inserite in una cornice narrativa più ampia, avventurosa e
storica al contempo, picaresca e insieme con ampi risvolti metaletterari,
approfittando senza pedanteria dello statuto dei protagonisti: Limonov stesso e
coloro che incrocia negli ambienti in cui, al centro e più spesso ai margini,
spesso agisce (i personaggi sono almeno un centinaio: tra cui molti sono
artisti, intellettuali e politici di varia caratura e qualità, con spiccata
inclinazione verso il fondo dei barili), e infine l’autore in persona, cioè il
narratore-personaggio Carrère e il suo di ambiente.
L’astuzia è di legare, e direi
sciogliere quest’ultimo aspetto nella storia stessa, essendo protagonista e
narratore anche degli scrittori, e più ancora sotto le spoglie del dovere
documentario.
Proprio perché Limonov è una figura
reale e sarebbe quindi sufficiente descrivere fedelmente ciò che ha fatto e
detto, si può criptare meglio tutto il lavoro di destrutturazione e
ricostruzione e incorniciamento dei personaggi e degli eventi. Il
sensazionalismo che viene servito su un piatto d’argento a giornalisti, librai
e pubblico, è gestito a sua volta come strumento che scherma e fa passare
alcune delle cose che a Carrère sembrano importare di più.
Era già accaduto con Ritorno a
Kotelnitch e Romanzo russo: il documentarista, invece o più che registrare
e dare testimonianza di uomini e di eventi, fa accadere questi ultimi e porta i
primi a diventare protagonisti di questi nuovi eventi, che la semplice presenza
sua e della sua troupe mettono in moto. Quando parte per la città di
Kotelnitch, praticamente Carrère non ha una storia, ha poco o niente, sa solo
che qualcosa capiterà e soprattutto che sarà il montaggio a creare, alla fine,
la storia o la forma della narrazione, o del documentario, e di qui degli
eventi che emergeranno (narrati o meglio costruiti), trasformando in avventura
(anche solo intellettuale, come può essere la progettazione e l'accuratissima
messa in opera di un meccanismo che funziona) la realizzazione stessa del
documentario e del libro. Come deve essere peraltro. Se non è avventura per chi
lo scrive o realizza, non può diventarlo per chi lo vede o legge. Anche la
lucidità può esserlo.
Accanto
a quella dei protagonisti dei vari romanzi, è quindi indispensabile esaminare
il narratore in persona (in prima persona), il sedicente “Carrère”, nella
stessa ottica con cui si esamina un personaggio. Che immagine ne risulta da un
libro all'altro? È lo stesso o simile a
quello che il personaggio con lo stesso nome e con ruoli simili appare di libro
in libro? Che ruolo e funzione ricopre nella storia? In che rapporti è con gli
altri personaggi e con le loro vicende, anche quando in apparenza sembrano
completamente indipendenti da lui? Il grado di coinvolgimento nelle vicende
narrate è diverso, come lo è l'elastico delle distanza da esse. Quello che
appare, a una lettura trasversale, è la disseminazione di frammenti, che pian
piano vengono a costruire l'autobiografia in fieri di Carrère: dove per in
fieri non intendo solo il farsi del testo autobiografico, ma più precisamente
quello del recupero, o della ricostruzione, degli eventi che vanno a
costituirlo in dipendenza dello stato presente di Carrère autore e narratore.
C’è sempre infatti nel suo lavoro un
aspetto, o uno sfondo, di investigazione: solo che qui essa non è quasi mai
rivolta alla ricostruzione dei fatti, il cui tenore è dato per scontato, già
noto, rivelato da altre indagini e documentato in atti processuali, testi,
registrazioni, filmati ecc. (dove non è assodato e si cerca di portarlo alla
luce - il nonno fuggito dalla rivoluzione sovietica e diventato
collaborazionista con i nazisti; il soldato magiaro chiuso per oltre mezzo
secolo in manicomio a Kotelnitch; ma anche le vere vicende di Limonov in Bosnia
o in Transnistria
e nell’Altaj dove è stato arrestato -, ci si
scontra con barriere insormontabili, silenzi, assenza di testimoni e
documenti... o magari solo depistaggi, ostacoli che poi nascondono nulla, o quantomeno
nulla di decisivo o che possa modificare radicalmente ciò che si sapeva o si
intuiva già prima), ma, come già accennato, alle loro motivazioni e agli
effetti (soprattutto interiori: psicologici e cognitivi e morali) da essi
prodotti, in primis sul narratore stesso, su ciò che sta a monte della sua
scelta di quel personaggio e di quella storia e non di altri, come certo si può
fare per ogni personaggio e storia presentati come pura invenzione, ma che qui,
per il fatto che la fonte e narratore vengono dati come “reali”, acquista
un’urgenza più pressante e diretta, un significato più marcato proprio perché
quello degli eventi narrati e il loro stesso valore sembrano bastare a se
stessi senza necessitare di alcun supplemento.
