04/05/14

Su io e derivati. Prima approssimazione a partire da un post di Giulio Mozzi


Aprendo Facebook, sulla homepage oggi (l'altro giorno ormai) è comparsa la bella faccia di Giulio Mozzi, con accanto il suo nome e la scritta "invita a leggere un pezzetto de "La stanza degli animali", libro da lui scritto". Lo farò. Fatelo anche voi, specialmente chi ama gli animali (gli uomini è facoltativo), sulla sua pagina o direttamente su vibrisse.wordpress.com. Ma prima di passare alla lettura mi soffermo sulla scritta: niente di che, a parte l'understatement di "pezzetto" invece di "frammento" o "capitolo", eppure mi colpisce. E' semplice, cortese e efficace. Mi sembra di ritrovarci qualcosa del suo autore, più ancora che nella foto. Una fotografia indiretta e involontaria, che emerge dalle parole come da un negativo. Che differenza con le scritte che metto io per segnalare qualche iniziativa o la pubblicazione di un post sul mio blog! Che differenza con questa stessa frase che ho appena scritto! Quale? L'assenza della prima persona, mentre ogni mia ne brulica. Mi piace Giulio Mozzi, sia come scrittore, sia come persona pubblica e privata, per ciò che posso conoscerne dalle poche volte che l'ho incontrato. Mi sembra onesto e generoso. Uno che ama sul serio ciò che fa, e di conseguenza il mondo e la gente. E' da pochi, purtroppo. Io entro e esco da questo novero. Sono più spesso fuori. Mi chiedo cosa ci faccio lì fuori. Il bello è che non lo so.
Torniamo alla frase senza io. Naturalmente, qui Giulio approfitta della circostanza che il suo nome compare di default accanto alla foto e può quindi usarlo come soggetto, come una terza persona. Se uno usa il proprio nome e cognome come soggetto, diventa una terza persona. E' la grammatica. Ci può stare anche in una frase in prima, ma diventa un predicato, deve seguire il pronome, che in questo caso va espresso. Se non viene espresso, automaticamente nome e cognome diventano soggetto e la frase passa alla terza persona: Giulio Mozzi invita; io, Luigi Grazioli, invito. Non c'è scampo. Non posso lasciare il pronome sottinteso, come in questa, di frase. Altre lingue non lo permettono nemmeno in frasi come queste. L'italiano sì: credo sia un'eredità del latino, che dei pronomi faceva in genere a meno, come soggetti grammaticali almeno. Quella sì che era gente seria!
In questo noi italiani siamo stati più fedeli alle radici dei francesi e degli spagnoli, tanto per restare in famiglia. I francesi, guai a tralasciare il pronome. La grandeur! Il narcisismo! Ma non credo sia solo questo. Io sono narcisista la mia parte, lo ammetto; però, essendo di educazione cattolica, spesso me ne vergogno. Vergognarsi di qualcosa di cui non si può fare a meno è il colmo! Eppure il cattolicesimo, per limitarsi ad esso, ci è riuscito. Anche con il sesso, per dire. Vorrei lasciar perdere l'argomento (l'argomento narcisismo intendo: il sesso era solo un esempio; metto le virgolette o l'ironia si capisce lo stesso?), ma allora sarebbe inutile scrivere queste paginette. Giulio, usando quella formula, è riuscito ad evitarlo. Non ci fossero la fotografia e il nome!
Sì, va be', ma almeno lui ha smorzato l'effetto: è ovvio che chi ha chiesto e ottenuto la sua amicizia su Facebook era interessato a sapere qualcosa di lui almeno quanto ci tiene a farla sapere lui. Si comunica per questo, no? Però lui non ha usato il pronome io. L'ha elegantemente svicolato. Si è posto in maniera indiretta e garbata. E questo mi piace. Davvero, senza virgolette. L'esecrato, odioso pronome! (Questa è una citazione. M'è rimasta la didattica nel sangue, peggio di un virus. A proposito: ora segue un fulmineo riassunto del pensiero occidentale che può essere saltato da chi l'ha già familiare: come riassunto intendo.) Perché le cose stanno proprio così: prima guai a parlare in