Spesso, leggendo di Robert Walser, si ha l’impressione che se ne parli quasi esclusivamente come di uno strano personaggio, che accidentalmente ha scritto migliaia di pagine, molte delle quali nella seconda parte della sua vita, con una calligrafia sempre più piccola fino a diventare illeggibile, per poi smettere del tutto, dopo essere stato rinchiuso con il suo consenso per oltre vent’anni in un manicomio dove passava le giornate a sbucciare piselli o intrecciare canestri e altre simili attività manuali, pur conservando una lucidità implacabile, quando si degnava di parlare.
La sua figura è affascinante e misteriosa. Come non essere attratti dalla sua storia? Come non identificarsi, impietosirsi o meravigliarsi di questo o quell’altro suo aspetto? Sarebbe meglio evitarlo, però. Fare come se di lui non si sappia davvero niente, come se davvero gli sia riuscito di rendersi invisibile e scomparire, come ambiva. La sua opera suprema, forse, a suo parere. Del resto, come scrisse lui stesso, “Nessuno ha il diritto di comportarsi con me come se mi conoscesse” (La rosa, Adelphi, 1992). Bene, lo asseconderemo, non foss’altro che per buona educazione.
Restano solo le opere scritte allora, dalle quali è comunque difficile scrostare tutte le letture che ne sono state fatte sovrapponendovi la griglia degli enigmi della sua figura. Tanto più che le mille cose di cui esse parlano sono in buona parte ispirate dalle esperienze del loro autore. I personaggi sono in genere dei suoi alter ego, ma alter ego sfuggenti e dispettosi, che molto spesso non “ubbidisc[ono]” al narratore (come afferma quello del capolavoro postumo Il brigante, Adelphi, 2008). Si tratta comunque di materiali grezzi, di poco conto, di una banalità il più delle volte sconcertante, a ben guardare, se non fosse per i romanzi, racconti, poesie e saggi in cui hanno subito le più sorprendenti metamorfosi. Walser infatti parte quasi sempre da uno spunto autobiografico, uno qualsiasi, ma non appena si mette a scriverne, la scrittura lo porta altrove, a passeggio, sulle proprie strade e stradine, tracciando sentieri nell’erba o nella neve, scie nell’acqua, che prima non c’erano e presto si richiudono man mano che la penna procede – finché il narratore viene a trovarsi, un po’ smarrito e stordito ma colmo di meraviglia, al pari dei suoi personaggi, in mezzo a un paesaggio insieme familiare e sconosciuto, nel punto in cui l’essersi perso lo consegna a casa, al luogo che riconosce come proprio, sia pure per un attimo. Perché subito i passi riprendono, la penna prosegue, arriva un altro spezzone di ricordo, o un abbaglio che gli ricorda un ricordo che lui ricorda solo di aver dimenticato, forse una fantasia, un desiderio trattenuto nell’orizzonte del suo sorgere a cui non aveva dato seguito, ma che ora, appena fatto capolino, reclama di essere ripreso, tanto che lui non può esimersi dal seguirlo, ripartendo da quella interruzione e rinuncia, finché ancora… e così via.