Le scansioni temporali, il montaggio
degli eventi e la scelta dei frammenti che nelle differenti sfaccettature
vengono infine a comporre la figura
di un evento conferendogli quella forma “oggettiva”, indiscutibile, comprovata,
dei fatti a tutti noti e consegnati alle cronache e agli archivi, appaiono in
tal modo secondari, del tutto naturali, o viceversa sembrano obbedire, in certi
momenti salienti, a una “pura” strategia retorica, emozionale, mentre passa in
secondo, o terzo, o ultimo, o invisibile, piano il loro carattere generativo e
costitutivo. E questo vale a maggior ragione per i passaggi di raccordo, le
descrizioni, i commenti esplicativi. E le sospensioni e le ellissi e le
reticenze. Che, nel caso di Limonov
più ancora che nei romanzi precedenti, concorrono a dare alla narrazione quel
carattere “avventuroso” che tanti vi hanno a ragione riconosciuto, rendendone
avvincente la lettura.
Narratore e protagonista sono entrambi
scrittori, ma ne incarnano due tipologie opposte. L’eroe eponimo, Limonov, che
è già un nome di finzione che Eduard Savenko si è attribuito con intenzione in
certo modo programmatica: non per celarvisi ma come una specie di atto di
autopaternità, è lo scrittore maledetto, acido come il limone e esplosivo come
la granata, fuori dalle righe, il provocatore, quello tutto proiettato nella
vita, che non disprezza la scrittura ma la subordina, in apparenza,
all'esistenza, come una macchina che rincorre le esperienze più varie e
estreme, che sopra ogni cosa vuole l'intensità (anche se un'interpretazione che
ribalti le gerarchie sarebbe altrettanto legittima: e del tutto complementare,
a ben vedere). Carrère invece incarna il tipo più introverso, mondano sì, ma
pronto a chiudersi a riccio, raffinato e gaudente, ma in fondo soprattutto
meditativo, che per certi aspetti aspira all’avventura, ma da una parte quando
la insegue, per esempio cercando di dare alla sua letteratura una torsione
performativa come in Facciamo un gioco, viene travolto da esiti del
tutto imprevisti di cui si pente amaramente, mentre dall'altra si trattiene
perché sospetta dentro di sé lati oscuri non poi così distanti da quelli che
muovono l'oggetto della sua indagine, come di altri protagonisti dei libri
precedenti, e pensa che il modo migliore per venirne a capo sia scriverne: che
scriverne sia il suo modo di dar loro corpo fino in fondo. Quanto al resto le
similitudini personali con Limonov si limitano alle letture infantili: gli
stessi eroi, analoghe aspirazioni..., ma con passati così diversi da essere
incommensurabili, quando non conflittuali: sia come statuto famigliare che nei
confronti della storia della Russia da entrambi amata.
Abbiamo dunque uno scrittore che narra
la vita di un altro scrittore per il quale le opere sembrano secondarie
rispetto alla furia della vita, che poi però confluisce tutta nell'opera e anzi
sembra quasi che sia vissuta in sua funzione, in funzione del personaggio che
vi apparirà, del monumento che costruisce a se stesso non l'uomo, ma il
personaggio (cioè colui che affronta tutte, ma proprio tutte le prove dell'esistenza,
senza arretrare davanti a nessuna e anzi andandosele a cercare o a inventare
quando latitano) con il supporto dell'uomo, che con lui si identifica
sbandierando l'identica brama di esperienze a ogni piè sospinto. Il tentativo è
quello di dire l'ultima parola su di sé: sull'immagine di sé che si intende
edificare, come se usando la scrittura già non si esponesse tutto alle
interpretazioni. Carrère da parte sua comincia a fornirne una, erigendogli un
contromonumento, per il quale valgono però le stesse considerazioni. Limonov
uomo (il personaggio pubblico che all'anagrafe risulta Eduard Savenko) ne è
felice, nonostante abbia qualcosa da ridire, che però passa in second'ordine di
fronte al servizio che (crede) gli è stato fatto: come se l'identità di un nome,
che peraltro qui è già, paradossalmente, uno pseudonimo, cioè un nome
attraversato dalla finzione, bastasse a garantire l'identità del resto. Io sono
Don Chisciotte.
