Suonatori ciechi di ghironda, mangiatori di piselli, ubriachi che litigano; zerbinotti gabbati da bari e donne di mondo che si scambiano maliziosi sguardi d’intesa; soldataglie che giocano ai dadi in una taverna; santi che sembrano contadini, dalle mani grosse, le dita nodose e sporche, che impugnano come armi, o falci o randelli gli emblemi che dovrebbero farli riconoscere; donne con infanti sul grembo o in compagnia di bambine o che deridono il vecchio marito, e altre, che al lume di candela, scarmigliate, con specchi, teschi e grossi libri accanto, sembrano meditare su “trascorsi che non sarà bello tacere”, per dirla con Gozzano. Questi i principali soggetti delle opere di Georges de La Tour, ora di nuovo visibili nella mostra di Milano a Palazzo reale, finalmente riaperta e prorogata fino al 27 settembre. De La Tour in Francia è una vera e propria gloria nazionale, oggi ormai ammirato ovunque come lo era in vita, dopo la riscoperta iniziata nella prima metà del 900 che ha fatto seguito a un oblio totale di tre secoli, ma ancora per vari aspetti sconosciuto. Nonostante i ritrovamenti di alcuni documenti e i molti studi e relative scoperte e ipotesi, permangono infatti riguardo la sua vita e la sua formazione ampie zone oscure, come nei suoi quadri: quali sono stati i suoi maestri? a parte uno attestato a Parigi, quali viaggi ha fatto, con che altri artisti si è confrontato? ha compiuto quello canonico in Italia come altri lorenesi suoi conterranei e avuto esperienza diretta del Caravaggio o almeno delle sue opere romane e dei suoi seguaci che tanto sembrano aver influito sulla sua opera? Nato nel 1593, un precoce viaggio a Roma non sarebbe impossibile. Alcuni documenti sembrano descriverlo come persona cinica e feroce, ma una loro diversa lettura attenuerebbe di molto il giudizio, soprattutto alla luce dei tempi, quelli sì ferocissimi, tra distruzioni, conflitti, carestie, saccheggi e incendi (l’inizio del Seicento e soprattutto la Guerra dei Trent’anni: basta dare un’occhiata alle incisioni che le ha dedicato Callot), con una famiglia di dieci figli da mantenere, 7 dei quali morti per le ricorrenti epidemie, come poi la moglie e l’artista stesso nel 1652. La presenza di tanti bambini, a differenza per esempio di Vermeer che pure ne aveva avuti numerosi, sempre rappresentati con tenerezza rattenuta, senza smancerie, indurrebbe a pensare a una certa affettuosità (si veda il magnifico San Giuseppe falegname), per quanto l’amore paterno e la sua esternazione non fossero a quei tempi scontati, e all’importanza attribuita alla vita famigliare. Anche i suoi tratti ci sono ignoti, a dispetto del tentativo, peraltro iconologicamente non peregrino se raffrontato con altri autoritratti di pittori del tempo, di riconoscere il suo volto nel giovane Baro con l’asso di fiori dall’aria maliziosa nell’omonimo quadro del museo di Fort Worth.
Sono poche anche le opere giunte fino a noi, una cinquantina, delle quali un terzo, tutte di pregio, quelle presenti nella mostra di Milano, arricchita da opere anche di altri autori, come Trophime Bigot, Franz Hals, Paulus Bor e vari maestri italiani, che aiutano a comprendere il contesto artistico storico e, in parte, il personale percorso del pittore, che per il resto permane in buona misura misterioso come la sua figura, cosa che non nuoce al fascino che esercita. Le opere da sole, a quanto pare, non bastano al marketing dell’arte, per quanto numerosi siano i quadri che per vari motivi non possono lasciare indifferente anche lo spettatore odierno: alcuni per il loro realismo, per la rappresentazione di figure del popolo come raramente se ne erano viste prima: scene crude, non derisorie, feroci nella rappresentazione e nella stessa pennellata eppure in qualche modo liriche; altri per la natura enigmatica delle scene rappresentate o per il virtuosismo con cui sono dipinte le ombre e le loro fonti luminose (le candele dei vari interni e delle sue notissime, splendide Maddalene, lampade ad olio, fiaccole...), di cui il pittore francese è stato maestro al pari di Caravaggio o di Gherard van Honthorst (Gherardo delle notti), presente in mostra con due opere notevoli, ma in modi del tutto suoi peculiari; altri per i caratteri più propriamente stilistici, come la semplificazione e quasi l’idealizzazione delle forme e delle figure, o come le ampie stesure di colore che nelle ultime opere caratterizzano gli ambienti e che dotano di una consistenza e tattilità straordinaria i tessuti e insieme sembrano dar luogo a frammenti quasi astratti (per esempio le due gonne o piuttosto grembiuli della moglie che deride Giobbe e di Donna anziana), a seconda che lo si veda, come dice Anna Ottani Cavina in Una panchina a Manhattan, come “un pittore realista o un formalista supremo”.
