Kemeny svicola, coltiva l’arte della deviazione, il discorso laterale, quasi la reticenza per quanto concerne la poesia.
L’ingenuo intervistatore, conoscendo la squisitezza della persona e la varietà e l’ironia della sua conversazione, era invece portato a credere sin troppo facile il suo compito, anche perché non ignora che, nonostante le denegazioni di pragmatica, raramente un poeta si sottrae al sacrosanto piacere di parlare del proprio lavoro, all’accondiscendenza del chiarimento, o quanto meno al dispiegamento delle intenzioni. Tanto più che in questo caso l’intervistato è professore universitario, nonché traduttore e critico.
Invece niente: Kemeny comincia a dire che la poesia è per definizione senza padre, che qualsiasi gesto di soccorso è superfluo o arbitrario, che nemmeno l’autore vanta dei diritti su di essa, se non da un punto di vista sociologico, come etichetta di identificazione comunitaria, o nei casi peggiori, per sfizio narcisistico. Ma la cosa grave è che in linea di massima fa seguire a queste dichiarazioni di principio, in questo tono del resto abbastanza diffuse, i fatti.
Anche quando, a domande dirette e forse brutali, la gentilezza sembrerebbe indurirlo a qualche cedimento, subito ti accorgi che ha già imboccato un’altra strada, che ha certo a che fare con la sua poesia, ma non è una spiegazione né una giustificazione teorica più o meno esterna: qualcosa di parallelo piuttosto, ovvero, in certi casi, l’esplicitazione delle condizioni di scrittura. Perché soltanto di questo può in fondo parlare: di come si sentiva o cosa provava o pensava mentre scriveva, dato che uno è poeta soltanto quando scrive.
Quando uno dice infatti: sono un poeta, enuncia solo il fatto di esserlo stato in certi periodi e il suo desiderio di poterlo essere ancora.
I testi, loro, stanno da soli, rotondi e catafratti, in cerca di un soggetto, o di mille soggetti, o di mille frazioni o fantasmi, di soggetto ancora a venire: duri come sassi ma monchi, in attesa della follia della lettura.
“Una volta non era così però” – aggiunge –. “Quando ho cominciato a scrivere mi muovevo in modo un po’ selvaggio, scrivevo tutto quanto mi veniva in mente e non mi interessava il lettore. Scrivevo per me e per i mostri dietro l’orecchio, senza tagli, discriminazioni o scelte: in un certo senso i mostri davanti al naso li disprezzavo persino. Pensavo che la poesia fosse come una seduzione vivificante, qualcosa vicino alla natura nei suoi momenti di eccesso, e che fosse a sua volta un eccesso, ma del linguaggio, non della coscienza.
Poi ho incontrato André Breton, una persona straordinaria, che emanava un grandissimo fluido come una seduzione vivificante, il quale mi ha insegnato a scegliere, a staccarmi dalla follia. Il poemetto “quando” (Tool, Milano, 1970), dedicato appunto a Breton, ha segnato questo distacco e mi ha aiutato a uscire dal solipsismo. Cercavo in quel periodo la contraddizione tra il lirico e il banale, pensando, come del resto tuttora, che la banalità avesse una sua dignità letteraria. L’intensità, la forza, mi interessavano di meno: era una poesia in cui lasciavo molte tracce di me stesso.
In Il guanto del sicario (Out of London Press, New York- Norristown- Milano, 1976, con traduzione inglese a fronte fatta dall’autore stesso), come in parte suggerisce anche il titolo, tutte queste tracce ho cercato di farle sparire affinché potesse emergere un mondo autonomo.