Non sorprende quindi il ruolo ricoperto dalla
componente metaletteraria. Per quanto Carrère in genere nei romanzi non la
espliciti in modo diretto e diffuso, è molto meno reticente nelle numerose
interviste a cui non si è negato, che a ritroso rendono più perspicui molti
passaggi che nei romanzi magari erano stati mimetizzati nella descrizione di
ambienti o personaggi del contesto letterario o culturale e negli eventi che li
vedevano di volta in volta protagonisti o testimoni.
Ma quello che interessa di più sono le
professioni di onestà, sincerità e trasparenza dell'autore/narratore sia nei
testi che nelle interviste rilasciate a destra e manca.
Cosa ci possono dire in merito il
processo di costruzione, la forma e la strategia narrativa? Decisive, oltre al
montaggio, sono la moltiplicazione e la disposizione e alternanza dei piani
narrativi, che distribuiscono strategicamente i segmenti testuali indicando i
collegamenti, a mo' di servizio, quasi fosse l’esplicitazione più o meno
sottile di dati di fatto (e in realtà forzandoli, senza darlo a vedere), invece
di chiedere la collaborazione del lettore, di invitarlo, se non di obbligarlo,
a lavorare sui vuoti e sulle giunture, o addirittura a crearle, come fa spesso
Perec, ad esempio. Mentre però nei fatti riportati (e nella esistenza concreta:
cfr. Ritorno a Kotelnich, Facciamo un
gioco) il desiderio di disporre le pedine e programmare tutte le mosse
possibili è in funzione di ciò che può succedere, che però sorprende e più
spesso ancora delude lo stesso demiurgo, fino a fargli del male, tramutarlo,
come l’ufficiale della kafkiana Colonia
penale, in vittima del suo stesso congegno; nella scrittura la disgiunzione
dei segmenti è sottoposta a vincoli più numerosi e a un controllo più stretto,
anche se poi, e Carrère è troppo accorto per ignorarlo, tutto sfugge sempre da
ogni lato. Da una parte, tramite l’intrusione del caso nel farsi stesso
dell'opera oltre all’evoluzione sregolata e a volte fallimentare degli eventi,
con le conseguenti interruzioni e deviazioni dalla linearità della narrazione,
viene distolto lo sguardo (almeno a una prima lettura: quella che conta, quella
che forse resterà l’unica), dalla minuziosa ingegneria costruttiva, quasi che
la creazione di attese e la loro sospensione facesse parte delle "cose
così come si sono svolte"; dall’altra, l'autore in tal modo agisce come
auspicando, con un compiacimento del tutto legittimo per carità, che non solo
uno sguardo più acuto scopra l’ordito nascosto, ma anche che il testo generi a
sua volta macchine e sensi che lui non aveva previsto (che sarebbe il vero
suggello della sua riuscita).
Le ultime opere di Carrère si
strutturano prevalentemente su tre piani e tre tempi: per esempio in Romanzo
russo la tripartizione riguarda: 1) l'uomo e amante; 2) lo scrittore e
documentarista; e 3) il figlio e nipote, con temporalità parallele che a volte
si ricongiungono e altre no (per esempio i tempi decisivi dell'uscita di Facciamo
un gioco su “Le Monde” e i diversi spazi e modi in cui vengono vissuti; o
quelli dei viaggi in Russia di Carrère e della vita in Francia di Sophie, o
quelli costruiti attorno ai vuoti e alle omissioni della storia famigliare);
mentre in Vite: accanto a quello dell'esperienza personale (1), da cui
tutto parte (il fatto casuale di essere stato sui luoghi colpiti dallo tsunami
del 2004 e le conseguenze che esso ha avuto sulla sua vita e su quella di nuovi
conoscenti e vecchi amici), la storia di coloro che vi sono sopravvissuti (2) e
quella dei due giudici di provincia e della loro lotta contro la malattia
mortale e lo strozzinaggio dei piccoli e grandi istituti finanziari e della compiacenza
delle leggi (3).
