Alcuni
pensano che, come il noir lo sarebbe del romanzo politico e sociale, la
fantascienza è uno degli ultimi rifugi della metafisica. O quantomeno della
speculazione. “Il miglior terreno di coltura per le riflessioni eterodosse”,
secondo le parole di Franco La Polla ovvero, per usarne altre di Valerio
Evangelisti, letteratura che spesso si traduce in "metafora politica unita a metafora di una condizione esistenziale".
Non a caso per essa, e altri generi affini (fantasy, horror, ecc.), è stata
coniata la categoria di “speculative fiction”, che personalmente mi piace
molto, quantomeno come definizione. Meno invece come categoria “ombrello” che
racchiude praticamente tutto quanto non appartenga alla fantomatica narrativa
realista o quasi, forse anche la mia carta d’identità.
Uno
dei rappresentanti più significativi delle ultime generazioni è senza dubbio
Ted Chiang, americano di padre cinese, classe 1967, di professione
programmatore informatico, autore di una manciata di racconti scritti in 25
anni e raccolti in soli due libri, ma tutti di grande livello e risonanza e
finalisti o vincitori dei più significativi premi del settore. Chiang è balzato
alla notorietà anche fuori dalla cerchia degli amanti della sci-fi da quando il
racconto che dà il titolo alla sua prima raccolta, Storie della tua vita
(2002), ha fornito a Denis Villeneuve la base per il suo film Arrival.
Da pochi mesi è in circolazione anche la seconda raccolta, Respiro, che
è stato recentemente annoverato dal New York Times tra i cinque libri di narrativa
migliori del 2019.
La
produzione scarna dipende dal fatto che Chiang scrive solo quando vuole, cioè
solo quando ha un’idea buona e originale, che può nascere da occasioni concrete
anche banali, ma abbia in sé un nucleo forte, che la consuetudine impedisce di
vedere e che quindi di solito non si cerca di indagare, o si indaga secondo
parametri inadeguati alla novità che essa può celare sotto le vesti della
routine, sociale o tecnologica, del già acquisito e archiviato. Chiang, in
appendice ad ogni libro, e certo come elemento essenziale quanto i racconti
veri e propri, per ciascuno di essi scrive una breve nota che informa sulle sue
premesse personali e sulle notizie, letture o idee che hanno fatto da innesco
alla loro stesura e talvolta anche su aspetti della realizzazione. Non si
tratta di spiegazioni, quindi è inutile cercare chiavi interpretative dei punti
di meno facile accesso (la scrittura è sempre chiarissima e senza fumisterie o
vaghezze), o dichiarazioni di poetica o rivelazioni di metodi di lavoro: sono
invece narrazioni di alcune premesse delle narrazioni, della loro urgenza e
necessità per chi le ha scritte. Cioè, nel loro insieme, un racconto a parte:
il racconto della nascita dei racconti.
Né
d’altra parte la narrazione dell’occasione riduce i racconti a illustrazioni di
una tesi e nemmeno a verifiche di ipotesi predefinite: essi sono invece
costruzioni narrative di ipotesi che solo nelle storie narrate diventano tali e
trovano la loro formulazione, dando luogo e vita alle loro indagini e sperimentazioni
speculative, che narrative sono in tutto e per tutto, e tali restano in ogni
caso.