Tra tutte quelle presenti in mostra però, le opere che mi hanno suscitato le emozioni più intense sono stati un San Sebastiano curato da Irene, di cui ho già parlato qui, e una tela con una donna e una bambina che regge una candela: una scena semplice, spoglia, tutta concentrata sui due personaggi e i pochi oggetti, la candela, una cesta, un libro, i panni morbidi ma dalla linee semplici degli abiti, le due fasce che li ornano: una scena chiara e insieme di difficile interpretazione, al di là di quella letterale, ma di successo, a giudicare dalle numerose versioni in nessuna delle quali è rintracciabile l’originale (il che nulla toglie all’alta qualità di alcune, come quella del Louvre, e di gran parte di quella in mostra, proveniente dalla Frick Collection di New York, dove viene presentata, ovviamente, come del tutto autografa).
Una bambina sta in piedi con in mano una candela che scherma con l’altra, davanti a una donna seduta con un libro aperto in grembo. Nient’altro. Cosa stanno facendo? È un momento di vita domestica. La donna ha smesso da poco di leggere (per sé o anche per la bambina?), e ora, presumibilmente, sta pensando a quello che ha letto. Il suo sguardo non si fissa su nulla, va lontano, forse senza vedere niente. O viceversa è rivolto all’interno, a scrutare ciò che di confuso, di incomprensibile, si muove al fondo di sé. Immagina, o riflette: quello che ha letto la fa sognare oppure le ha suscitato apprensioni, sul presente o sul futuro, o le ricorda qualcosa di passato, non si sa. Non si capisce nemmeno di che tipo sia il libro, come gli altri che ritroviamo in molte altre opere dell’autore e che oltre a caratterizzare la scena e il loro possessore (molti sono aperti, ma raramente letti, a differenza dei volumoni che nello stesso periodo leggono alcune figure di Rembrandt o quella in mostra del suo amico e sodale della giovinezza Jan Lievens) servono anche a esibire la maestria del pittore, la sua abilità nel rappresentare, negli angoli, tra o sulle pagine appena aperte o, come qui, spalancate, le sfumature della luce morbida, dai toni caldi, le piccole ombreggiature dipinte sovrapponendo numerose velature alla maniera dei fiamminghi. La bambina è concentrata su ciò che sta facendo. “Stai lì buona”, le ha detto la donna, probabilmente la mamma. “Attenta a non far spegnere la candela e a non scottarti! E soprattutto non sporcare con la cera fusa il vestitino!” Sono entrambe ben vestite, senza lusso ma con buone stoffe; sono ben coperte, e quindi in casa caldo non fa: non sembra di essere in un paese mediterraneo, o forse è inverno: oltre alle due figure non ci viene detto niente dell’ambiente, a parte un cesto in vimini che proietta la sua ombra sul muro... Non si può dedurre molto altro. Con sicurezza, niente.
Poi però mi accosto al pannello illustrativo e leggo che la scena rappresenta l’Educazione della Vergine, anche se nulla nel quadro permette di decidere in questo senso, tanto più se si confronta la resa del soggetto con altre opere del 600 e 700 quando il tema acquistò una certa notorietà (Rubens, Jouvenet, Reni, Velásquez, Maratti, Tiepolo). Tuttavia è innegabile che qualcosa di incantato, o di sacrale, ne promani. Come per Caravaggio, “una delle caratteristiche più sorprendenti di La Tour – scrive Gail Feigenbaum nel catalogo – è la capacità di rimanere in equilibrio tra il sacro e il profano”. Se accettiamo questo titolo, cambia tutto, o quasi. Ci sono altri quadri che mostrano scene di interni, e intime, che potrebbero essere rappresentazioni realistiche ma la cui lettura religiosa è autorizzata da qualche indizio, come la cosiddetta Adorazione dei pastori, bellissima, e quindi anche per quest’opera la lettura non è del tutto arbitraria nonostante l’assenza di indizi espliciti.