Invece in Limonov la doppia
tripartizione in linea di massima è questa: 1a) vita e opere di Limonov con
ampio uso di riferimenti o citazioni dirette dalle sue opere; 2a) ricordi e
altri frammenti autobiografici di Carrère; 3a) storia della Russia, in
particolare da Stalin, in poi, e sua ricezione occidentale; 1b) tempo lineare
della vita di Limonov nelle sue scansioni (cittadina natale; Mosca;
emigrazione, con tappa in Italia; Usa; Parigi; ritorno nella Russia
postsovietica; Balcani; paesi dell'ex Urss e prigione); 2b) cronologia storica,
come sfondo o in primo piano; 3c) tempo mobile del discorso, con le sue soste e
accelerazioni e dilatazioni, e continuità e rimemorazioni e anticipazioni
(analessi e prolessi, per usare termini tecnici; e in più flashback e
differente uso dei campi, dal primissimo piano ai campi medi e lunghi, e dei
movimenti di macchina, dalle panoramiche e ai piani sequenza per usare il
linguaggio cinematografico).
È una struttura insieme più fluida e
più ampia e duttile di quella dei due libri precedenti. La ragione mi sembra
vada ricercata nel dovere di fedeltà alle vicende della vita del protagonista
secondo la loro scansione cronologica dettata da parametri esterni facilmente
condivisibili, ma che appunto grazie a questa solidità crea lo spazio per un
movimento più vario e disinvolto al suo interno che poi finisce per
complicarla, interromperla e persino stravolgerla senza darlo a vedere: cioè
senza che la lettura ne risenta.
Carrère ha scelto di
raccontare la vita di Limonov perché era una “vita fatta di luci e di ombre,
l'avventura, l'azzardo: era un terreno perfetto da mettere insieme, non da
reinventare”, una vasta geografia umana e sociale, ricca di contraddizioni che
convivono a volte anche pacificamente, e che quando entrano in conflitto, lo
vivono meno al loro interno che in rapporto ai criteri interpretativi francesi,
o occidentali se si preferisce; ed è forse questa la principale ragione, anche
se lo scrittore francese preferisce non sottolinearlo, che in un certo senso
sollecitava, se non addirittura reclamava, l'intervento di altre voci rispetto
a quelle dei diretti protagonisti e la moltiplicazione dei piani narrativi e
discorsivi e dei loro intrecci.
La presenza di un narratore
che coincide con l'autore, di qualcuno che prende in carico la responsabilità
di tirare i fili della storia di Limonov allargandola al contesto in cui è nato
e ha agito, e di qui alle principali vicende internazionali che ad essa sono
connesse (che è un altro dei fattori che rendono il libro così interessante),
di assemblarne i frammenti e orchestrare la partitura di testimonianze e punti
di vista, diventa quindi più che legittima, indispensabile: ma se vuole farlo
senza riproporre il ruolo di narratore onnisciente, o, peggio ancora, di voce
anonima scaturita da qualche scientifica (storica, fattuale) verità, deve
mettere in gioco, cioè inserire nel gioco e al contempo mettere in questione,
anche se stesso: non solo la propria voce o le proprie opinioni, ma la propria
vita. Quella parte di essa, quantomeno, che alla figura di Limonov è in qualche
modo legata; ma che poi, dovendo estenderla ai suoi luoghi e alla sua patria,
cioè a quella Russia che, guarda caso, è la stessa da cui proviene la famiglia
materna, che da sempre lo attrae e con la cui lingua ha un rapporto di
fascinazione viscerale ma anche di difficoltà di piena assunzione (lingua
materna di cui perde sempre il controllo, specie nel parlato, sicuro indice di
un conflitto non sanato, ma che la scrittura di un libro come Romanzo russo
forse aiuta a sanare), finisce per coinvolgere
anche i momenti fondanti della propria, di vita. Detto in modo più
semplice: deve per forza intrecciarvi la propria autobiografia. Non è questione
di generi o di definizioni: riguarda lo statuto del discorso, e quello della
voce narrante in primo luogo. La veridicità, e la credibilità, di ciò che narra
a proposito dell'una è garantita, o dipende, da quella della seconda; e
viceversa.