Gli
argomenti dei racconti sono molto vari, ma con temi ricorrenti, per
sorprendenti siano le pieghe narrative che poi prendono. Alcuni sembrano
costituire come il sottofondo, se non la base di partenza degli altri. Come per
esempio il 2° e il 3° racconto di Storie della tua vita, “Capire” e
Divisione per zero”, che hanno per oggetto il problema del senso che, se fosse
compreso nella sua totalità, come nel primo, non lascerebbe altro spazio per
nient’altro ribaltandosi così nel suo contrario: completa saturazione che si
traduce nell’assenza di qualsiasi senso, come peraltro avviene nel nostro mondo
saturo di ogni cosa, dalle merci alle informazioni vere e false (come se il
senso non fosse differenziale, e quindi incolmabile e infinito, e proprio
questo impedisse la sua estinzione); mentre nell’altro la dimostrazione che il
fondamento di ciò che si riteneva il paradigma della certezza, la matematica, è
in realtà una contraddizione, si ripercuoterebbe su tutto ciò che certo non è,
privando, di nuovo, di qualsiasi valore l’insieme, dissolvendolo, e con esso la
vita tutta. “Tutto quello che facciamo [diventa] irrilevante”, anche se poi, dice
alla fine del suo discorso l’archeologa-teologa di “Omphalos”, uno pei pezzi
forti di Respiro, “in quanto esseri umani siamo [comunque] in grado di dare un senso alle nostre vite.
… Anche se noi esseri umani non siamo la risposta a un perché, io
continuerò a cercare una risposta al come”.
In
essi c’è già anche un altro dei temi ricorrenti dello scrittore statunitense,
quello dell’empatia, e fa la sua comparsa quello del linguaggio, che diventerà
centrale nell’opera successiva, a cominciare dal racconto eponimo del primo libro
e poi, diffusamente, in Respiro.
Altri due temi portanti, e ovviamente
connessi tra di loro, sono quelli del tempo e del libero arbitrio in rapporto
al fatto che il futuro, per quanto impossibile da conoscere a priori, è
implicito, come esito necessario e quindi non libero, nella necessità che ogni
azione porti ineluttabilmente verso qualcosa. Idea che si incarna con grande
efficacia nella diversa logica temporale degli alieni di “Storie della tua
vita”, per i quali il futuro ancora non avvenuto eppure già attuale determina
il passato e il presente ancora in fieri. Secondo una diversa prospettiva, ma
in modo simile, nel breve e folgorante “Cosa ci si aspetta da noi” il futuro
anticipa il presente, come accade con l’Oracolo, un oggetto ludico che è
composto solo di un pulsante e di un led che si illumina sempre prima che si
riesca a toccarlo, per subito spegnersi non appena si sospende il gesto: il
gioco consiste nel tentare di premerlo prima, cioè nel ripristinare una
causalità e una successione temporale lineare “normali”, che però a nessuno
riesce mai, a dispetto di ogni strategia o decisione, che quindi non contano
nulla. Anche la possibilità – indagata nel
lungo, notevole racconto finale di questo libro, “L’angoscia è la vertigine
della libertà” –, di intervenire
nelle vite alternative che si biforcano a partire dal Prisma, uno schermo con
due luci che danno il via ad altrettante possibili vite a partire solo dal
momento in cui viene accesso, sembra aprire spazi di libertà, e insieme di irresponsabilità
poiché induce alcuni a credere che questo “annull[i] il peso morale delle loro
azioni” e a cedere a quello che Poe chiamava il “Genio della perversione”, cioè
a compiere delle azioni anche sbagliatissime solo perché è possibile farlo;
cosa che però non impedisce che le azioni restino imprigionate in un rigido determinismo.
Infatti
i futuri alternativi messi in comunicazione dal Prisma sono entrambi
perfettamente coerenti e indipendenti, ma a loro volta determinati, tanto che
persino il contatto tra i rispettivi sé delle diverse linee temporali non
riesce a modificare il corso degli eventi, dal momento che se anche uno viene
modificato, quello che deriva dal mancato incontro procede seguendo il suo
corso, così come segue il suo corso quello determinato dall’incontro e
dall’intervento. E così avviene anche per il passato, nonostante il portale che
consente di accedervi del primo racconto, “Il mercante e il portale
dell’alchimista”, che sembra una variazione delle Mille e una notte in
chiave borgesiana.
E
allora che ne è del libero arbitrio, a cui aspirano persino i digienti, cioè
gli enti digitali capaci di imparare e evolversi del magnifico “Il ciclo di
vita degli oggetti Software”?