prima persona: era appannaggio dell'autorità, di Dio soprattutto (ovviamente Dio sta sopra tutto: per definizione; ma anche lui ci giocava: "io sono quel che sono" o "sono colui che è"?; è un burlone, gli piacciono i calembours), l'individuo non contava, al massimo era un esempio; le opere non erano firmate; i nomi svanivano appena pronunciati, e allora tanto valeva pronunciarli, o scriverli. Poi timidamente qualcuno ha osato. Ubris! Ha messo il suo nome da qualche parte, su un architrave o un basamento; si è ritratto nella maiuscola di una miniatura o come uno dei tanti volti tra la folla di un affresco, guardando verso di te per farsi riconoscere, a scanso di equivoci; oppure, appoggiandosi a qualche bastone classico, ha rischiato (ha provato; ha fatto la prova: l'essai) a dire cosa pensava in proprio. Da lì si è cominciato a credere (anzi, ci si è fatti sempre più convinti) che solo a partire da sé si poteva provare a dire qualcosa di sensato, purché poi da questo sé si togliessero tutti i cascami, finché non restava che il nocciolo, puro: astratto ma puro; puro in quanto astratto. Successivamente, un po' alla volta, hanno rimesso la carne attorno a questo scheletro spirituale; e già che c'erano, pian piano, anche ciò che alla carne era pertinente, magari con nomi che nobilitavano un po' gli annessi e connessi. L'amore, per esempio. Tutti quei sentimenti. (Per gli istinti c'è voluto di più: è roba da trattare con le molle, quella.) Infine qualcuno si è detto: ma che storie sono queste? io sono tutto questo, tutto!, prendere o lasciare. E da allora io si è insinuato in ogni pertugio, ha invaso lo spazio, saturato l'aria, su su fino alle stelle (fin sopra gli astri il proprio grado estolle!: citazione accomodata). (Faccio notare che nella frase precedente il pronome di prima persona, astutamente sostantivato, diventa soggetto di una frase in terza: lo segnalo agli sbadati.) Ci credo che qualcuno ha cominciato ad averne piene le scatole! Da qui un susseguirsi ininterrotto di pro e contro, in altalena. Soprattutto contro. Se non altro per buona educazione. Meglio non parlare troppo di sé a chi è già tanto preso dal suo e aspetta solo di prendere la parola per illustrarlo in lungo e in largo. Fatto sta che quanto più il narcisismo è diventato abito universale, tanto più l'io è venuto in sospetto. In odio addirittura. Poi risbuca da tutte le parti, camuffato, con vesti di scena, ma questo è un altro discorso. Anzi no: questo è il discorso. Perché appunto di parole stiamo parlando. Della parola io e derivati.
E' un discorso complicato, filosofi e linguisti si stanno accapigliando tuttora, perché da lì alle massime questioni non c'è che un passo. Me ne sono occupato anch'io per un certo periodo, ma alla fine ho lasciato perdere: non c'avevo la testa sufficiente, e quel poco, ho deciso di riservarlo a me stesso. Questione di risorse, di gestione delle riserve. Non mi azzarderò a recuperare ora. Quello che mi interessa qui è che i pronomi sono dei commutatori (shifter, deittici, nel linguaggio tecnico), che hanno cioè a che fare con la situazione enunciativa e non indicano delle sostanze. Sono solo dei fottuti pronomi accidenti! Ci sono e si usano. Fine.
Con tutto ciò quando si sente o legge la parola "io" (persino quando è sottintesa), un certo fastidio, facile che insorge lo stesso. Quando si sente da altri, chiaro. Ma anche quando la si sente da noi, il fatto stesso di percepirla ci pone a distanza, come se a parlare fosse un altro. Un altro che sono e non sono io. Brutta sensazione.