L'insistenza su verità,
trasparenza, onestà ecc, che punteggia opere e interviste viene da qui. Non
dubito della sincerità di Carrère quando la rivendica, con tutto il suo corteo
di oneste damigelle; e non metto nemmeno in discussione quanto sia stato
importante, per lui come uomo e come autore, rispettare questi buoni propositi
(è bello sentirsi buoni: mica è obbligatorio essere delle carogne a questo
mondo), specie dopo le prove non sempre positive che aveva dato di sé e che
aveva scrupolosamente raccontato negli ultimi romanzi, ma questo non ha niente
a che fare con il funzionamento del libro. Nel testo la sincerità o è una
strategia o non è nulla. L'apparente masochismo con cui il narratore snocciola
tutte le sue meschinità ne è una componente decisiva e l'understatement
dell'autodiminuzione non è solo subordinato alla messa in rilievo degli altri
personaggi, e di Limonov in particolare, ma serve a rafforzare la credibilità
di tutto ciò che d'altro viene detto. La funzione quindi è opposta a quella che
imperversa in tutti i media da vari anni a questa parte: che sarà pure
un'esigenza che nasce dalle nostre umane debolezze, dal sentimento di essere
sperduti e insignificanti nella totale dissoluzione di ogni certezza e punti di
riferimento e compagnia bella, ma che a me nessuno toglie dalla testa che sia
soprattutto un rivoltante sfruttamento della facilità e della fragilità, e una
conferma ancora più inappellabile dell'insignificanza di ciascuno attraverso
l'illusione del faccia a faccia, dell'anima ad anima, delle budella a budella.
La differenza è, da una parte: parlo
per me perché è l'unico punto da cui posso parlare, sono come te, tu mi
capisci, quello che dico ti serve, ti può consolare come consola me dirtelo,
sentirti vicino perché lasci che ti dica tutto di me e mi riconosci come tuo
simile nell'ascoltarmi mentre lo dico, anche se poi non dico altro da ciò che
già sai, con la sola differenza che stavolta ci metto il mio nome e tutti lo
riconoscono come la mia storia, la storia della mia individualità e debolezza e
solitudine e malattia e ascesa e caduta e ritorno, la storia di me che già ero
noto come personaggio pubblico o che divento pubblico ora mentre lo dico qui,
davanti a tutti i te, a ciascun te, uguali tra di voi e a me: anche se certo
non così uguali se la tv o lo sport o la cronaca mi avevano già portato alla
ribalta prima, eppure una perfetta nullità come te, e come tutti quelli che
credono di essere qualcosa di più solo per il fatto di riconoscere le leggi di
questo meccanismo contro cui niente di niente possono fare; mentre invece qui,
nei libri di Carrère ma anche in quelli congeneri, l'io è implicato sì con la
funzione della testimonianza e dell'istanza di verità; ma appunto, è solo una
funzione: che serve a dire e costruire e soprattutto non a condividere ma a
capire, a mettere un filtro, e che forse serve anche a garantire, ma, preso nel
gioco, è a sua volta passibile di analisi, e quindi può e deve essere messo in
discussione: non in com-passione ma in com-prensione ecc. Non è quindi lo
sfoggio dell'interiorità: è il suo uso; non è lo sbragamento del cuore messo a
nudo, ma la messa in scena dell'interiorità come passaggio necessario, garanzia
soggetta a smacco e revoca...
La differenza è che questa, biofiction
autobiografia romanzo dell'io o comunque la si voglia chiamare, è letteratura:
il tentativo di portare le cose su un piano diverso (diverso dall'esibizione,
dalla condivisione, dalla compassione, dalla morale, dal divertimento...),
magari più alto, anche a colpi di calci nel sedere se necessario (ma
principalmente con il linguaggio come padrone assoluto: tutto il resto sono
menate).
