23/02/25

Abbandonarsi (abbozzo 11-6-24)



(Premessa: era stanco e teso ecc., lo è sempre più spesso, e allora gli è presa una voglia irresistibile di lasciar perdere, di rinunciare – a cosa poi? – e lasciarsi andare, abbandonarsi. Poi ha pensato:  )

 

Abbandonarsi non è poi così difficile. È come arrendersi: una tentazione sempre a portata di mano. Anche solo pensarci, a volte. È un piccolo sollievo. Una soddisfazione. Placida, molle, in genere, solo a volte drammatica, quasi mai davvero disperata. Sentirsi sicuro, compreso a priori, non giudicato, accolto senza dover fare niente per meritarlo. Poggiare la testa su una spalla, nel grembo materno. In un grembo qualunque. E stare lì per tutto il tempo che si vuole, senza dover chiedere né ringraziare. Senza pretendere, conquistare, combattere. Solo perché così è naturale, spontaneo, e cioè, almeno in questo caso, buono e giusto.
Lo chiamano così, ma, per quando gradevole, necessario a volte, non è un vero abbandono. Il vero abbandono è invece quello che sopraggiunge dopo avere opposto ogni possibile resistenza, come se ad attenderci, raggiunto, ci fosse una tortura. È quando si capiscono tutta la falsità (e la facilità: è lo stesso) che si incarna in ogni cosa o atto a cui si decide di resistere, e che la resistenza stessa rivela e denuncia come inammissibile. Quando finalmente si rinuncia a se stessi, e quindi a ogni compiaciuta, in fondo miserabile, soddisfazione. (Non fossimo uomini.  Miserabili, appunto).
È quello che capiscono i condannati e da ultimo lo stesso ufficiale addetto alla macchina in “Nella colonia penale”, man mano che l’esecuzione procede, che non a caso consiste nella scrittura. Sul suo processo. Che rivela mentre uccide. Che sevizia, dilania e dà pace. Che fa affiorare il ricordo anche di qualcosa che nemmeno si sa di aver commesso, o solo fatto (è lo stesso), e dimenticato, e dona la sua cancellazione, l’oblio.

Quando non è più espressione, volontà di dire e fare qualcosa. Quando non sei tu a volere, ma ti annulli, scompari, in ciò che è detto e fatto.

 

Sembra qualcosa di eroico: una lotta, una serie di dolorose vittorie verso la pace finale, l’apoteosi. Un risultato che probabilmente nemmeno si saprà di aver raggiunto. Una coppa da cui si berrà.
Ma che senso ha questa negazione? Questo oltrepassamento forse senza fine? Perché ricercarlo, quando tutto congiura, e alletta, affinché ce ne si distolga (lo si abbandoni)? Cosa si cerca? Cosa si spera di ottenere? Ma ricercare, e cercare di ottenere, non è già precludersi di raggiungere? Non è già interrompere il processo, affannarsi per vincerlo e di fatto soccombervi? Negarlo e abbandonarlo senza abbandono?
Se poi uno non ha nessuna fede in qualcosa di superiore, fosse solo (solo!) la verità, che senso ha? È forse l’ultima possibilità per chi non ha appunto nessuna fede? Per chi sa che c’è “infinita speranza, solo non per noi”?
È una forma di suicidio in vita? Un’esperienza della morte per chi non solo non rinuncia a vivere ma pensa (finge di credere) che essa in questo modo raggiunga il colmo? Che solo attraverso la sua negazione trovi la propria completezza (il proprio compimento)? Che solo lasciandosi alle spalle (e con quanta fatica!) ogni volontà e ricerca di senso, che è sempre e comunque parziale perché è nella parzialità e differenza che il senso si dà, si possa attingere un qualsiasi senso totale e definitivo?
Una specie di trascendenza immanente? Di immortalità al centro, al colmo, della mortalità?
Tutte cose che fanno paura. Tanto più che si sospetta sempre (si sa), che sono solo parole, pie illusioni. E quindi un’altra resistenza da opporre, un altro abbandono a cui non inchinarsi, un’altra scusa per distogliersi, per rinunciare e accontentarsi dei piccoli piaceri, e anche dei mediocri godimenti, della soddisfazione del dolce abbandono.
Ma non è cercare la grande soddisfazione, il grande abbandono, il miraggio del grande senso a muoverci, a indurre a non cedere, a far sentire ogni rallentamento e deviazione come la massima debolezza, una colpa, il peggior tradimento (verso chi?): è che non se ne può fare a meno. Che c’è una specie di dovere, di obbligo (verso chi? verso se stessi? il vero sé?, ma per favore!), una forza irresistibile che non sopraggiunge su (in) chi la prova, non lo investe da sopra, e nemmeno da dentro, ma è chi la prova; che ad essa, allora, non può sottrarsi, a meno di morire. Di essere davvero morto.