Anche L’assistente, da poco riproposto da Adelphi nella nuova traduzione di Cesare De Marchi, a sessant’anni da quella storica di Ervino Pocar per Einaudi, parte da dati autobiografici, che troviamo anche in un’altra recente riedizione del primo libro approdato in Italia del grande e allora sconosciuto scrittore svizzero, Una cena elegante, appena licenziata da Quodlibet nella sua recente collana “Storie”. Ma mentre questa è una raccolta di racconti, brevi prose e “saggi” tratti da due libri del 1913 e ‘14, in cui gli alter ego si rifrangono in decine di figurine memorabili, L’assistente (1908) si presenta come un romanzo all’apparenza piuttosto tradizionale. Scritto a Berlino nella brevissima, prodigiosa stagione in cui tra i ventinove e i trentun anni Walser ci ha dato tre grandi libri (gli altri sono I fratelli Tanner, 1907, e Jakob von Gunten, 1909, entrambi editi da Adelphi) che da soli sarebbero bastati a collocarlo nel ristretto novero dei grandi del XX secolo, come peraltro è stato presto riconosciuto da Hesse, Benjamin, Kafka, tanto per fare qualche nome, il libro narra la storia di Joseph Marti, un giovane di ventitré anni, nei sei mesi in cui diventa assistente dell’ingegner Tobler, un inventore, che lo accoglie nella sua casa e famiglia. Con questo libro Walser prova a fare un romanzo “tradizionale”, con una vicenda strutturata e personaggi con caratteri ben costruiti, lui che era accusato di non saper raccontare, ma solo divagare, seguire gli estri lirici o riflessivi che gli venivano da qualche minimo aspetto della realtà o dell’esperienza, o della fantasia. Anche qui l’andamento è quello solito dei Fratelli Tanner e delle brevi prose precedenti (che, dopo Jakob von Gunten, e a eccezione di Il brigante, diventeranno poi l’unica forma, con le poesie, da lui adottata), ma a ben guardare una storia la racconta, quella della rovina della famiglia Tobler, del disastro a cui va incontro un sognatore che vuole avere successo nella realtà senza prendersi la briga di obbedire alle sue leggi, o addirittura di provare a conoscerle, lui pure, come il suo assistente, catturato da un’emozione, che lui chiama idea, anche interessante in linea di massima, che però segue senza preoccuparsi di quanto costerà realizzarla, aspettandosi profitti improbabili, diversamente dall’assistente, e da tutti i protagonisti di Walser, che invece del profitto non si curano, se non per quel poco che serve alla sopravvivenza e per un periodo limitato, pensato sempre come a termine ancor prima di iniziarlo.
Ancor più che affascinato, il personaggio di Walser è calamitato da tutto ciò che esiste in presenza (al presente). Non appena una cosa, un paesaggio, una parola, viene ad essere davanti a lui, già lo possiede, lo consegna allo stupore, all’accettazione senza riserve; tutto gli va bene; e solo in un secondo tempo matura una reazione, per lo più sbagliata, o poco o tanto sfasata, che lo fa riflettere negativamente su di sé, e talvolta anche sugli altri, ma mai fino al punto di rifiutarli, persino quando gli rinfaccia i loro difetti e limiti, che presto però dimentica o riassorbe nella complessiva, generale accettazione. Nessuna rabbia, nessun rancore, nessun rimpianto. Come fa con la Signora Tobler e con Wirsch, il suo predecessore nell’impiego, che anzi solleciterà la sua generosità e simpatia a dispetto di tutte le sue debolezze.
Contano tutti così poco! Vivono così precariamente! Perché sottrarre loro quel minimo di accoglienza e di benevolenza che concedere non costa niente e anzi colma di gioia? Per questo, quando parla, può anche essere diretto e rude, e persino offensivo, a volte. Ma senza cattiveria. Quasi senza emozione. Così stanno, in quel momento, le cose, e dunque perché non dirle? C’è dietro, o attorno, qualcos’altro? No. È tutto lì. E quindi, finché lì è, va detto. Avvenga quel che avvenga. Poi arriva altro e si sposta l’attenzione e la parola su quello. Via uno, l’altro, senza soluzione di continuità, orizzontalmente. Come una pura superficie. Che però continua a scintillare, a mandare bagliori e a catturare anche il lettore. “C’è forse una voce nelle profondità del lago”, scrive Magris, come in ogni cosa e paesaggio del resto, “ma non si può udire né esprimere”. Resta la brillanza della pelle del mondo. E tanto basta. Goduta, sparisce. Annichilita.