Quando si legge, invece, lo si sopporta più facilmente, specie in un contesto narrativo; poi il personaggio che dice io o la voce narrante possono essere simpatici o meno, intelligenti o cretini, ma questo è secondario qui (anche "qui" è un deittico: qui, "qui" indica il contesto discorsivo, non il luogo dove è colui che scrive o legge: non il mio studio, per esempio, con i miei 70 chili di carne e ossa seduti davanti al pc, al calduccio, mentre fuori cade la prima neve dell'anno, bella fitta ora; "ora": altro deittico). Resta un margine di ambiguità, comunque. Infatti il lettore ingenuo ci mette niente a identificare questa voce con l'autore. Le domande che non mi hanno fatto in proposito! Io confermo tutto. Sempre. Anche che c'è stato un periodo che volavo.
Di questa ambiguità ora se ne approfittano in molti, sembra. Hanno addirittura coniato, in proposito, il termine "autofiction". Cioè, l'autore costruisce una finzione (una storia) narrata da (o incentrata su) un personaggio che porta il suo nome e cognome, parlando di fatti più o meno importanti della propria vita e farcendo il tutto delle proprie opinioni. E tutto vero! Ma non vero fino in fondo! Con qualche margine di invenzione. Da qui "fiction" (che però è un termine di prevalente uso cinematografico-televisivo, ora: credo sia stato recuperato da lì). Come se uno, raccontando la propria storia anche con la massima sincerità (santa ingenuità!), non fosse costretto, sempre!, a inventare. Cosa scelgo? Cosa tralascio? Cosa accentuo? Cosa attenuo? Come separo e lego? Senza contare la modificazione che i ricordi subiscono nel tempo. Per tacere dei falsi ricordi. Dei ricordi di copertura. Del grande fratello inconscio. Cioè dell'inconscio come grande fratello, bastardo e bugiardo. (E tiranno.)
L'incapacità di raccontare storie con l'autorevolezza del narratore del passato, il relativismo che rischia di rendere ridicola ogni affermazione, la povertà di esperienza, l'immaginazione che è emigrata in altri lidi e forme, in questa faccenda c'hanno messo lo zampino. Però a raccontare si deve continuare, e le proprie idee (per dire) non si rinuncia a sibilarle. (Pardon, a sillabarle, a esibirle: quasi un anagramma.) Ma sì, se non altro, quando non è una forma di ingenuità (narrativa) di secondo grado, è un modo di prendere coscienza della situazione e di affrontarla. Ci sta. C'è di meglio, ma anche di peggio. Dipende dal come, come sempre.
Per conto mio (arieccoci!) è stato in parte così. Quando una trentina di anni fa ho capito che non ero capace di raccontare storie come se niente fosse e che non ero in grado di inventare nuove forme mirabolanti, dopo un lungo periodo in cui non mi uscivano che frasi spezzate, moncherini di emozioni, limatura di pensiero, ho ricominciato a scrivere avvicinandomi a me. Avvicinandomi da fuori e al contempo prendendomi cura di me. Poca roba, di scarso peso; l'esatto corrispondente di una vita banale, risicata a stento. E però erano le uniche cose che ero in grado di dire, che potevo dire senza vergognarmi. Senza vergognarmi di dire io! Era, ed è, tutto quello che avevo, e allora lo dovevo, lo devo, spremere ben bene. Sono o non sono importante per me? La scusa è buona: solo se mi prendo cura di me, posso prendermene anche degli altri, per quanto sono in grado. Ho una piccola vocazione al martirio, ma la tengo a freno. Se il mio problema è, almeno in parte, risolto, o quantomeno conosciuto e affrontato (cerco di autoconvincermi), posso prendere altre strade senza scaricare lungo il percorso i miei rifiuti, o quel che sia. Dico io, come se ci fossi io in ciò che dico; scrivo attribuendomi delle esperienze che magari sto facendo solo mentre ne sto scrivendo. Mi ficco in ogni salsa, ballo ogni danza (le poche che so). Tanto poi, scritto, io appartiene a ciò che è scritto, e a chi legge (se gli va). Se va bene quello, va a posto anche il resto. Lo lascio lì volentieri. E che cavolo, è solo un pronome!

(Poi, ogni tanto, mi viene anche altro. Come caput mortuum. Come dono della saturazione.)

 (scritto nel 2010 o 11)

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