La prima cosa che ho pensato davanti a questo quadro magnifico e conturbante, è stata: “a me non è mai capitata un’avventura del genere”. La seconda è stata chiedermi perché il giovanotto sembra così renitente. La terza perché porta quel cappello. Ma poi, vedendo come il giovane cerca di sfuggire, preso più da spavento che da semplice timore, ho anche pensato che chi l’aveva dipinto, dopo aver covato un desiderio simile al mio, si è messo invece nei panni del ragazzo, che prova in ogni modo a divincolarsi dall’abbraccio e dal desiderio di quei giovani corpi meravigliosi, e che è questa sua attrazione e paura che il pittore ha dipinto e che fa la bellezza dell’opera.
Il quadro, di cospicue misure (230 x 261 cm) che favoriscono un forte impatto di presenza, si intitola Ila e le ninfe e il suo autore è Francesco Furini (1603-1646), che l’ha dipinto agli inizi degli anni ‘30. Molto apprezzato alla sua epoca, la sua fama ha in seguito subito una certa eclisse, ben esemplificata dal giudizio di Argan, che a p. 357 del terzo volume della sua Storia dell’arte italiana (Sansoni, 1968) lo liquida così: “Francesco Furini cerca una troppo facile armonia nello sfumato in cui immerge le sue leziose figure nude”, assieme agli altri pittori toscani del ‘600 “che, fidando nella perennità d’un primato perduto, si astengono dall’affrontare i problemi del loro tempo e si chiudono in un isolamento che diventerà ben presto provincialismo”. Ma negli ultimi tempi, specie dopo la grande mostra del 2007 a Palazzo Pitti, delle cui collezioni il nostro quadro fa parte e dove si possono vedere anche due notevoli affreschi, Furini è stato molto rivalutato, tanto da essere ormai ritenuto uno dei massimi del suo tempo, per quanto la sua notorietà non sia mai approdata al grande pubblico.
Il soggetto del quadro viene dalla mitologia e dalla letteratura greca, in particolare dalle Argonautiche di Apollonio Rodio e dall’idillio XIII di Teocrito, ma curiosamente le uniche testimonianze plastiche, abbastanza numerose però, sono di epoca romana; poi è stato quasi dimenticato, a parte la breve parentesi seicentesca che ha il suo capolavoro nell’opera di Furini. La sua rinascita arriva nell’ottocento, soprattutto nei paesi anglosassoni, quasi sempre come scusa per la rappresentazione di un tripudio di corpi nudi, peraltro di blando erotismo per quanto molto pruriginoso per gli standard del tempo, ma mai in modo così ambiguo e inquietante.
Le versioni migliori, sono quelle di John William Waterhouse, autore predestinato dal suo stesso nome a trattare questo soggetto, che infatti ne dipinse più d’una. In quella più famosa, le ninfe guardano il giovane estatiche, incantate più che prese dal desiderio, in un clima sospeso, mentre quella più vicina più che afferrarlo, lo invita, come con una carezza, che anche un'altra sta abbozzando.
Il dipinto ha un suo lato di misteriosa e delicata poesia, ma in genere le altre opere ottocentesche, che pure intendono rappresentare il travolgimento dei sensi, la sola passione che lasciano trasparire è quella pallida e voyeuristica dello spettatore (prevalentemente maschio) del XIX secolo, in particolare anglosassone. Che è tutto dire, se mi si concede la licenza.
La storia narrata è semplice e con poche varianti da un autore all’altro. Figlio di Tiodamante e della ninfa Menodice (come dire che le ninfe sono all’inizio e alla fine del suo percorso, inscritte nel suo destino), Ila viene rapito ancora giovinetto da Ercole, invaghitosi di lui, e condotto come scudiero (come eromenos: trascuro il possibile risvolto omosessuale del tema e del quadro, peraltro abbastanza riconoscibile e non osteggiato, sembra, nella corte medicea del tempo) quando decide di partecipare alla spedizione degli Argonauti. Durante una sosta in Misia però, mentre Ercole va a cercare un tronco adatto a sostituire un remo rotto, Ila viene mandato alla ricerca di acqua dolce con una brocca. Trovata una fonte, o uno stagno, in un luogo appartato, mentre si china per attingere l’acqua con la sua brocca, viene notato dalle naiadi che lo abitano, che se ne innamorano e seduta stante fanno a gara per accaparrarselo.
Le ninfe, come è noto, oscillano tra gli estremi di una pudicizia rigorosa, specie quando sono al seguito di qualche dea che ha fatto della verginità, e in genere dell’inviolabilità persino allo sguardo, il proprio vessillo, e quello di una natura molto incline all’accoppiamento. Di solito la loro lascivia non va troppo per il sottile e si accontenta di esseri non proprio attraenti ma dotati di costante disponibilità, e attributi e vigore non indifferenti, come i satiri per esempio, gente peraltro gioiosa e festaiola, ma la loro propensione diventa attrazione irresistibile quando incontrano qualche esemplare umano di spiccata bellezza: pastori, contadini, marinai, guerrieri in un momento di riposo, viaggiatori smarriti e così via, come appunto Ila. I quali però, se ne sono attratti e tendono a cedere volentieri alle loro lusinghe senza frapporre indugio, dappoiché l’impulso erotico non favorisce la riflessione, e anzi meno è presente e più ne trae giovamento, le temono anche, essendo il loro abbraccio spesso mortale, anche se alcuni si dice accedano a qualche forma di immortalità, cosa peraltro leggendaria, improbabile, dal momento che non sono immortali nemmeno quelle che dovrebbero concederla. Di coloro che hanno goduto delle loro attenzioni pochi sono tornati infatti, e forse nessuno. Le versioni in merito divergono, più che altro per contenere le paure che le forze naturali scatenano sempre, per offrire consolazione. La seduzione, l’impero dei sensi, l’abbandono alla passione che esse inducono, sono sempre pericolosi. Sempre mortali, in fondo. Del resto cosa non lo è?