Per questo i personaggi di Walser ricordano le cose ma non ne fanno esperienza (non ne traggono profitto). Joseph non impara nulla (come Simon in I fratelli Tanner, come Jakob in Jakob von Gunten). Non matura. Resta sempre quello. Accumula senza fare spessore. Consuma senza metter su ciccia né muscoli. Anzi, verrebbe da dire che consumando un evento, un incontro, uno sguardo via l’altro, è sé che consuma: tanto che prima ha periodicamente bisogno di fermarsi, di agire facendosi comandare e guidare (di agire da agito), e poi rinuncia anche quello: agisce non come pausa tra un obiettivo o uno spostamento e l’altro o in vista di una ripresa (ripartire, fuggire, scrivere) ma per se stesso, per qualsiasi cosa, meglio se umile, insignificante, che necessiti un po’ di concentrazione, ma non troppa. Abbastanza da tener lontano tutto il resto, senza confessarlo nemmeno a se stesso. Tanto più che “prestare attenzione ha un che di assai vivificante. La disattenzione spossa” (Il brigante, p. 21)
Non solo niente di quello che Joseph fa gli porta profitto, ma nemmeno gli importa davvero. E infatti non riceve mai lo stipendio, né lo rivendica veramente, al massimo qualche moneta la domenica che subito spende, sperpera o regala. Non accumula, non progetta, non risparmia in vista d’altro. Gode di ciò che gli viene offerto (cibo, sigari, caffè, persino un abito) nel presente, come fa con un luogo, un bagno, una passeggiata, che hanno in se stessi la propria ragion sufficiente. La sua è una sfera extra- o addirittura anti-economica. Come quella del suo signore e padrone (più che datore di lavoro), l’ingegner Tobler che, – sia pure, lui, con l’obiettivo di guadagnare; e tanto –, non fa che spendere e accumulare i debiti che lo porteranno al fallimento, per la realizzazione dei prototipi delle sue strampalate invenzioni e ancor più in spese smodate e superflue che inaspriranno le rivalse dei suoi creditori (grotta nel parco; decorazioni, feste, cibi e abiti di qualità, visite all’hotel del Veliero, viaggi di lavoro non si sa dove né con chi, su treni a cui arriva sempre in ritardo). Tutto si regge sull’economia, nell’industre Svizzera appena fuori dalla villa, ma non lì. E non loro. Tutto viene tenuto fuori, si costruiscono argini in cui però non tardano ad aprirsi crepe da ogni parte. Delle quali la principale è l’oblio, la dimenticanza volontaria, il fare ‘come se’, continuando nel brillante tran tran di sempre, sperando che l’esterno, il mondo, gli altri si adeguino, ipnotizzati da una messinscena di naturalezza che tende a dimenticare di essere tale. Nemmeno la signora Tobler, che pure avverte sempre più l’imminenza della rovina, fa nulla per sottarsi a questa deriva e finirà per esservi trascinata a sua volta, consenziente.
Si cerca soprattutto di tener fuori il tempo, principale elemento dell’economia (Joseph, come Simon Tanner, nel loro atteggiamento antiborghese di fondo, amano solo sperperarlo, considerandolo precipuamente come tempo della natura, della meteorologia e delle stagioni, fonte inesausta di gioia e di incanto), eccetto alcune scadenze liturgiche religiose e civili, cioè il non tempo delle ricorrenze, della ripetizione della routine, fingendo che l’angoscia dello scorrere sia così bloccata, azzittita per un po’, se non proprio sconfitta. Quando torna si sprofonda, ma poi ci si aggrappa alla prima occasione esteriore per allontanarla di nuovo, come se non esistesse. Anche la prosa di Walser è costruita su questa strategia, ed è questo che conferisce il particolare tono alla malia che ne promana, di grazia smaltata su una cancellazione; una successione di guarigioni momentanee che devono in continuazione rinnovarsi, spesso riuscendoci, per non dover risprofondare nella malattia, per quanta fatica questo sforzo costi (Benjamin lo aveva capito subito). Fatica che però molti personaggi di Walser, come Joseph, tentano di evitare, scaricandone il peso sul “padrone”, a cui spetta prendere le decisioni e dirigere la vita, anche quando il servo svicola o lazzaroneggia (tanto le decisioni sono prese, le cose avviate e seguiranno il proprio corso anche da sole). Per questo Joseph gli è persino grato. Meno pensa meglio è, felice quando può dedicarsi a attività servili e fisiche, per le quali sospetta di essere nato. Ma talvolta prende anche appunti o scrive riflessioni su foglietti (come farà più tardi Walser nella sua vita) che si affretterà a distruggere subito. A volte tuttavia una diversa consapevolezza lo assale. “Anche qui egli era un bottone ciondolante che non ci si dà la briga di riattaccare, ben sapendo che la giacca non la si porterà più per molto. Sì, la sua esistenza non era che una giacca provvisoria, un vestito che non calza bene.” Ma sono attimi. Il resto sfavilla.