Torniamo allora alla scena adattandola a questo titolo. Le due figure si stagliano in uno spazio quasi o nulla definito, affinché niente possa sviare l’attenzione, la concentrazione assoluta dello spettatore, simile a quella della bambina, e la sua meditazione, come quella della donna (forse sua madre, Sant’Anna, che però avrebbe dovuto essere molto più anziana): nessuno sfarzo, nessun artificio, se non quello supremo che nasconde se stesso. L’ambiente stesso è quasi sparito, a parte il basso bracciolo di una sedia (o è solo il bordo?), la cesta posata su un tavolo di cui si scorge il profilo sul margine sinistro dietro la bambina, e la sua ombra proiettata sul muro (l’unica ombra disegnata, a parte quelle del panneggio e del libro e quella dell’abito di Anna, se è lei, che si apre sul grembo che a Maria ha dato vita e che ora assolve a un compito insieme gravoso e glorioso, educare chi è più di te, la cui nascita è già un miracolo, la cui presenza dà un senso a tutto ciò che sei stata, anche alla pena, alla vergogna di non aver partorito se non in tardissima età, e già ti giustifica e redime.
Se la paragoniamo alle altre versioni della stessa scena, questa di La Tour si distingue, come per quasi tutte le sue altre opere di oggetto religioso, per l’assenza di qualsiasi tratto ultramondano o numinoso e di ornamenti sfarzosi, e soprattutto per l’essenzialità non inficiata da nessun aneddoto (come sarà in Vermeer), tanto che sembra colta in un tempo sospeso, quasi assoluto, un tempo fuori dal tempo.
Lo sguardo dello spettatore è focalizzato sulla due figure in primo piano, che occupano tutta le tela, e sulla loro relazione, con un procedimento tipico di Caravaggio, che l’ha reso noto e ne ha dato la versione più pregnante e di maggiore impatto, se non l’ha proprio inventato: la “drammatizzazione del primo piano”, come l’ha chiamata Irving Lavin nel suo Caravaggio e La Tour. In questa versione, la donna, che è la stessa dell’Adorazione dei pastori e di Sant’Anna con Gesù bambino di Toronto, con quel viso tondo e un accenno di doppio mento, si direbbe ipertiroideo, ha uno sguardo mite, sereno, un po’ ebete; mentre nella versione del Louvre (figura 3) gli occhi appena socchiusi che negano di vedere il suo sguardo sembrano proiettare sulla postura intera una grande tristezza, ma serena, composta, quasi che la donna fosse in preda a una lunga stanchezza che finalmente può manifestarsi ed essere così alleviata, o come se viceversa presagisse eventi futuri tragici, un destino grandioso e terribile da cui lei sarebbe però esclusa.
È il momento dopo la lettura, l’interruzione. Quello in cui a volte subentra come una dolce spossatezza, o il sollievo dell’abbandono.
Mi piacerebbe leggere la pagina aperta. Qualcuno ha decifrato le scritte? Non credo sia possibile. Si può solo immaginarle, sognarle, come faccio io ora che interrompo un attimo di scrivere, dando la forma dell’alfabeto delle mie fantasie ai segni tracciati sulla sua chiara superficie, che possono essere solo quelli del pennello e della materia, traducendo in parole ciò che è solo intraducibile pittura, e riempiendo di altre figure il riquadro nel basso della pagina, al cui interno forse un’immagine c’è, una miniatura, ma indecifrabile, affondata nel bianco. Non potendo leggerla, la scrivo.