[…]


Sei bellissimo



Sono uscito dalla scuola per fumare. Seduto sulla panchina di fronte all’ingresso, al fresco sotto il vecchio ippocastano, mi metto a leggere. Dalla porta esce, senza che io me ne accorga, una (anziana) collega che, quando è ormai quasi fuori dal mio campo visivo, vicino al cancello, si ferma e mi dice: “Vorrei farti una foto”.

“Perché?”, chiedo.

“Sei bellissimo”, mi risponde.

“Capita, quando non si fa niente per esserlo”, replico, una volta tanto non per fare una battuta, ma come forma di pudore.

“Quando uno lo è dentro, o è felice di ciò che sta facendo, non si può fare a meno di notarlo. Sei proprio bellissimo”, conclude lei. E se ne va, con la sua faccia scavata, tutta tirata, ma buona.

Spengo la sigaretta, alzo gli occhi verso la chioma dell’ippocastano, che l’anno scorso a giugno era già tutta leopardata, bruciata da una malattia che ora sembra superata, tiro un lungo respiro e prendo la biro dal taschino. Mentre scrivo mi viene in mente che suo marito sta lottando da mesi contro un tumore e che mio suocero, a cui voglio bene, ne è stato colpito un mese fa, o poco più, e un altro mese gli resta, o anche meno. Il tenue compiacimento di cui avevo beneficiato, innocente perché non richiesto, bello perché gratuito, se ne è così andato. Resta un’altrettanto tenue tristezza, che, invece di trasformarsi in angoscia, si scioglie pian piano, restando come un retrogusto in ciò che riprendo a fare. Così sia.

 


17/02/25

Fuori tempo massimo


E’ fatto male e non gli sta bene, dice.
Forse non è colpa sua, ma certo non lo è nemmeno degli altri. E infatti lui non li incolpa. Non si accetta, tutto qui.
E perché mai dovrebbe farlo? Forse che accettandosi sarebbe fatto meglio? No, darebbe solo il suo assenso a qualcosa che è fatto male, e questo sarebbe un male ulteriore.
Forse che gli altri sono fatti meglio, gli chiedo?
E’ poco probabile, risponde, e comunque non sono fatti suoi e non cambia la sua situazione.
Solo gli stupidi se la prendono con gli altri, e lui non lo è fino a questo punto. Se lo fosse, forse le cose non si dice che andrebbero meglio, ma certo lui si accorgerebbe di meno che vanno male. E invece no, non ha nemmeno questa magra consolazione. Un vero peccato.
Ragion per cui non gli resta che prendersela solo con se stesso. Cosa che però contribuisce a renderlo ancora peggiore di quanto già non sia.
Che fare dunque? In apparenza ha due possibilità: o negare del tutto se stesso, decisione di cui è incapace per una debolezza che è parte del suo essere fatto male; o negare gli altri, azione ben più fattibile, la cui stessa facilità non è però che l’altra faccia dell’incapacità precedente, quindi l’ennesima conferma del suo essere fatto male.
Per negare gli altri basta poco: sapere che sono fatti male anche loro è più che sufficiente. Verificare che lo sono è ancora più facile: nessuna evidenza supera quella della loro imbecillità. Anche senza scomodare le loro presunte idee o il complesso delle loro azioni, una parola orecchiata, un semplice gesto, l’espressione che assumono quando credono che nessuno li noti, il poco che vogliono e il meno che li colma bastano e avanzano. L’idiozia ingravida l’aria più di qualsiasi batterio; non appena una bocca si socchiude, a cavallo del più flebile respiro ne fuoriesce una ventata capace di saturare gli spazi interstellari. Ammesso che già non lo siano.
Se fosse fatto meglio, questo dovrebbe indurlo al sorriso, come sto facendo io, dice fissandomi negli occhi, o lasciarlo indifferente (meglio): invece è fatto talmente male che prova insieme pena e insofferenza, entrambe in misura limitata però.
Non è possibile, si dice allora: alla lunga anche il troppo poco finisce per diventare troppo, e quando è troppo è troppo. Finalmente si incazza. (Passa subito, comunque.)
Davanti a me c’è solo la merdosa morte, conclude fuori tempo massimo.


12/02/25

E io, quando mi assolvo?


