12/02/25

E io, quando mi assolvo?


Quando riconsidero il mio comportamento in pubblico, spesso basta un dettaglio: un gesto, un’omissione, o più spesso una parola, una frase, una battuta (e magari proprio quelle che hanno riscosso successo, o sono sembrate particolarmente intelligenti, a chi non mi prestava, come di solito accade, che un’attenzione superficiale; mentre io che mi osservo meglio vi trovo mille lacune, o possibili contraddizioni e quindi ne vedo la fatale approssimazione), per farmi sprofondare nella vergogna, per emettere su me stesso un giudizio negativo inappellabile, una condanna che ribadisce e rafforza le miriadi che l’hanno preceduta. E’ una vergogna con cui ho dovuto imparare a convivere, per quanto ciò non la attutisca.

Invece quando vedo e sento la gente discutere, se così si può dire, in televisione (o anche in situazioni “reali”), o esibire una naturalezza che finge di ignorare gli altri e di fatto è tutta per loro, alla vergogna non resisto e cambio canale, o, se chi è con me insiste a guardare, mi alzo e me ne vado, vergognandomi anche per lui o lei o loro o tutti i presenti e assenti che di queste trasmissioni si interessano o sono appassionati.

Mi vergogno della loro stupidità e meschinità, che però è anche, in loro, la forma che prende quella fragilità e debolezza che non so accettare in me. Allora la pena che provavo lascia il posto alla compassione. E così li perdono nello stesso tempo in cui li giudico, mentre, di nuovo, non so perdonare me per il fatto di giudicarli, per quanto a volte sia opportuno farlo.

Opportuno, forse necessario, ma non per questo necessariamente giusto. E se non è necessariamente giusto, è giusto il giudizio su di me, la condanna.

Amen.

 

(primi anni 2000)

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