La tela è preparata con un fondo nerissimo, ma lo scrittore la ricopre interamente di colori smaglianti, a più velature, che però crescendo, anziché cancellare il sostrato, lo rendono sensibile. L’eccesso di deviazioni, a guardare da fuori, si configura come una fuga, un rifiuto. Ma finché si scrive, e si legge, si è dentro, e resta solo lo scintillio, la vertigine dell’orizzontale. Per questo non si deve tornare indietro, ricollegare, connettere, stratificare, correggere. Avanti!, finché non sopraggiunge la stanchezza (e un po’ di nausea).
Il presente regna sovrano (o così sembra, finché poi il tempo presenta il suo conto). Assorbiti da esso, il passato non esiste, non fa nemmeno in tempo ad essere dimenticato, perché ciò che si presenta (ai sensi, all’immaginazione, alla lingua, alla penna) richiama tutta l’attenzione, immediatamente, senza che si possa pensare a cosa precede né a cosa seguirà, al luogo da cui si proviene né verso dove ci si dirige. Quando la catastrofe arriva (o l’illuminazione), la meraviglia e lo sgomento hanno sempre lo stigma di una irrelata necessità: non c’è sorpresa, perché questa presuppone una diversa attesa. C’è la parusia, il prodigio. O l’abisso, la paralisi.
Non c’è neanche più un soggetto (che vede, sente o parla) ma un’istanza che si conviene chiamare “io” o “Joseph” o “Jakob” che viene ad essere nel preciso momento in cui vede, sente o parla, ad opera di ciò che si presenta alla vista, ai sensi e alla parola, il cui statuto diventa allora indecidibile.
Questo fa sì che anche il lettore sia sedotto, aspirato, incantato mentre legge, e disorientato, non appena alza gli occhi e tira il fiato, e chiude la bocca rimasta troppo a lungo spalancata. Tutto appare “normale”, o comunque accettato senza batter ciglio; anche i comportamenti più bizzarri o irrazionali al massimo suscitano un attimo di sconcerto, e subito entrano nell’alveo del quotidiano. Ma come è veramente, si chiede allora? È davvero solo così, o c’è qualcosa d’altro, sotto o sopra? Un altro senso? dell’ironia? allusioni, allegorie, secondi e terzi livelli di lettura?
Allora si muove un passo indietro, ci si stacca, si guarda da fuori. Ma nel fare questo, si assiste, e quindi si torna in qualche modo a identificarsi con Joseph. Assistente nel romanzo vale come aiutante, subordinato, servitore, impiegato; ma è anche colui che si prende cura, che dà una mano; e infine colui che assiste, che guarda, che è fuori, distaccato anche quando è dentro, coinvolto. “La dipendenza assicura l’estraneità”, del resto, come osserva ancora Magris, e favorisce l’osservazione. Questo almeno per “assistente” in italiano. Ma senza dubbio vale per Walser e i suoi personaggi, e per il protagonista del romanzo con questo titolo in particolare.
I “suoi personaggi si trovano sempre sulla soglia dell’età adulta, ma non la superano”, dice V. Ottoboni (“Verso l’insignificante”, in Robert Walser, ed. Joker, 2016). È vero, al più giocano a fare i grandi, ma vorrebbero quasi saltare la maturità a piè pari per trasbordare dall’infanzia, scansando regole e responsabilità, con pochissimi vincoli (almeno nel desiderio), tutti provvisori e presto abbandonabili, alla vecchiaia che da quei vincoli si è liberata, recuperando uno sguardo vergine sul mondo: non originario, ma di una verginità riconquistata, quella che disfa formule schemi e sapere perché li ha conosciuti e può liberarsene a ragion veduta, direi quasi con una leggerezza di secondo grado, una leggerezza al quadrato. Anche in Una cena elegante è possibile trovarne esempi.