“Voglio
sapere se le mie decisioni contano qualcosa!”, esclama una donna durante una
delle sedute del gruppo dei prismadipendenti nell’ultimo racconto. “Sono certa
che le nostre decisioni abbiano un peso”, le risponde Dana, la psicologa che fa
da guida e supporto al gruppo. “Comportarsi correttamente è comunque sempre
preferibile, perché i futuri possibili saranno popolati da una versione
migliore di noi stessi”.
A
un simile comportamento dovrebbe indurre anche la protesi oculare di “La verità
del fatto, la verità della sensazione”, che trasforma in “cyborg cognitivo” chi
se l’è fatta applicare permettendogli di registrare ogni cosa veda o gli accada
e facilitando l’accesso a ogni momento del passato in qualsiasi circostanza, in
particolare nelle dispute sulla “vera” versione di un fatto o sulle parole
effettivamente dette. Il rischio però è di portare nelle relazioni, soprattutto
nelle più strette come quella tra padre e figlia nel racconto, una “mentalità
da segnapunti”, mentre invece tutto dovrebbe reggersi sul “perdona e
dimentica”; tanto che il protagonista finisce per chiedersi se non ci sia “una
linea oltre la quale il perseguimento della verità cessa di essere un bene
intrinseco” e rischia invece di “essere dannoso”.
Domande
che ci riguardano, anche se le storie si svolgono in un tempo che può andare da
un passato che assomiglia molto a quello storico, come nello steampunk; oppure in
un presente per qualche minimo aspetto alternativo; o in un futuro prossimo che
potrebbe essere l’effetto o il seguito quasi immediato del nostro, determinato
da qualcosa che già esiste, ma come elemento inavvertito che inaugura una serie
imprevedibile ma plausibilissima di conseguenze. Anche laddove sono presenti il
meraviglioso e lo straordinario vengono infatti narrati come qualcosa di
normale, all’interno di un mondo con regole proprie, poco o nulla differenti
dalle nostre, che gli conferiscono realtà e verità, e cioè piena evidenza. Lo
straniamento che ne risulta è leggero, l’effetto sorpresa dura un attimo; poi
la sospensione dell’incredulità viene accettata senza fatica e ci adattiamo
alla nuova realtà senza manco rendercene conto.
Invece
di dare alle vicende narrate pieghe sorprendenti e spettacolari infatti
(conflitti, cataclismi, distopie, comportamenti estremi), Chiang opera sempre
un abbassamento e le porta al livello della quotidianità che ciascuno dei mondi
creati comporta, la più banale possibile. I problemi sono quelli che si
presenterebbero ogni giorno a qualsiasi individuo in relazione al suo ruolo
sociale e alla sua professione, di solito piuttosto comune. L’avventura è
quella intellettuale, della conoscenza e del rigore della verifica delle ipotesi
prese in esame, non disgiunta dalla componente emotiva e sentimentale, cioè
umana, non marcata ma diffusa. Una routine con i suoi accidenti e pochissimi
stravolgimenti, se non quelli derivanti dall’evoluzione plausibile, in
cambiamento continuo, per quanto spesso lento e quasi mai catastrofico. Questo
rende più accettabili anche i mondi più lontani dal nostro odierno, anche se nella
maggior parte dei racconti tanto lontani non lo sono, con problemi di
sopravvivenza e soprattutto con implicazioni cognitive e morali che, astratte
dal loro contesto, non faticherebbero ad adattarsi al nostro, e quindi a a
interrogarlo, e talvolta a illuminarlo.
Il
ritmo della narrazione è lento, meditato, analitico: non c’è nessuna fretta di
far accadere qualcosa: prima vanno percorse tutte le diramazioni e implicazioni
del problema o della situazione presentati; solo dopo si può passare ad altro,
che non è necessariamente un evento o un’azione che serva a portare avanti la
trama, ma può essere lo stesso problema o la stessa situazione sviluppati
secondo un’altra prospettiva logica. L’azione, la modificazione, non sono tanto
dei personaggi o dei fatti, quanto del pensiero.