Mentre prima rifiutavo la forma sostenendo che io non sono un ragioniere del verso, scrivendo questo libro mi si è rotta la testa in due, e da una parte c’era un’orchestra che mi suonava nelle orecchie all’impazzata, mentre nell’altra, quando cominciavano a venire le parole, venivano come incise, inscritte nel ritmo. Era una continua lotta, niente di programmato quanto al tipo di verso, solo che dopo mi accorgevo che si trattava di anapesti, giambi o dattili perfetti. Ne è uscita una poesia molto orale. Il tema più insistente era la pluralità di maschere: non c’era un soggetto lirico, o anche dell’enunciato; c’erano folle di soggetti che urlavano la loro rabbia o gioia o sberleffo. Un’iperbole di gente che parlava di cose dette, tutto assieme.
D’altronde perché dire per forza una sola cosa per volta? Era il contrasto derivante da questa contemporaneità che creava la tensione.
Anche in Qualità del tempo (Società di poesia, Milano, 1981) penso ci sia un mondo che ruota appunto attorno al problema del tempo, il tempo del corpo, del teatro, del cicaleccio, del luogo comune. Attraverso un ritmo implosivo, che esplode continuamente su se stesso, le parole, invece di spazzare la pagina, fanno un po’ i netturbini del cosmo, dei suoi residui. E come residui di esistenza e percezione funzionano queste poesie, pur senza la retorica della verosimiglianza. In essa gli opposti, che erano sempre stati sacralizzati o demonizzati, non vengono orientati verso l’inferno o il paradiso, ma dissolti nella carne senza l’apporto di alcuna mitologia, in quanto penso che il mito senza mito, quello che caratterizza il nostro tempo, sia certo il più grande di tutti. La parola, il corpo, la fenomenologia della vita quotidiana sono talmente grandi e terribili che è inutile andare a cercare, per nobilitarti, i cascami della metafisica.
In queste poesie, più che lasciare un fantasma di me, penso succedano delle cose, degli eventi… Ho evitato di mettere in esse un codice ermeneutico o un sistema comunicativo in cui ci siano delle curiosità; le regge solo una logica dell’intensità, una, credo felice, coerenza che non deve niente alla logica. Non c’è dialogo né domande né risposte, solo un linguaggio come coltello, la ricerca della forza. Non ho nessuna risposta da dare perché non pongo domande: si tratta di oggetti senza padre che mi piace che girino. Certo, vietarsi la comunicazione intesa come piccola concessione implica una certa crudeltà, ma io non voglio vantarmi o piangermi addosso, voglio solo lasciare frammenti di energia.
Puoi ritornare un attimo al “tempo” del titolo?
Il tempo è una qualità poco tangibile; non riusciamo a percepirlo, mentre invece percepiamo gli oggetti, gli eventi. Il tempo è quell’elemento astratto che fa sì che si scopra che “l’eternità è un concetto cupo” (che è il titolo di una delle otto sezioni del libro). Le poesie tentano di non frenare il tempo, mirano pure all’eternità, ma il loro atteggiamento non è tombale, quello cioè di chi si vuole procurare il biglietto d’ingresso dell’eternità: le poesie sono nel tempo, e quindi nella possibile menzogna dell’eternità, dato che, una volta venute, hanno questa piccola menzogna della resistenza al tempo. A ciò si aggiunge il tempo di lettura e di scrittura: sono eventi; le poesie sono venute e si sono fermate sulla pagina, sono azioni che continuano ad avvenire a totale negazione della possibilità dell’eterno, del trascendentale. E non solo perché hanno il loro limite oggettuale (il libro) o di comprensibilità (durata e senso di una lingua).
Nell’insieme di questa economia il lettore viene ad acquisire un ruolo fondamentale.
Naturalmente. Questo libro è una sfida al fantasma, alla proiezione di sé, alla follia della scrittura ed è un invito alla follia della lettura. E’ il lettore che deve proiettare ciò che io invece faccio di tutto per cancellare; qualcun altro che deve lasciare le sue impronte sul testo e farlo rinvenire attraverso una lettura necessariamente indefinita, dato che il testo non si riesce mai ad addomesticarlo. E’ pericoloso e folle, appunto: leggere poesie è come essere investiti; io mi auguro che i miei lettori non muoiano per questo… ma che si limitino a perdere le gambe, la testa… e tutte le altre parti del corpo.
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