Un'altra, non secondaria ragione per
sospettare di questa insistenza sull'onestà e la trasparenza è che viene da uno
scrittore che indaga i comportamenti e le zone della psiche dove questi
elementi appaiono meno decidibili; dove la verità non è mai chiara, e
l'illusione, quando non l'allucinazione e la menzogna, non sono riconoscibili
come tali, se non per barbagli, e anche allora compenetrati con il loro
opposto, stretti in nodi inestricabili i cui effetti sono irreversibili.
Già in Baffi, la cosa è evidente: e l'influsso di Philip Dick, anche se la
la pubblicazione della sua biografia è di qualche anno dopo, è molto marcato: e
non è rilevante se discorso qui è di tipo patologico, invece che riferito a un
futuro distopico o a un passato alternativo: l'indecidibilità permane, né mai
viene dissolta anche una sola Fata Morgana, come si
intitola uno splendido documentario di Werner Herzog, tanto amato da Carrère.
Credo che anche questo movimento da un
piano all'altro, questo nastro di Moebius dove la finzione e la verità
trapassano l'una nell'altra e giocano a cancellarsi solo per rafforzarsi a
vicenda, sia uno dei principali elementi metaletterari di queste ultime opere
di Carrère.
Detto in altro modo: senza bisogno di essere
oggetto di tematizzazione o mise
en abîme esplicita come avveniva in molti noiosissimi testi degli
anni '960-70, e anche oltre, se la verità passa per la finzione non è più
necessario che i loro reciproci rispecchiamenti e ribaltamenti e intrecci siano
oggetto di trattazione diretta, ma si traducono direttamente nei rapporti tra i
diversi piani narrativi e le diverse istanze discorsive, senza che nessuna
possa pretendere di sigillare con l'ultimo chiodo la bara della verità. Colui
che potrebbe ambire ad avere l'ultima parola non è in grado di pronunciarla,
esita e si sente messo in discussione lui per primo. E non a caso questo inizia
con L'avversario, il libro che narra la storia di un pluriomicida a
proposito del quale il giudizio non dovrebbe dare adito ad alcun dubbio; un
libro dove il narratore non è già presente dall'inizio negli eventi narrati
(come negli ultimi 3 libri), ma decide lui di entrare perché nessuno sguardo
chiaro e distinto, nessuna sorgente esterna potrebbe gettare sulla vicenda, sui
suoi oscuri precedenti e sui meno oscuri, in apparenza, effetti, una luce che
non sia superficiale, cioè inutile e consolatoria. Bisognava entrare nella
palude e provare a guadarla: ma una volta compiuto, questo passo non ha potuto
che prolungarsi alle storie successive, e non solo coinvolgerne tutti i
principali elementi, ma già presiedere alla loro stessa individuazione e
scelta.
Si tratta insomma di cartografare un
territorio che non prescinde dalla presenza al suo interno del cartografo e del
suo sguardo, pregiudizi inclusi. Non il male oggettivo, quello facile da
riconoscere e definire, quello sul quale siamo d'accordo tutti, ma il male che
accade, che ci abita e che seguiamo senza saperlo; quello che, come un filo di
sudore per il caldo che si presume che subito si asciugherà, deriva da tutte le
buone intenzioni, che si raggomitola come polvere in qualche loro angolo
secondario; o quello che appare indiscutibile a noi mentre non lo è affatto per
altri, che non sono per forza più malvagi di noi; e ancora il male che non
diventa male se non nel momento in cui una vicenda finisce e la porta si
chiude, per aprirsi però di nuovo, prima o poi, mostrando scenari radicalmente
diversi, del tutto imprevisti: orrido, irredimibile. Quello per cui ogni
volontà di memoria, di recupero e salvezza, sono necessarie, un imperativo
assoluto, e insieme assolutamente inutili. Meno di un placebo. O infine il male
che esiste semplicemente perché da sempre siamo già almeno in due. E già nella
pluralità che ciascuno è.