Quando osservano il mondo, protagonisti e narratore, e ne tessono incantati le lodi, si ha talvolta il sospetto che ci stiano prendendo in giro, e che prendano in giro anche se stessi, perché le vispe Terese che essi allora sono, covano le più nere depressioni e impotenze, a cui reagiscono a volte con una breve deviazione che tuttavia basta a portarli lontano, con lo stesso effetto di una fuga, a cui però si concedono in modo discreto. Evitare di affrontare le situazioni, le pressioni esistenziali e psicologiche, i problemi relazionali e economici, infatti, non è una fuga: è il modo più efficace che essi hanno a disposizione per affrontarli, in assenza di altri. Anche per fuggire occorre coraggio. Di fronte a questo spropositato idillio, si sta in precario equilibrio sul filo (sulla lama) che divide incanto e disincanto, tra il sorrisetto malizioso di chi la sa lunga, da un lato, con il sospetto magari di essere a sua volta lo sciocco della situazione, e, all’opposto, il desiderio di lasciarsi cadere dall’altra parte, nel versante fiorito, luminoso, morbido, dove il mondo ci vuole bene e la natura non è mai stata una matrigna.
Ci si adagia,
come Joseph su un prato davanti al lago, in questa prosa tranquilla,
distaccata, governata sapientemente, con ironia, sovrana, nel mentre viene ad
essere svolgendosi come un nastro sotto gli occhi sorpresi, e persino
meravigliati, di colui che scrive e si guarda lasciandosi scrivere, quasi che
la scrittura sia autonoma, indipendente da lui, come sempre in gran parte è; e
invece è percorsa, la prosa dico, da una sottile, invisibile quanto intensa,
inquietudine, da incertezze quasi mai palesate, da sussulti e scarti in ogni
direzione, ma tutti e sempre orizzontali, mai verticali. È un continuo susseguirsi, un trapasso, un dimenticare
l’appena scritto o un negarlo, non esplicitamente, ma tramite la semplice
successione, la banale contiguità e alterità di ogni nuova frase, delle parole
che una dopo l’altra vengono a disporsi sul foglio, che si affacciano alla
mente o mettono in moto, senza poterla arrestare, la voce.
Sappiamo tutti che è così sempre, quando si scrive davvero, quando non ci si
limita, o ci si illude di limitarsi, a “comunicare” o a esporre il già pensato,
l’acquisito, il consolidato (ma anche lì, poi…), salvo alla fine cercare di
dare una specie di logica, di costruire – come argine contro l’informe, contro
il formicolio frenetico dell’incertezza, lo sgretolarsi inarrestabile di ogni
stabilità –, un’armatura di coerenza, di disegnare un filo, imbastire una
forma, con rattoppi e rammendi a posteriori, spostamenti, montaggi, tagli e
riempitivi, come se il vuoto potesse essere colmato da noi stessi, mentre chi
può farlo, semmai, è solo un altro, chi legge, e anche lui solo per un po’, con
tutte le incertezze del caso, nel timore di sfumare egli stesso, e di dissolversi.
Come se questa non fosse la cosa migliore che può capitare.
