La portiera del treno si chiude con uno scatto mentre salgo di corsa gli ultimi gradini del sottopassaggio. Il capostazione allarga le braccia rispondendo al mio sguardo mentre il treno si avvia. Il prossimo, già in attesa su un altro binario, parte tra mezz’ora. Lo raggiungo, ma prima di entrare mi siedo su una panchina a fumare una sigaretta. Prendo il libro dalla tasca e lo apro senza leggerlo. All’unico finestrino occupato del vagone, proprio davanti a me, c’è un signore dalla barba bianca che legge un libro tenendolo di traverso, impedendomi così di identificarlo. Comincio a leggere anch’io nel momento in cui lui alza la testa nella mia direzione e cerca di identificare il mio, che allora poso sulla coscia accavallata per impedirglielo.
Finita la sigaretta cerco un altro vagone, a sua volta deserto. Leggo e ogni tanto, alla fine di un paragrafo, mi fermo a respirare e getto un’occhiata ai passeggeri arrivati nel frattempo o alla campagna fuori dal finestrino. Il sedile arancione di fronte a me è libero. Nello spazio che separa il poggiatesta dallo schienale scorgo una striscia di corpo maschile elegantemente vestito: distinguo parti di una giubba di tela blu impermeabilizzata con zip d’acciaio che copre una giacca di frescolana pure blu, lembi di una camicia azzurra e di una cravatta blu a minuscoli pois bianchi e un fermacravatta d’argento o, più probabilmente, d’oro bianco. Mentre completo l’inventario spuntano un ginocchio ricoperto dallo stesso tessuto della giacca e due mani. Tre dita della destra tengono un tagliaunghie che comincia a lavorare sulle unghie della sinistra. Solo che le unghie non ci sono: vedo solo delle lamine più larghe che alte che spuntano dalla pelle dell’ultima falange e subito si arrestano. Oltre comincia una pelle rugosa e, si direbbe, dura, dello stesso colore biancastro delle dita, che peraltro condividono anche le lamine, a parte una leggerissima sfumatura perlata che forse non è che un riflesso della loro lucentezza, peraltro scarsa, sfuggente, a sua volta forse più immaginata, vale a dire desiderata, che reale. Trovata perché cercata. Cercata perché presupposta. Presupposta perché desiderata. Il tagliaunghie lavora su quest’ombra sottile, riduce con puntiglio i bordi di qualcosa che non c’è, cancella i margini del perimetro che dovrebbe contenerla livellando lo scalino dell’incavo fino a creare una continuità che mi appare mostruosa. Poi le mani scompaiono e con esse lo strumento che tuttavia continua il suo lavoro di delicata demolizione su di me. Stacco gli occhi dalla fessura, ma con la coda continuo a tenerla sotto controllo. Non riesco a muovere altro, di me. Anche se la mia posizione col tempo diventa scomoda, non mi sposto: ciò che intendo evitare, soprattutto, è di vedere la sua faccia. Ne ho come paura. Infine riesco a chinare il capo e fisso il pavimento di linoleum. Spero che scenda prima di me. Il treno rallenta; si ferma; riparte. Lui resta al suo posto. E se scendesse alla mia stazione e si alzasse passandomi davanti? Resisterei a non alzare lo sguardo o vincerebbe il fascino? Mi alzo in anticipo e, alla cieca, mi dirigo verso l’uscita alle mie spalle. Resto lì un po’ a leggere con la faccia verso la parete. Nel caso scenda alla mia fermata prego che vada all’altra uscita, più vicina. Che mi lasci in pace. Penso a cosa sarei capace di fare se mi toccasse o mi guardasse. Quando il treno si arresta scendo in fretta e mi dirigo verso una panchina, davanti alla quale mi fermo, furioso, come a leggere le scritte che la ricoprono. La gente mi scorre ai lati. Mi sposterò di qui solo quando la stazione si sarà svuotata.
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