Il
tono prevalente non è di angoscia, speranza, preoccupazione, delusione,
disincanto, allarme, denuncia, incubo, profezia ecc.; l’esposizione è chiara, lucida,
poco emotiva, non dico anaffettiva o distante, perché il cuore del problema è
forte e intenso, non evasivo, e forse proprio per questo il narratore cerca di
evitare di caricare emotivamente e espressivamente il proprio dettato, se non
disseminandolo a volte di sottilissima ironia, quasi impercettibile, e quindi
di ottima qualità, e di un umorismo che il regime non di rado paradossale del
contesto tende a velare ancora di più, ma che appunto per questo è più pungente
e efficace.
Ad
alcuni questo tenore espressivo poco mosso, se non proprio uniforme, è parso
una limitazione, una forma di piattezza: un’assenza di stile, insomma; io credo
invece che non solo sia voluto, ma costituisca una delle principali componenti
del grande fascino di tutto ciò che Chiang scrive, la necessaria compensazione
dell’enfasi che l’eccezionalità delle situazioni narrate può facilmente indurre,
e il modo migliore per stimolare la nostra empatia e farle accedere alla nostra
esperienza.
Nel
coro spesso scomposto e teatrale dei catastrofismi e della corsa al pessimismo
più estremista, per quanto in buona misura suffragato dalla realtà, la voce di
Ted Chiang (che pure fa dire a un suo personaggio: “a preoccuparmi quanto
l’ipotesi di una disfatta della tecnologia, è il suo successo”) si segnala per
la sua pacatezza, per l’apertura a possibilità non ottimistiche o di buonismo
volontaristico e vacuo, ma semplicemente verso ciò che è pensabile ma non
ancora pensato, o pensato in modo parziale, subito abbandonato in quanto non
suscettibile di condurre a soluzioni immediate o a breve termine efficaci, miracolose.
Già questo, forse, è un gesto umanistico importante, che incorpora un principio
di speranza essenziale, non ostentato né però soffocato. D’altronde anche solo
prendere una penna in mano e scrivere, non importa cosa, fossero pure anatemi,
è un gesto ottimista. Lo sanno bene i profeti di sventura. Se no la penna resta
dov’è. Come dovrebbe restare la bocca di tanti: chiusa.
Nota
di lettura
Storie
della tua vita
è stato tradotto prima, mela traduzione di Giovanni Lusso per Stampa
alternativa, nel 2008 (e. or. 2002), e poi, in quella di Christian Pastore, da Frassinelli,
nel 2016. Agli stessi editore e traduttore si deve anche Respiro, di
quest’anno. Alcuni dei racconti inclusi in questo libro erano già usciti in
antologie di Urania e riviste come Robot, e uno, il romanzo breve Il ciclo
di vita degli oggetti-software, vincitore dei Premio Hugo e Locus nel 2011,
era stato pubblicato nello stesso anno in un volumetto autonomo da Delos Books,
con la traduzione di Francesco Lato, nella collana Odissea Fantascienza ricca
di romanzi brevi di notevole valore.
La
frase di Franco La Polla si trova in uno dei saggi di Filosofia della fantascienza, a cura di
Andrea Tortoreto, edito da Mimesis nella collana “Il caffè dei filosofi”, dove
sono numerosi i libri dedicato all’analisi filosofica di opere di fantascienza
letteraria e cinematografica: tra gli ultimi l’interessante AA. VV., Immaginari alterati. La citazione
di Evangelisti l’ho tratta dal forum Rock Temple. Di “Storie della mia vita” e
Arrival hanno scritto su doppiozero Giulia Iannuzzi e Nunzio La Fauci e Sergio Di Lino.
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