“Con il male” ha scelto di
schierarsi, con una rivendicazione che di titanico ha solo l'intenzione,
Limonov; Romand invece ci si è trovato immerso quasi senza accorgersene, per
facilità, e per quella quotidiana vigliaccheria che produce i piccoli rinvii e
le omissioni che poi diventano ignavia e routine, finché non si è trovato a
dover portare alle estreme conseguenze tutto il labirinto di decisioni
menzognere che erano derivate dalla prima menzogna della decisione mancata
(ammettere di aver saltato l'esame per il quale peraltro aveva studiato e darlo
alla sessione successiva); il soldato ungherese di Romanzo russo e il nonno di Carrère l'hanno condiviso, non si sa
quanto coscientemente, scegliendo di schierarsi con il nazismo, ma ne hanno
pagato il fio, mentre la ragazza di Kotelnich ne è solo vittima, come le
innumerevoli che a diverso titolo sono travolte in Vite, alcune delle quali però riescono a vincerlo, o a superarlo, a
trasformare gli oltraggi in bene per sé e per gli altri; e Carrère stesso lo
innesca a volte senza nemmeno rendersene conto (Facciamo un gioco), come i presunti autori del presunto scherzo al
protagonista di Baffi.
Ma il male che
sceglie Limonov è diverso da quello di Romand o da quello che in Vite prende
la figura dello tsunami, del tumore, della perdita dei figli o dei soprusi più
vergognosi perché nascosti in codicilli, in appendici redatte in caratteri
piccolissimi, illeggibili oltre che incomprensibili da parte del debole e del
povero che sono devastati dai loro effetti: non è un male senza se e senza ma,
il male assoluto, senza possibili attenuazioni, il male che a volte (ma solo a
volte) non può nemmeno essere perdonato perché senza autore, senza che nessuna
volontà presieda alla sua realizzazione: male anonimo, oggettivo, a cui non ci si
può rassegnare proprio perché ad esso non vi era opposizione possibile, se non
qualcuna (incuria, mancata prevenzione o allarme, cecità collettiva...)
inventata come surrogato di un senso, di una spiegazione assente una volta per
tutte e per sempre. Quello che sceglie Limonov è un male così sfumato, così
relativo da non sembrare più tale, a volte, se appena ci si sposta di qualche
grado, a destra o a sinistra, o sopra o sotto; e quando meno si direbbe
discutibile, come nelle riprese in cui l'avventuriero vindice dello slavismo
spara come un cecchino verso Sarajevo, ancora non è certo che sparasse davvero
su obiettivi umani inermi o fosse solo una rivoltante messinscena; e
soprattutto lui, il malvagio, il depravato, l'aspirante assassino, non appare
tanto come una figura demoniaca, quella di un angelo decaduto ma pur sempre
angelo, quanto piuttosto un guitto, il protagonista cialtrone e patetico, ma
comunque spregevole, di una farsa che per gli altri invece è tragica. Grida
slogan nostalgici a favore di Stalin, Berija e, spero solo provocatoriamente,
dei gulag, di cui non sopporta i sopravvissuti santificati, specie se un po'
bacchettoni, poi però lo si vede anche manifestare contro Putin, ricevere
attestati di stima, e non sempre col naso turato, da parte di personaggi
insospettabili, e ancora schierarsi dalla parte dei più deboli, non trarre
grandi benefici dalla propria posizione (se non un innocuo, e gratuito,
incremento del numero di moglie e amanti) e costituire un punto di riferimento,
addirittura un esempio non solo per ragazzi e sbandati di provincia ma per
coloro che che non osavano chiedere spiegazioni a quanti nella Russia di Putin
hanno commesso misfatti con la certezza di restare impuniti, facendosi il
rispettato portavoce delle “madri dei soldati (… e) dei bambini massacrati
nella scuola di Beslam, nel Caucaso, (e dei) familiari delle vittime del teatro
della Dubrovka”.
I giudizi sulla
sua figura e sul suo operato che vengono riportati nel libro coprono una gamma
piuttosto ampia; Carrère ripete in più occasioni che le cose sono più complesse
di quanto non appaiano e lui stesso sia in grado di articolare, ma certo non
risparmia anche le sue osservazioni, che se per un verso non possono celare una
sorta di ammirazione e di invidia per una vita “riuscita” (se tra i “criteri per giudicare il successo di una vita uno
riguarda certamente l'ampiezza delle esperienze vissute”, come ha detto in
un'intervista a Francesca Borrelli, quella di Limonov è nella hit parade: si
tratta di vedere quali però – a meno che non sia la loro successiva narrazione
a renderle tali; ma basta?), dall'altra non si sottrae al dovere etico di
esprimere un giudizio senza mezzi termini quando è il caso, arrivando a
definire Limonov “un personaggio odioso”.
