Sembra una
prosa tranquilla, distaccata, governata sapientemente, con ironia, sovrana, nel
mentre viene ad essere svolgendosi come un nastro sotto gli occhi sorpresi, e
persino meravigliati, di colui che scrive e si guarda lasciandosi scrivere
quasi che la scrittura sia autonoma, indipendente da lui, come sempre in gran
parte è; e invece è percorsa, la prosa dico, da una sottile, invisibile quanto
intensa, inquietudine, da incertezze quasi mai palesate, da sussulti e scarti
in ogni direzione, ma tutti e sempre orizzontali, mai verticali. E’ un continuo
susseguirsi, un trapasso, un dimenticare l’appena scritto o un negarlo, non
esplicitamente, ma tramite la semplice successione, la banale contiguità e
alterità di ogni nuova frase, delle parole che una dopo l’altra vengono a
disporsi sul foglio, che si affacciano alla mente o mettono in moto, senza
poterla arrestare, la voce.
Sappiamo tutti che è così sempre, quando si scrive davvero, quando non ci si
limita, o ci si illude di limitarsi, a “comunicare” o a esporre il già pensato,
l’acquisito, il consolidato (ma anche lì, poi…), salvo alla fine cercare di
dare una specie di logica, di costruire – come per difesa contro l’informe,
contro il formicolio frenetico dell’incertezza, lo sgretolarsi inarrestabile di
ogni stabilità –, un’armatura di coerenza, di disegnare un filo, imbastire una
forma, con rattoppi e rammendi a posteriori, spostamenti, montaggi, tagli e
riempitivi, come se il vuoto potesse essere colmato da noi stessi, mentre chi
può farlo, semmai, è solo un altro, chi legge, e anche lui solo per un po’, con
tutte le incertezze del caso, nel timore di sfumare egli stesso, e di svanire.
Come se questa non fosse la cosa migliore che può capitare.
(Quella che cerca chi scrive, del resto. E che, mentre scrive e finché scrive, a volte trova.)
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