La storia di Invernale, l’ultimo libro di Dario Voltolini (La nave di Teseo, 2024), comincia in un mercato, con la sua folla che si muove e si spintona tra i banchi, come è visto da qualcuno che vi passeggia, o sta riprendendo con una telecamera. Lo sguardo indugia sulla fantasmagoria di merci e persone, segue contrattazioni, acquisti e scambi di battute, finché non si arresta davanti al bancone di una macelleria, di cui vengono descritti nel dettaglio la varietà di carni e le modalità della loro “fabbricazione”, mediante i gesti veloci e precisissimi di uno dei macellai. Al quale, tuttavia, a un certo punto la mano scivola per una presa difettosa mentre sta per disossare un castrato, così che il coltello la colpisce tra l’indice e il pollice fino quasi a staccarlo. Tra la carne ferita e quella dell’animale non c’è più distinzione, il sangue si mescola e tra i due per un attimo si consuma una specie di alleanza sacrale, come la macellazione tradizionalmente è sempre stata. Poi intervengono i soccorsi. L’autore e vittima di questo ferimento è il padre del narratore.
La storia comincia dunque con un incidente sul lavoro, che è anche, si sarebbe detto una volta quando il bel simbolismo psicanalitico aveva ancora corso, un’autocastrazione simbolica, da parte di qualcuno che, per vivere, sulle sue vittime sacrificali compie ogni giorno, “il gesto che in casa non si può fare, quello del decapitatore”. Castrazione simmetrica a quella inversa, di stampo olimpico si direbbe, operata sul padre ad opera del figlio-narratore, che non a caso decide di cominciare con questo episodio, ma che compare, bimbo innocente, solo alla fine del capitoletto che narra questa scena che è insieme di apertura e originaria, mentre a casa dei nonni, sempre non a caso, con operazione a sua volta simmetrica a quella del narrare e uguale a quella che noi abbiamo appena inaugurato aprendo il libro, sta leggendo sul “Reader’s digest” un testo intitolato, con dolorosa ironia, Una giornata che non dimenticherò mai.
Il libro racconta cosa accade dopo questa scena primaria fino all’epilogo estremo, seguendo le conseguenze insospettabili della ferita e disegnando in modo discreto quanto memorabile la figura del padre attraverso gli occhi del figlio che cresce fino alle soglie dell’età adulta.
Ma non c’è, in esso, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nessuna volontà, o necessità, di riparazione simbolica, non c’è nessuna ricucitura da operare, come quella a cui viene sottoposto il pollice ferito e che lo salva. C’è piuttosto la volontà di celebrarlo, di tramandarne la memoria prima che svanisca a sua volta, prima che non ci sia più nessuno a ricordare, tanti anni sono passati dalla sua scomparsa. Non c’è riparazione perché non ce n’è bisogno, perché il rapporto tra padre e figlio è sempre stato affettuoso e mai conflittuale. Eppure forse sì, anche, perché di una riparazione c’è sempre necessità con un padre, e soprattutto con un padre perso in età ancora relativamente giovane: forse ricordare e narrarne la malattia e la morte solo dopo più di quarant’anni anni, vuol dire aver trovato il modo di fare pace se non con la persona morta, con la sua memoria, e con i rimorsi che la morte sempre comporta, con i sensi di colpa che insorgono sempre anche se nessuna vera colpa c’è stata, se non quella, capitale, di essere sopravvissuti. E poi di aver continuato a vivere per anni, per decenni, con i ricordi che si sfilacciano, sfumano e si prendono le loro pause, ma che sempre si riavvolgono e si attorcigliano altrove, chissà dove, fino a quando non viene il momento di sdipanarli, che coincide con la maturazione del modo per farlo: non solo delle cose da riportare alla mente e da rivivere, cioè, ma della voce, del sentire, doppio o forse triplo: quello di allora, quello del presente, di “ciò che sta prima della scrittura, quella specie di stupore che cerca una soluzione e poi la trova” appunto scrivendo, e di tutta la congerie ammassata nel tempo intercorso, che magari si decide di tacere, ma che continua a depositarsi, che conta e pesa lungo tutta l’esistenza. Una riparazione simbolica nei confronti del proprio passato, quindi, una ricucitura delle proprie ferite sempre pulsanti, da qualche parte, in fondo.
Il dito del padre invece viene ricucito, ma la sua vita proprio allora comincia a spezzarsi, senza che nessuno al momento, e per un lungo lasso di tempo, se ne accorga. L’invisibile la contagia. Un batterio la contamina, inavvertito, quando il sangue della ferita si mischia con quello dell’animale, in una comunione che si rivelerà mortale. Ma prima il percorso della malattia si manifesta solo come “un velo di stanchezza” a cui, da uomo di grande esuberanza qual è, il padre non dà peso, “un senso di spossatezza che sa gestire” ma che si rafforza con gli anni, accompagnato da cambiamenti nel comportamento, di piccola entità ma significativi, a cui nessuno fa molto caso. Intanto le cose cominciano a “perdere senso, assottigliarsi, sfigurarsi”, anche se a lungo “le persone ancora no”; il mondo rivela nuove facce; il tempo prende altri ritmi. L’attesa, “che è sempre lì sotto le piastrelle ma che poi emerge tutta insieme in un certo punto”, diventa la condizione dominante.
