Ha parlato tutto il tempo di mutui, di una donna con una pensione misera, di un imprenditore insolvente e del consiglio di chiudere la patita Iva, di un’avvocata di Brescia idiota. Ha ripetuto più volte “che gentaglia!”, scusandosi che la linea andava e veniva. Poi dev’essere caduta.
Ha richiamato per dire che forse era meglio sentirsi una volta arrivato a destinazione. Ora guarda fuori dal finestrino il mattino soleggiato, il lago che sfila prossimo alla fine, il paesaggio di filari di viti, morbido, i pioppi, i platani, qualche cipresso. Ha la barba di tre-quattro giorni, i capelli grigi in via di diradarsi un po’ unti e con la scriminatura a destra, una camicia chiara, una giacca di buona fattura ma di taglio non recentissimo, uno zainetto elegante, di marca, e, ora che non parla più, che è solo con il suo sguardo incollato all’esterno, un’aria completamente disarmata.
Si abbandona al ronzio senza sussulti del treno e presto sonnecchia. I lineamenti prendono allora un’espressione serena, le labbra piegate come in un accenno di sorriso. O forse è la campagna veneta, le colline all’orizzonte, la memoria dei quadri che sto andando a vedere (a rivedere) che me lo mostrano così. Oppure è il sonno a pacificare i lineamenti, a essere di per sé una difesa, una patria.
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