Il signore piuttosto singolare che incrocio ogni tanto sul percorso pedonale urbano di G., e che di solito passa oltre senza nemmeno essersi accorto di me, lo sguardo immobile, o con piccoli movimenti furtivi, velocissimi, che scruta uno spazio tutto suo nel quale io di certo, e forse tutti e tutto, non siamo contemplati, questo pomeriggio mi si è parato davanti all'improvviso e mi ha parlato. Ero sul vialetto pedonale che conduce alla chiesa, delimitato da due lunghi muri scanditi da iscrizioni in forma di lapide dedicate ai morti in guerra del paesino (una per morto, con la sola data di nascita: e questo non finisce di sembrarmi bello), e mi dirigevo verso un cancelletto laterale che mi avrebbe poi condotto al percorso ciclopedonale esterno, sul quale non c'è quasi mai nessuno alle ore in cui passo io e dove quindi posso distrarmi come voglio, e pure leggere, se mi va. Un posto dove non l'avevo mai visto. E nemmeno stavolta, se è per questo, se non con la coda dell'occhio, per un attimo, in lontananza, lungo il muro opposto, senza quasi registrarlo. Come non si registra un una cosa innocua. Un uccello in volo, il manto stradale liscio, un filare di alberi all'orizzonte.
Mi è venuto
incontro, o meglio: si è precipitato verso di me attraversando di corsa il
vialetto, e mentre ancora mi stavo riprendendo dallo stupore (stavo leggendo,
appunto: un libro sui crolli, i disastri, le macerie), ha cominciato a parlarmi
in modo concitato. "Dammi 5 euro, che oggi non ho mangiato. 5 euro, non ho
fatto la spesa, ho fame... 5 Euro, dai! Dammi 5 euro!" Io, con un riflesso
automatico, di difesa (eh sì, di difesa: la testa diceva che non c'era nulla da
temere, ma il corpo si è attivato da solo) ho fatto per scostarmi, ma lui mi ha
preceduto, restando però a una distanza accettabile, non da aggressione cioè, solo
un po' più vicina di quanto non preveda il consueto codice comportamentale, appena
appena, qualche centimetro al massimo, ma con la testa in avanti, verso la mia,
come se stesse per urtarmi, o baciarmi. "Dammi 5 euro, che non ho
mangiato!", ha ribadito con voce decisa, e insieme, in fondo, tremolante. "5
euro!" "5 euro... non ti sembra di esagerare?" "Devo fare
la spesa, dammi 5 euro!"
L'ho guardato bene
in faccia, allora. Era più affilata, non dico scavata o patita, di quanto non
avessi mai notato, la pelle chiazzata di venuzze e piccole croste, la barba ben
fatta, i capelli grigi corti un po' spettinati sul cranio stretto, che si
muoveva avanti e indietro, impercettibilmente ma senza sosta, con un ritmo che
si avverte solo da vicino. "5 euro no," gli ho detto. "Ti do
tutte le monete che ho..." Ho sfilato il portamonete dalla tasca
posteriore, aperto la cerniera e vuotato tutte le monete nella mia sinistra,
mentre lui insisteva: "No, no, 5 euro!". "No, questo o
niente", e ho rovesciato tutte le monete dalla mia mano alla sua. Erano
più di 3 euro, così a occhio, forse 4. Lui le ha prese con un fare deluso, come
fosse vittima di un sopruso. Defraudato di un diritto fondamentale. E infatti
lui non mi aveva chiesto l'elemosina, ma 5 euro. 5 euro tondi. Di carta,
immagino pensasse. Mentre io gli avevo dato solo monete. Che però non erano
elemosina. Non lo pensava lui, non lo pensavo io. Fosse stato così gli avrei
dato solo una moneta, da un euro o due. Invece ho vuotato il portamonete, senza
sapere quanto c'era di preciso. A volte sono più di 5 euro, anche se stavolta
ero quasi certo che fossero un po' meno. Ma non 5 euro esatti. Non di carta, ma
monete. Lui le ha prese, con quell'aria più offesa che umiliata, e senza dire
nient'altro si è diretto di corsa verso il paese, al bar sotto i portici. A
bere o a comprare da fumare, magari un pacchetto da 10, o anche intero, se nel
frattempo qualcuno gli dava il resto. Che magari aveva già in tasca di suo,
d'altronde. L'ho sempre visto fumare. Bere non so.
Mangiare di sicuro
aveva già mangiato. So da dove viene: dalla palazzina che sorge a metà del
rettilineo lungo il canale. Ha un piccolo prato sul davanti, un ampio spiazzo
per le manovre di ambulanze, monovolume e piccoli bus, e nessuna recinzione. Ci
abitano persone con gravi problemi, ciascuna con il suo appartamentino. La
struttura è gestita da una cooperativa a cui collaborano molti volontari, diretta
dal compagno di una mia ex-allieva che lavora nel reparto amministrativo. Sono brave persone, che non fanno certo mancare
il cibo e si prendono cura degli abitanti e di tutte le loro necessità, per
quanto possono. Chi è autonomo, almeno in parte, è libero di uscire e rientrare
a suo piacimento, di giorno almeno. Il signore che ho incontrato è uno di
quelli. Sapevo tutto. Eppure un po' sono stato turbato. Non è stata la
richiesta. Nemmeno il tono delle parole. O quei movimenti incontrollati che lo portavano
ad accostarsi, o lo sguardo che si dirigeva altrove anche mentre mi parlava. E'
stato, credo, il fatto che mi avesse parlato. Che mi avesse rivolto la parola.
E che questa parola non fosse una richiesta, ma un'ingiunzione. Un'ingiunzione
non arbitraria: assoluta anzi, se il termine non è troppo forte. Diciamo senza
possibile replica, allora. E non per ciò che ingiungeva; e nemmeno perché
veniva da lui. Non era il suo presunto bisogno l'origine dell'ingiunzione, e
nemmeno la sua condizione, per me inconoscibile, al di fuori delle mie
presupposizioni (di ciò che potevo sapere e immaginare: dei miei pregiudizi
cioè). Non so: sta di fatto che il suo statuto era lampante, compreso o meno. E
io non sapevo in che misura avevo risposto; se avevo risposto almeno in parte.
Era per questo che ero turbato, credo. Un po', non tanto. C'era solo una vaga
inquietudine.
(Ma anche una vaga soddisfazione, come una sfumatura di sorriso che mi sembrava di avere sulle labbra.)
(Ma anche una vaga soddisfazione, come una sfumatura di sorriso che mi sembrava di avere sulle labbra.)
(E allora, alla
prima panchina vicino al centro sportivo, mi sono seduto e ho scritto.)
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