Al ritorno il traffico si era infittito, pedoni solitari o a gruppetti, ciclisti, mammine e paparini che spingono carrozzine con infanti disidratati in grado solo di urlare piano, cinofili al guinzaglio dei loro cani che trascinano le loro trippe mezzo soffocati, poracci, con la lingua enorme e spugnosa penzoloni, gente che sbuca da chissà dove, che cerca di smaltire pranzi di 4 ore in cui però si sono limitati a assaggiare le varie portate, una forchettata, un boccone, e neppure tutte, ma che, chissà come e perché, gli sono rimaste sullo stomaco, a dispetto del vino e della birra ghiacciata trangugiata per spingerle giù, per sturare l'imbocco dello stomaco intasato, e che ora è urgente smuovere con una passeggiata, sotto il sole a picco, che scioglie tutto, stimola ogni ghiandola tranne quelle preposte alla digestione... per indurre quei lazzaroni di succhi gastrici a darsi da fare e alleviare l'acidità, e, se non smaltire il nuovo accumulo di ciccia, già sovrabbondante, perderne per strada un pochino, qualche etto, tanto per cominciare, o almeno fare il chilo, smuovere il deposito fecale, liberare del posto, perché stasera si continua... cioè non si vorrebbe, ma mica vorremo fare gli sfiziosi o i musoni?: ci hanno invitato, abbiamo commesso l'errore di accettare e ora dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco... Procedo a zigo zago, sorpasso, evito famigliole mono e bigeneri (i.e. con cani o altri animali domestici: cornacchie, ippopotami, oranghi, lemuri, foche e leoni marini...), mi specchio in tutti questi miei simili, mi paragono e non trovo differenze significative, finché, all'imbocco della discesa, vedo, sospeso in alto tra un albero e un palo della luce in disuso, lo striscione dell'organizzazione, con l'indirizzo internet e il numero di cellulare in piccolo, ma leggibile, tanto che mi verrebbe voglia di chiamare immediatamente, sopra e sotto il logo, brutto sotto ogni aspetto, a cominciare dal nome, che sposa trionfalmente due delle parole (inglesi!) che più trovo irritanti: enjoy, che sarebbe anche bella se non fosse svuotata, come una lattina, dall'abuso in tutte le salse e circostanze, e tribe, che designa esattamente ciò di cui abbiamo meno bisogno (io, di sicuro). La loro congiunzione produce un mostro polimorfo: la tribù godereccia? Godi, tribù? ecc.
La sigla inglese mi fa sorgere il dubbio, o la speranza, che magari non sono italiani: eventualità che comunque non spiegherebbe l'errore degli striscioni legati tra tutti gli alberi che costeggiano la salitella che ho percorso all’andata e che ora mi perseguitano al ritorno: LA PASSIONE FA' LA DIFFERENZA (non spiegherebbe neanche la denominazione, se è per questo). Se uno fa uno striscione con 5 parole, di cui due sono articoli, che a considerarli parole si fa un po' fatica anche in questi tempi di democrazia teoricamente iperegualitaria, una piccola verifica non l'avrebbe schiantato dalla fatica. Il problema non è verificare, però: è pensarci. Pensare che ci sia qualcosa da. Pensare all'eventualità di una verifica per così poco. Che sarebbe come predisporre una verifica del nulla. Doppio genitivo, mi spiace doverlo specificare. Lo sconforto cresce se si considera che allo striscione non avrà lavorato un solo creativo (è gente che lavora in équipe, quella: in piccole tribù... branchi, greggi...); che altri avranno dato suggerimenti (o input, che è un termine più adeguato), discusso e approvato, e poi seguito la definizione grafica del progetto e le differenti fasi della sua realizzazione. Sarà stata una miriade: se si contano le denominazioni americane per ciascuna di queste attività e figure, deve essere stata una miriade, perché altrimenti non si inventerebbero tanti nomi e sigle e funzioni, e se non ci fossero le persone, nomi e sigle e funzioni le farebbero sbocciare, o sbucare, come naturale conseguenza... il nome segue la funzione, o la precede, o la accompagna, e la figura e l'azione, o il soggetto agente, non possono che seguire. Il soggetto, grammaticalmente, quando è espresso, di solito precede, ma di fatto segue, si sa... nomen omen. Insomma, con tutta 'sta collettività impegnata a cooperare per il raggiungimento del medesimo scopo (un esempio per tutti!: la vera, utopica comunità), è possibile che nessuno, nemmeno un cane, un reduce momentaneo dal paese dei sogni, si sia accorto dell'errore? Non so: è chiedere troppo? Un’équipe di ignoranti, o di superficiali, di distratti, di approssimativi, che razza di équipe è? Ma forse non è un'équipe, né (meglio) un gruppo di lavoro, o un insieme che provvisoriamente coopera: forse è solo un'accozzaglia di presuntuosi frettolosi; forse, giusto la denominazione, è solo una tribe, cieca e conformista: e anche questo fa la differenza.