Mi piace leggere L’assistente come una specie di precedente (o di prequel) del Castello di Kafka, che pure preferiva Jakob von Gunten. Mentre l’agrimensore arriva al villaggio ai piedi del castello, il romanzo di Walser inizia con il suo protagonista, Joseph Marti, che è appena stato assunto tramite l’agenzia di collocamento, davanti al cancello di una villa (anche I fratelli Tanner iniziava con Simon che va a cercare lavoro). Piove. E in anticipo, ma suona lo stesso e gli viene aperto, all’opposto di quanto accade all’agrimensore K. Tutta la vicenda, della durata di qualche mese, si svolgerà all’interno della casa e del piccolo parco che la circonda, a parte alcune uscite domenicali, fino a che Joseph dovrà lasciarla. Sarà quindi la vita nel castello a esser raccontata. Un castello che ha poco o nulla di metafisico, materialissimo nella sua quotidianità, e nonostante questo un piccolo pur se traballante paradiso. Almeno per Joseph, che, pur non ricevendo mai uno stipendio, gode dei vantaggi della partecipazione alla vita della famiglia che lo ospita, in balia degli umori di un padrone e signore burbero e benevolo, a volte iroso come il Dio dell’Antico Testamento ma anche pasticcione, sognatore con ambizioni concrete, creatore inconcludente quanto puntigliosi sono i progetti delle sue creazioni (invenzioni), che sembra concentratissimo su di esse, ma poi si distrae, si allontana non si sa a far cosa, per affari dice, e resta giornate e notti intere al bar, impegnato a giocare a carte (a dadi sarebbe troppo), e a discutere con avventori che non lo prendono sul serio; un signore che quando serve non c’è, mentre gli affari che dice di curare vanno a rotoli e i creditori si fanno sempre più esigenti e feroci, nonostante lui li disprezzi e cerchi di rintuzzarli con motivazioni risibili e arroganti.
Se si guarda dal punto di vista del cosiddetto solido buonsenso borghese (proprio ciò che Walser sbeffeggia e rifiuta sia pure senza accenti plateali), c’è sempre un’ombra di idiozia nei suoi personaggi; e a volte anche più di un’ombra. Prima o poi tutti, a partire dai protagonisti, fanno qualcosa di cui qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso percepirebbe immediatamente l’insulsaggine e la dannosità. Ma è appunto qui che sta la peculiarità di Walser: il buon senso, la ragionevolezza non solo non hanno corso nelle sue storie, e se a volte vengono rigettati come un che di mostruoso, non lo sono mai in modo vistoso, ma semplicemente non li si prende in considerazione, come non pertinenti, quando non proprio controproducenti, e vengono lasciati (in modo un po’ beffardo) ai loro detentori, come un tesoro inutile, di cui non si sa che farsene.
Ai personaggi di Walser in fondo tutte le cose e le attività e relazioni appaiono insensate. Ciò che tuttavia non impedisce loro di acquisire senso. Se tutto è insensato, infatti, tutto è suscettibile di senso infinito; se tutto è separato, solo, spezzato, ogni più piccola cosa diventa, fosse pure per poco, assoluta. Che sta a sé e vale per sé, totale, completa, che non rimanda a niente e non ha bisogno di connettersi a nient’altro. Niente è più, e niente è meno. Per comodità, e finché è comodo, si accettano le regole e le gerarchie (quelle borghesi, con tutte le loro piccole virtù, della piccola patria svizzera, della comunità in cui ci si ritrova a nascere o a vivere), e al contempo le si guarda con ironia, le si irride, senza che questo conduca a nessun cambiamento e ribaltamento. Ci si sta bene dentro, si lascia agli altri l’onore e l’onere delle scelte, le responsabilità e i loro vantaggi. A loro basta il poco che hanno, finché non si stancano o qualcosa li spinge via. Non importa. È tutto lo stesso: importa (se importa) finché lo si fa, e poi torna al suo nulla, come giusto.
Le risibili invenzioni, le fantasie e gli entusiasmi di Tobler, non lo sono più di ogni altra cosa a cui consuetudini, necessità e regole economiche e sociali hanno appiccicato un valore.
La famiglia, la casa, gli affetti, possono essere oggetto di desiderio o di rimpianto, ma non abbastanza da doverli cercare ad ogni costo o da non poterli abbandonare senza troppo sforzo né rimpianto. Si mette nella valigia il poco che si possiede, e si parte. Da qualche parte si andrà. In qualche posto, per un po’, ci si fermerà. Qualcosa si troverà. Qualcosa si farà.
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