La bambina è di profilo al pari di tanti altri bambini nelle opere del maestro lorenese, ha un viso tondo, le labbra piene e disegnate come con un rossetto, lunghi capelli lisci, percorsi solo da un riflesso della candela, un abitino viola, pure liscio, ravvivato da una fusciacca rossa. La mano che regge la candela, la sinistra, è del suo stesso colore, o pallore, come quello del viso, a parte la punta del pollice, scura, forse sporca, come due unghie di quella, traslucida, quasi alabastrina, che scherma la fiamma (come quelle di Gesù bambino in San Giuseppe falegname, che peraltro le somiglia molto). Il viso è immobile, inespressivo nel complesso, senza un tratto che lo caratterizzi al di là della linea di contorno che risalta netta, disegnata solo dal contrasto con lo sfondo scuro che è quello, appena velato, della preparazione della tela; niente intacca la pelle luminosa, l’incarnato liscio, uniforme, idealizzato, lontano da ogni preoccupazione realistica come molti altri dell’opera più tarda del pittore, e come molti abiti del resto, dai panneggi ridotti all’essenziale, spesso privi, per la scelta di materiali lisci e rigidi, come il cuoio, il ferro delle corazze, o panni di lana morbidi ma pesanti, che cadono verso terra senza assecondare le forme dei corpi quasi irrigidendoli in posture immobilizzate anche se in genere il panno è dipinto con una tattilità che vien voglia di carezzare.
La postura della bambina, della Vergine bambina, è ferma ma non rigida: composta, giudiziosa. L’unica tensione è quella dell’anulare della sinistra, mentre il resto del corpo sembra quasi rilassato, anche la mano che si curva morbidamente a schermare la candela e a proteggere la fiamma senza bruciarsi evitando che si spenga, come se quel compito la assorbisse tutta e la identificasse: ipotesi peraltro ragionevole se si considera che sarà lei a portare la luce della salvezza nel mondo, dando appunto alla luce il Salvatore.
È solo alla candela che sembra rivolgersi il suo sguardo, ma forse, mentre guarda la fiamma nella sua testolina si stanno agitando le parole che ha appena ascoltato. Chissà cosa ha capito, così piccola. Eppure qualcosa le deve essere arrivato, forse la semplice storia, o un pensiero ancora non formato, una certezza oscura, dai confini indefiniti, per darle quell’aria che ora, a ben guardare, sembra compunta, pensosa. La lettura non è ancora finita, se nessun movimento sembra annunciarsi. La luce illumina la cesta, che probabilmente allude a un’altra parte fondamentale dell’educazione che le viene impartita, il cucito, che non a caso sostituisce il libro in un’altra versione di questo tema, ora a Venezia, di proprietà dell’Ordine di Malta. Lei però è la candela che continua a fissare, da cui tutta la luce si irradia.
L’insistenza sulle candele nelle opere di La Tour e di alcuni suoi contemporanei non deve meravigliare in un’epoca in cui nelle case, specie quelle dei poveri, il buio regnava sovrano. Ci sarebbe semmai da riflettere sul fatto che fosse così scarsa nella pittura precedente, ma non poi tanto, se si tiene conto che la luce vi giocava un altro ruolo, formale e simbolico. Anche qui per il pittore è importante, più che per il richiamo realistico, per la luminosità incerta e variabile che diffonde, per le ombre che proietta, per i dettagli che permette di mettere in rilievo o di fare affiorare, e insieme per ciò che nasconde, e che a volte possiamo intuire o immaginare, ma per il resto è confinato nel buio, che pian piano ineluttabilmente si estenderà, perché mentre la candela illumina, la cera si consuma; più fa luce, più l’ombra avanza e il buio si avvicina. E però, penso poi, se l’ombra nasconde, custodisce anche, e protegge, come San Giuseppe, “ombra” di Dio Padre, il Figlio non suo.
Allora mi distolgo dalle figure e guardo il buio da cui emergono, le sfumature dell’ombra, in cui mi allontano anch’io e relego tutte le ipotesi che si affacciano alla mia fantasia e offuscano il mio sguardo, la teologia, i simboli, le storie dell’infanzia di Maria e tutto il loro superbo corteo, e tornato al quadro vedo solo una donna stanca, e una bambina intenta al suo compito elementare, attenta a fare bene quello che le è stato chiesto, solo quello, che non è poco, e però basta; che è niente, e però è tutto.
La Tour. L’Europa della luce, Palazzo Reale, Milano, apertura prorogata fino al 27 settembre 2020, a cura di Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon, che hanno curato anche il sontuoso catalogo, edito da Skira, con numerosi saggi e belle schede per ogni opera in mostra, a cui sono debitore di gran parte di ciò che ho scritto.
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