Ma se
questo gli è valso il plauso dei francesi, che hanno letto il libro come un
romanzo, in Russia è avvenuto il contrario: poiché lassù conoscono Limonov
hanno voluto saperne di più sulla sua vita, e sapere anche cosa un estraneo, un
francese, ne pensa, e c'è stato chi ha ribaltato il giudizio negativo su di
lui.
In un breve, intenso testo
pubblicato su “Le courrier de la Russie” Zachar Prilepin lo critica in modo
molto deciso: non solo, come già detto, Carrère ha preso per vero ciò che è
scritto nei libri di Limonov senza preoccuparsi di verificare con documenti e
testimonianze e non si nega nessuno degli stereotipi tipici dell'intellettuale
europeo quando parla dell'ex-Unione Sovietica e dell'attuale Russia, ma mette
sullo stesso piano Limonov e Putin, trascurando le differenze (per esempio
quella non trascurabile che uno è un autocrate potentissimo e plurimiliardario,
l'altro un uomo perseguitato, che è finito in prigione probabilmente senza
ragione, e tutto meno che ricco); parla della Russia senza saperne niente o
quasi, con il sottinteso tipico dell'approssimazione presuntuosa che si tratta
di luogo barbarico e feroce; usa categorie, come fascista, che non c'entrano
con il contesto russo (dove non esiste: semmai ricorda che è stata l'Unione
Sovietica a sconfiggere il nazismo a prezzo di innumerevoli vittime e di
indicibili sacrifici); e soprattutto, peccato mortale per uno scrittore, ha
scelto la facilità, scrive senza profondità. Limonov invece, per Prilepin, lui
sì che è un “uomo di cultura umanista e un grande scrittore, e non un uomo di
potere mutimiliardario. Il punto di vista dei russi sulla fine dell'Unione
Sovietica e su ciò che è avvenuto dopo, anche a livello di alleanze
internazionali, non conta nulla; il giudizio occidentale, che è stato solo un
bene, non viene messo in discussione”.
Le sue accuse di
pregiudizio e complesso di superiorità sono riassunte e suggellate, con
atteggiamento in fondo speculare, dall'attribuzione a Carrère dell'etichetta di
snob parigino, simile a quella che potrebbe affibbiargli, che so?, uno snob
romano. O milanese.
È più che probabile che
queste accuse abbiano una loro verità; certo è che, pur dalle nostre debolezze,
non è consigliabile rinunciare a giudicare. Un giudizio meditato, non sommario,
revocabile, rinegoziabile, ma un giudizio. L'effetto di un'analisi, di uno
sforzo di comprensione e di una scelta. La scelta che le cose non accadano e
basta. E quella, simile, di lasciare che a farle accadere siano solo gli altri.
Qualche categoria e strumento decente per esprimerlo l'Occidente l'ha
elaborato, in fondo.
A me sembra che come
Carrère ha scritto i suoi libri anche per portare alla luce e fare i conti con
alcuni lati oscuri della sua storia personale e famigliare, tanto da
arrischiare la rottura con la persona da lui più amata, la madre che gli aveva
chiesto di lasciare nel silenzio certi episodi peraltro mai certificati del
passato soprattutto di suo padre (si veda la bellissima lettera che le scrive
in chiusura di La vita come romanzo russo), ricevendone il beneficio di
una vita, se non pacificata, meno conflittuale e più conciliante con se stesso
e gli altri; così anche il lettore si trova a dover affrontare, attraverso i
personaggi dei suoi libri e di Limonov in particolare, la parata di tutte le
proprie reali o possibili miserie, che affiorano a colpire ciascuno in punti
vitali diversi e a sollecitare delle scelte che, come hanno coinvolto il
narratore, coinvolgono anche lui, lo mettono in causa, e lo lasciano tutto,
meno che tranquillo.
Io
sono vivo e voi siete morti. Philip Dick, 1928-1982: una biografia (Je suis vivant et vous êtes morts) (1993) Theoria, 1995
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