Quando Ila si china sull’acqua per attingerla con il suo vaso, viene visto dalle naiadi di quello stagno che se ne innamorano. È sempre dall’acqua che viene l’innamoramento, ma stavolta, all’opposto di Narciso per la propria immagine che vede riflessa sulla superficie scambiandola per quella di qualcuno che vi è immerso e ricambia il suo sguardo, a esserne preda sono le abitanti delle sue profondità.
Le naiadi, dunque, vedono Ida, emergono dalle acque per impadronirsene e lo trascinano nelle acque profonde. Dopo di che di lui non si saprà più niente, per la disperazione di Ercole, che lo cercherà invano disinteressandosi dei compagni che partiranno senza di lui.
Il quadro di Furini rappresenta il momento in cui il povero ragazzo viene avvinghiato da due di queste bellissime creature che se lo contendono e lo stanno trascinando in acqua, mentre altre indugiano a guardare in attesa forse di subentrare e un paio se ne stanno più in disparte malinconiche per la forzata rinuncia.
Il giovane cerca di divincolarsi, e mentre con gli occhi guarda la ninfa che si allunga per afferrarlo alle spalle, con la mano destra tenta di liberarsi dal braccio di quella che l’ha già avvinghiato, e con la sinistra, in un dettaglio splendido che quasi non si nota, ne allontana la testa che forse vorrebbe baciarlo. Lo fa quasi con delicatezza, come se non volesse farle del male, come se qualcosa in lui volesse cedere per quanto un timore nascosto, l’inesperienza e il sospetto di una minaccia sconosciuta e quindi terribile lo spinga a resistere e scappare.
L’ambientazione notturna, il cielo scuro e nuvoloso, la quasi totale assenza di scenografia vegetale, se non per qualche cespuglio o pianta acquatica, favorisce la concentrazione sulla scena che ne esalta tutta la sensualità e insieme crudeltà, un’onda di carne in molle danza rapinosa, con il suo lato sacrificale, non esibito, ma incombente, da cui il protagonista, la vittima, che ne ha il presentimento, vorrebbe essere esentato.
Sull’attrazione prevale il turbamento, lo sgomento quasi, sia di chi ha dipinto, si direbbe, sia di chi ora osserva il dipinto. Il quale all’inizio è attratto dalla voluttuosità del soggetto, da un naturale impulso voyeuristico, di sana lussuria, ma presto, come Ila, avverte un fondo di timore, inquietante, che viene a turbare le acque di un erotismo mai tranquillo, di sensi mai in pace. Quasi che attorno al giovane fossero convocate l’insieme delle forze che usano la voce suadente del piacere in favore della morte, che ammanta l’attrazione per la morte, disdicevole, inconfessabile, con la lusinga dei sensi. Sinuosa, nascosta, lontana, ma che tutto avvolge e trascina in sé con dolcezza irresistibile. Non solo la tentazione del credente (come era Furini, che a trent’anni, e non solo per motivi di sussistenza, si fa prete), la tentazione come morte, ma anche la tentazione della morte, la seduzione dell’inorganico che prende vita nelle ninfe, della divinità della materia, dell’aria, dei monti, dell’acqua; ma anche qualcos’altro per il giovane Ila, che però è in fondo lo stesso, anche se lui si ritrae: l’uscita dalla giovinezza, l’ingresso nel tempo irreversibile, della perdita dell’innocenza, della maturità, della vecchiaia, che è poi ancora quello della morte, della sua consapevolezza e accettazione, volente o nolente, la caduta fuori dell’illusione dell’immobilità, dell’eterna sospensione fuori dal tempo della perfezione che egli incarna, perché ancora incorrotto, intatto.
Per quanto intatto egli non sia, se non nella sua illusione, in quanto eromenos di Ercole, che comunque lo proietta, finché la relazione dura, finché è sotto la tutela (qui alquanto possessiva e passionale, più che formativa o educativa) del semidio, in un’età sottratta al mutamento e al tempo. Ma qui Ila si è allontanato da Ercole, sia pure per andare a cercare dell’acqua per lui. In un certo senso questo potrebbe significare che la sua formazione è terminata. Forse nessuno, né lui né Ercole, ne è ancora consapevole, ma il destino sì. E la danza è lui che la conduce. Ila entra nella selva alla ricerca dell’acqua, della vita, e la trova. Ma insieme trova anche altro. Lo stesso, a ben guardare nelle sue trasparenze. L’acqua, la morte.
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