Invece di attraversare uno spazio, uno spazio mi attraversa. Attraverso uno spazio che mi attraversa. Non lo spazio: uno spazio. Questo.
Invece di sentirmi dentro uno spazio, uno spazio si fa sentire dentro di me. Non è la percezione di uno spazio, né il suo concetto. Non è a priori, né ciò che resta se tolgo tutte le immagini e le cose, né ciò che queste le contiene rendendole, per me, immagini. È uno spazio che le cose e le immagini formano e fanno apparire nella sua evidenza di spazio o che, viceversa (ma non è lo stesso: è un’altra occasione), l’assenza di immagini e di cose, invece di renderlo astratto, rende più materiale. Corposo. Voluminoso. Sporgente e tagliente.
Quando attraverso questo spazio che mi attraversa, questo spazio si fa spazio dentro di me tagliandomi. Mentre mi taglia, nel separarmi, mi unisce. Divento unito per effetto del suo recidermi. Prima non lo ero.
Prima ero un abbozzo confuso di occhio incorporeo, che aveva la tendenza a separarsi dal suo corpo, a dimenticarsi di esso proiettandosi fuori, raccogliendo ciò che vedeva e recidendolo dal resto e da sé nel vederlo. Ora questo spazio invisibile riporta l’occhio al suo corpo recidendolo da sé e riportando ciò che vede a ciò che è: non matrice ma effetto dell’invisibile. Di un invisibile che manda in frantumi il visibile riportandolo a se stesso e che si impone come corporeo attraverso la violenza incruenta con cui attraversa il mio stesso corpo riportandolo, reciso, a se stesso.
È l’invisibile che emoziona, riportandolo al corpo, il mio occhio, mostrandosi come la condizione sensibile del mostrarsi delle cose e delle immagini e dello stesso vedere, non come il suo, e il loro, aldilà o come la fantasia di nascondimento che verrebbe oltrepassato (attraversato, reciso e ricongiunto come fantasia).
Questo spazio, l’invisibile di questo spazio, è un concetto non nel suo separarsi, abbandonandolo, dal sensibile, ma solo in quanto è sensibile, non avendo nessun bisogno, e nessuna possibilità, di recidersi da esso, abbandonandolo a se stesso. È l’invisibile che invade la retina emozionandola, come una membrana tesa fino al limite del suo strappo, sulla quale allora il visibile diventa tale nell’unico linguaggio, l’immagine, che gli pertiene ma non gli appartiene.
Si tende, ma invece di diventare più leggero in ogni suo punto, si addensa e appesantisce, tanto che niente riesce più a tenerlo assieme. Proprio per la sua densità e pesantezza, allora, si piega, si torce, si spezza e va in frantumi, fino a dissolversi.
La sua dissoluzione tuttavia non è né una sparizione totale né un allontanarsi che lascia dietro sé tracce e resti come semplice memoria del suo esserci stato: è invece il suo continuare a esserci, totale, in questi resti, che talvolta aggettano isolati, talaltra si dispongono a mucchi o sparpagliati come un tappeto irto e segmentato. Un tappeto di preghiera intrasportabile, che invece di essere avvolto, avvolge; che invece di cancellarsi per servire, si impone per farsi servire, ma così che, nel servirlo, uno serve se stesso; invece di farsi dimenticare per altro, si presenta come altro impedendo di dimenticarlo, così che uno, in questo altro, si ricorda di sé, stupito della dimenticanza.
Fara, sabato 13-11-99 dalle 16,20 alle 16,40.
Scritto per un mostra di Federico De Leonardis alla Galleria Belvedere di Milano
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