I fastidi aumentano, sintomi che inducono a visite mediche che sfociano solo in diagnosi vaghe, incerte, come timorose di definirsi, e quindi nella necessità di esami sempre più accurati, con la relativa trafila di specialisti che approda alla chiarezza definitiva, che chiude ogni spazio alla speranza. Anche se qualcosa si può sempre ancora tentare e sperare, perché la scienza sta facendo grandi progressi… Ed ecco allora i viaggi in Francia presso la clinica più all’avanguardia del tempo, le cure sperimentali che sembrano vincere alcune battaglie, ma non fanno altro che prolungare la guerra: metafora che Voltolini declina in molte sfumature, sempre illuminanti.
Durante le assenze per le cure, il figlio ormai cresciuto, che sta per terminare gli studi liceali e poi si iscrive all’università, per un po’ sostituisce il padre al banco del mercato, come garzone dell’aiutante che di fatto ne prende le veci. Sostituzione simbolica mentre il padre è ancora vivo. È lui che glielo chiede, del resto, e il figlio si insedia, ubbidiente, al suo posto. Legittimamente, quindi, senza la colpa di averlo rimosso, o peggio eliminato; ma la colpa si insinua comunque in lui, pronta a manifestarsi a scoppio ritardato come il batterio nel sangue. Come la bomba che egli avverte in sé, ma che resta inesplosa, perché il padre stesso sembra neutralizzarla con le sue ultime parole, ma senza riuscire a disinnescarla, perché disinnescarla è impossibile, in quanto, come non dipende dal figlio, farlo non è nemmeno in potere del padre. Che peraltro è ben lungi dal sospettarne l’esistenza, sebbene proprio lui ne sia la causa, dal momento che gli ha dato la vita. È un conflitto, o una tensione, o una frattura, insanabile, che inerisce alla vita stessa, a dispetto di ogni possibile amore; una ferita a sua volta invisibile, per quanto il dolore, la perdita, il rimpianto, non cessino di segnalarla, e di impedire che venga ricucita.
L’unico modo per provare a farlo è raccontare, mettendosi direttamente in gioco nel racconto come personaggio e narratore. I libri che raccontano malattia e morte di un genitore negli ultimi anni non si contano. Libri che, se sono differenti perché ogni morte e ogni dolore sono singolari e irreparabili, a volte non lo sono come narrazioni. Questo di Voltolini si distingue non solo per lo sguardo originalissimo che i suoi lettori immediatamente riconoscono, ma per la sua consolidata tenuta stilistica e formale, che in questo libro raggiunge uno dei suoi vertici, al pari del precedente, bellissimo, Il Giardino degli Aranci (La nave di Teseo, 2022; vedi la recensione di Annalisa Ambrosio). Uno stile che intreccia una grande tenerezza con una capacità di straniamento che accosta sempre con lucidità ogni situazione, e però anche con emozione, che traspare discretamente solo in alcuni momenti, ma che di fatto è diffusa ovunque, con gradazioni spesso impercettibili, eppure decisive nel far vibrare il linguaggio, nel dare forma al suo stile. La narrazione è ellittica, senza transizioni esplicite, divisa in brevi scene dove ogni azione e riflessione sono saldamente ancorate a una densità essenziale; la voce è spesso commossa senza essere mai sentimentale o marcatamente tragica, con una sua levità anche nei punti più tesi, dove la vicenda affronta i nodi più dolorosi, dove non c’è spazio per illusioni e la vita rivela le sue trame, senza che per questo venga deprezzata o ripudiata. C’è sempre un’attenzione ai suoi meccanismi biologici e materiali, a come il tempo si dilata o si condensa, accelera o rallenta, a come tutto, fino all’infinitamente piccolo, segue il suo corso, terribile anche, ma mai esente da stupore, da un incanto e persino da una dolcezza che assume infinite forme, persino nel momento estremo.
Senza nemmeno un’ombra di tentazione trascendente, il discorso si dispiega in una andatura liturgica, e quasi sacra, come avviene, dopo la guarigione dalla ferita, per “l’atto della macellazione [che] ha ora in sé qualcosa che non si può vedere ma c’è: un incremento della sacralità e del rispetto che c’erano sempre stati”: descrizione che può essere applicata anche al modo di accostarsi alla memoria da parte dello scrittore, ai gesti del ricordare e alla misura della scrittura.
Che è priva di asperità, almeno in superficie, ma tramata da iterazioni linguistiche o espressive legate a un ristretto repertorio di temi e di campi semantici (il calcio, il corpo, il lavoro), spesso intervallate o variate a scandire ritmi non molto marcati, quasi in sordina, che cadenzano la lettura senza imporsi con una presenza ingombrante, con percorsi, echi, riprese sotterranee, non avvertite, o percepite appena e presto dimenticate, che rimangono nella memoria della lettura, più che del lettore, dettandone la scansione e le pulsazioni, il suo respiro complessivo.
Dettagli, minuzie, frasi, come alcune del padre, “buttate lì per dire, come constatazioni dotate di un significato di mero servizio. [E che] invece si installano in posti che hanno una solidità e una permanenza, nella vita di chi le ha ascoltate”, e, qui, lette.
Ci sono parole e parole: molte si dimenticano subito (anche se non è mai detto…); mentre altre, come quelle della sentenza pronunciata dal dottore nell’ultima visita (”Non c’è più niente da fare”), “ci passano dentro. Continuano a scendere e scenderanno per sempre”. Le parole della letteratura, anche se non comparabili a un contesto così drammatico, sono, o dovrebbero essere, come queste. Quelle di Invernale lo sono.
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