(Sto scrivendo queste righe al fresco della biblioteca di Treviglio – e, coincidenza curiosa, le sto copiando dai fogli che ho appena recuperato in mezzo a un mucchio di ritagli, quasi un anno dopo nella stessa biblioteca, la terza o quarta volta in tutto che ci torno a "lavorare" –, e ora cambio posizione – idem ora, l'anno dopo, ma stavolta per il mal di schiena che forse, forse!, accentuato dalla tragica circostanza che oggi compio 61 anni, e quindi invecchio vertiginosamente: mentre invece è solo, ovvio!, la postura in cui scrivo – e mi porto dall'altra parte del tavolo, perché ogni volta che alzo gli occhi, da qui – allora, non ora – mi trovo davanti un quadro orrendo, che pian piano mi avvelena il piacere di scrivere su questo quaderno di ortografia polacco – o di grammatica (vedi foto), e se qualcuno dei 4 astanti forse guarderà sorpreso la manovra senza apparente giustificazione, io almeno avrò davanti, allora, una finestra aperta sui rami di un grande cedro dell'Himalaya (non del Libano, mi raccomando) e su ballatoi e i tetti della vecchia Treviglio ben ristrutturati, paraboliche a parte: il che fa una discreta differenza, che spero abbia un buon influsso sulla scrittura... per tacere della futura riscrittura: nel chiostro, davanti a un cedro analogo ma all'aperto stavolta, e con il mal di schiena... perché davanti alla finestra, se non altro, la sintassi prenderà aria e tirerà un ampio respiro. Ciò che faccio anche adesso, e in più mi stiro.)
Che nessuno, dico: nessuno!, nemmeno lo stampatore, a ritrovarsi lo strafalcione davanti abbia avuto anche solo un sospetto, un minimo senso di disagio, un'incrinatura subatomica dell'anima ortografica, o solo professionale, come di un rametto che scricchiola in lontananza, non dico sotto i piedi, più ci pensavo e più mi faceva arrabbiare, e ora, senza il rosolio di compensazione di un solo ricordo, la pappetta dolciastra, l'impiastro lenitivo o il diversivo di una sola associazione, rischiava di rovinarmi la passeggiata fino a quel momento quasi perfetta.
E non serviva a nulla contare i passi, o i respiri, o qualunque altra cosa, che di solito mi calma, perché sempre finivo per contare solo l'errore, ripetuto a ogni striscione, come un chiodo che mi conficcava a ogni passaggio alla mia croce. Qualche chiodo avanzava persino... Sì, lo so che una volta stampato uno, tutti gli striscioni sono uguali, e quindi uno solo andava considerato l'errore, però a me gli errori sembravano tanti quanti gli striscioni, e sempre più gravi con l'aumentare del loro numero. Uno passa, guarda, legge, resta sorpreso o no, riguarda e rilegge, e ogni volta l'errore gli si conficca negli arti, nel cranio: uno, due, tre, quattro... venti!
Allora ho alzato il volume nelle cuffie, ho chiuso gli occhi e mi sono gettato alla cieca e a corpo morto, di corsa, giù per il resto della discesa. Nel vuoto, immagino. O producendolo io stesso. Ovvero, poiché infine non sono caduto né ho travolto nessuno, con la gente che vedendomi arrivare si spostava allarmata come al passaggio di un pazzo, un errore della natura.
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