Quando riconsidero il mio comportamento in pubblico, spesso basta un dettaglio: un gesto, un’omissione, o più spesso una parola, una frase, una battuta (e magari proprio quelle che hanno riscosso successo, o sono sembrate particolarmente intelligenti, a chi non mi prestava, come di solito accade, che un’attenzione superficiale; mentre io che mi osservo meglio vi trovo mille lacune, o possibili contraddizioni e quindi ne vedo la fatale approssimazione), per farmi sprofondare nella vergogna, per emettere su me stesso un giudizio negativo inappellabile, una condanna che ribadisce e rafforza le miriadi che l’hanno preceduta. E’ una vergogna con cui ho dovuto imparare a convivere, per quanto ciò non la attutisca.

Invece quando vedo e sento la gente discutere, se così si può dire, in televisione (o anche in situazioni “reali”), o esibire una naturalezza che finge di ignorare gli altri e di fatto è tutta per loro, alla vergogna non resisto e cambio canale, o, se chi è con me insiste a guardare, mi alzo e me ne vado, vergognandomi anche per lui o lei o loro o tutti i presenti e assenti che di queste trasmissioni si interessano o sono appassionati.

Mi vergogno della loro stupidità e meschinità, che però è anche, in loro, la forma che prende quella fragilità e debolezza che non so accettare in me. Allora la pena che provavo lascia il posto alla compassione. E così li perdono nello stesso tempo in cui li giudico, mentre, di nuovo, non so perdonare me per il fatto di giudicarli, per quanto a volte sia opportuno farlo.

Opportuno, forse necessario, ma non per questo necessariamente giusto. E se non è necessariamente giusto, è giusto il giudizio su di me, la condanna.

Amen.

 

(primi anni 2000)

04/02/25

Tappeti, artisti e dei non sempre benevoli


                                                Rubens, Pallade e Aracne

 

È abbastanza nota la storia, o leggenda, che i più abili tessitori persiani lasciavano apposta un’imperfezione nei loro tappeti perché la perfezione è solo di Dio.
La storia viene tramandata come esempio di umiltà e di fede dei pii artigiani, o artisti se si preferisce. A me sembra un esempio lampante, invece, di superbia e di tracotanza: come se, senza quell’imperfezione volontariamente lasciata, o meglio: creata a bella posta, il resto dell’opera sarebbe stato esente da difetti, cioè perfetto. E anzi l’opera intera lo sarebbe al quadrato, perché anche l’imperfezione sarebbe un gesto creativo (dove e come lasciarla, infatti? in quale forma e sotto che mentite spoglie celata o mimetizzata?), e segnalerebbe implicitamente la perfezione dell’autore, oltre a quella dell’opera. Se non addirittura al cubo, se si include l’acume formale e percettivo e di gusto dello spettatore o acquirente, che saprebbe infine riconoscerla e apprezzarla, sentendosi a sua volta intelligente, oltre che pio.
L’unico a essere ingannato da questo maneggio sarebbe allora Dio, accecato dalla lusinga nel proprio narcisismo. Ma non credo che ci sia mai cascato. Essendo compassionevole, però, ha di sicuro perdonato questa maldestra mistificazione, sorridendone in cuor suo.

 

Che il narcisismo accechi gli esseri umani, invece, è un dato di fatto.
Perché altrimenti alcuni di loro si piccano di sfidare gli dei sul loro stesso campo (Aracne Pallade nella tessitura; Marsia, che però era un satiro, un essere ibrido, molto più vicino alla natura dell’uomo, Apollo nella musica ecc.)? Gli dei sono dei, superiori per definizione. Le arti e tecniche in cui sono sfidati le hanno inventate loro. Possibile che a un certo punto gli uomini abbiano pensato di averle portate oltre il limite che era dettato dalla loro origine divina, di averle superate e migliorate? È l’hybris, certo, la tracotanza che a un certo punto prende gli esseri umani, e mai gli animali: è un derivato della coscienza, della consapevolezza del proprio fare e agire, la stupidità insita nella loro intelligenza, nel suo stesso principio. Per questo i mistici, e in genere gli uomini di fede, dubitano dell’intelligenza, la mela avvelenata che Dio ha rifilato agli uomini, la somma tentazione, come se li avesse creati e gli avesse concesso tante doti solo per umiliarli, per poterli punire. Oppure, dicono loro, per mostrargli la strada per trascendere se stessi, perché solo avendo l’intelligenza si può, mediante essa, capire che bisogna andare oltre, e abbandonarla, alla fine, come uno strumento che ha fatto il suo lavoro; come un ferro vecchio.
(Altri pensano che non è così. Che solo con l’intelligenza si può andare oltre, spingendo i suoi limiti sempre più in là, magari con l’aiuto degli strumenti da essa stessa creati per potenziarsi, che hanno sempre dato prova della loro bontà. Con qualche piccolo inconveniente, si sa. Ma anche quelli, sempre con l’intelligenza, prima o poi si riuscirà a superarli, sostengono. Altrimenti pazienza.)