C’era questo ragazzino che pescava accanto al padre sul ponte del canale e stava rigettando in acqua un cavedano appena catturato. Anche il padre aveva una canna, ma era voltato dall’altra parte. I padri lo fanno spesso.
Ho visto solo la parte finale dell’operazione e non ho chiesto niente. I passanti lo fanno, a volte. Già sapevo. Il moderno pescatore fluviale* libera dall’amo la preda non appena tirata a riva e la restituisce al suo elemento curando di non allargare troppo la ferita nel togliere l’amo, che se poi si stacca un pezzo di labbro, pazienza.
Non credo che lo faccia perché si tratta di pesci pieni di lische o dal sapore sgradevole, o perché l’acqua è inquinata: è che gli piace la nobiltà della lotta e riconosce l’onore delle armi allo sconfitto che ha lottato senza risparmio. Ogni lotta comporta violenza, ma ama credere che la riduce al minimo indispensabile. Più un pescatore è bravo, più violenza economizza: è duro, non spietato. Anche l’avversario ha la possibilità di vincere: remota, ma c’è, pensa; se no che gusto ci sarebbe a vincere, una volta vinta la fame, il primo avversario? Ciò che lui cerca, più di tutto, è il cerimoniale della lotta. L’attesa, la preparazione, i tentativi a vuoto, la pazienza e poi il confronto. E’ un cultore dell’agonismo silenzioso. Un eroe muto. Anzi, due: c’è anche il pesce. Ma le sue riflessioni restano un mistero.
* Meglio: il moderno pescatore fluviale italiano. La precisazione è necessaria, perché i pescatori balcanici, numerosissimi, col cavolo che si privano della loro preda: bisogno, cultura o orgoglio che sia, se uno va a pesca è per prendere pesci all’amo e mangiarseli, in famiglia o con gli amici, mica per fare opere buone, di finta misericordia.
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