Aprendo Facebook, sulla homepage oggi (l'altro
giorno ormai) è comparsa la bella faccia di Giulio Mozzi, con accanto il suo
nome e la scritta "invita a leggere un pezzetto de "La stanza degli
animali", libro da lui scritto". Lo farò. Fatelo anche voi, specialmente
chi ama gli animali (gli uomini è facoltativo), sulla sua pagina o direttamente
su vibrisse.wordpress.com. Ma prima di passare alla lettura mi soffermo sulla
scritta: niente di che, a parte l'understatement di "pezzetto" invece
di "frammento" o "capitolo", eppure mi colpisce. E' semplice,
cortese e efficace. Mi sembra di ritrovarci qualcosa del suo autore, più ancora
che nella foto. Una fotografia indiretta e involontaria, che emerge dalle
parole come da un negativo. Che differenza con le scritte che metto io per
segnalare qualche iniziativa o la pubblicazione di un post sul mio blog! Che
differenza con questa stessa frase che ho appena scritto! Quale? L'assenza
della prima persona, mentre ogni mia ne brulica. Mi piace Giulio Mozzi, sia
come scrittore, sia come persona pubblica e privata, per ciò che posso
conoscerne dalle poche volte che l'ho incontrato. Mi sembra onesto e generoso. Uno
che ama sul serio ciò che fa, e di conseguenza il mondo e la gente. E' da
pochi, purtroppo. Io entro e esco da questo novero. Sono più spesso fuori. Mi
chiedo cosa ci faccio lì fuori. Il bello è che non lo so.
Torniamo alla frase senza io. Naturalmente, qui
Giulio approfitta della circostanza che il suo nome compare di default accanto
alla foto e può quindi usarlo come soggetto, come una terza persona. Se uno usa
il proprio nome e cognome come soggetto, diventa una terza persona. E' la
grammatica. Ci può stare anche in una frase in prima, ma diventa un predicato,
deve seguire il pronome, che in questo caso va espresso. Se non viene espresso,
automaticamente nome e cognome diventano soggetto e la frase passa alla terza
persona: Giulio Mozzi invita; io, Luigi Grazioli, invito. Non c'è scampo. Non
posso lasciare il pronome sottinteso, come in questa, di frase. Altre lingue
non lo permettono nemmeno in frasi come queste. L'italiano sì: credo sia
un'eredità del latino, che dei pronomi faceva in genere a meno, come soggetti
grammaticali almeno. Quella sì che era gente seria!
In questo noi italiani siamo stati più fedeli alle
radici dei francesi e degli spagnoli, tanto per restare in famiglia. I
francesi, guai a tralasciare il pronome. La grandeur! Il narcisismo! Ma non
credo sia solo questo. Io sono narcisista la mia parte, lo ammetto; però,
essendo di educazione cattolica, spesso me ne vergogno. Vergognarsi di qualcosa
di cui non si può fare a meno è il colmo! Eppure il cattolicesimo, per
limitarsi ad esso, ci è riuscito. Anche con il sesso, per dire. Vorrei lasciar
perdere l'argomento (l'argomento narcisismo intendo: il sesso era solo un
esempio; metto le virgolette o l'ironia si capisce lo stesso?), ma allora
sarebbe inutile scrivere queste paginette. Giulio, usando quella formula, è
riuscito ad evitarlo. Non ci fossero la fotografia e il nome!
Sì, va be', ma almeno lui ha smorzato l'effetto: è
ovvio che chi ha chiesto e ottenuto la sua amicizia su Facebook era interessato
a sapere qualcosa di lui almeno quanto ci tiene a farla sapere lui. Si comunica
per questo, no? Però lui non ha usato il pronome io. L'ha elegantemente
svicolato. Si è posto in maniera indiretta e garbata. E questo mi piace.
Davvero, senza virgolette. L'esecrato, odioso pronome! (Questa è una citazione.
M'è rimasta la didattica nel sangue, peggio di un virus. – A proposito: ora segue un fulmineo riassunto del
pensiero occidentale che può essere saltato da chi l'ha già familiare: come
riassunto intendo.) Perché le cose stanno proprio così: prima guai a parlare in
prima persona: era appannaggio dell'autorità, di Dio soprattutto (ovviamente
Dio sta sopra tutto: per definizione; ma anche lui ci giocava: "io sono
quel che sono" o "sono colui che è"?; è un burlone, gli
piacciono i calembours), l'individuo non contava, al massimo era un esempio; le
opere non erano firmate; i nomi svanivano appena pronunciati, e allora tanto
valeva pronunciarli, o scriverli. Poi timidamente qualcuno ha osato. Ubris! Ha
messo il suo nome da qualche parte, su un architrave o un basamento; si è
ritratto nella maiuscola di una miniatura o come uno dei tanti volti tra la
folla di un affresco, guardando verso di te per farsi riconoscere, a scanso di
equivoci; oppure, appoggiandosi a qualche bastone classico, ha rischiato (ha
provato; ha fatto la prova: l'essai)
a dire cosa pensava in proprio. Da lì si è cominciato a credere (anzi, ci si è
fatti sempre più convinti) che solo a partire da sé si poteva provare a dire
qualcosa di sensato, purché poi da questo sé si togliessero tutti i cascami,
finché non restava che il nocciolo, puro: astratto ma puro; puro in quanto
astratto. Successivamente, un po' alla volta, hanno rimesso la carne attorno a
questo scheletro spirituale; e già che c'erano, pian piano, anche ciò che alla
carne era pertinente, magari con nomi che nobilitavano un po' gli annessi e
connessi. L'amore, per esempio. Tutti quei sentimenti. (Per gli istinti c'è
voluto di più: è roba da trattare con le molle, quella.) Infine qualcuno si è
detto: ma che storie sono queste? io sono tutto questo, tutto!, prendere o lasciare.
E da allora io si è insinuato in ogni pertugio, ha invaso lo spazio, saturato
l'aria, su su fino alle stelle (fin sopra gli astri il proprio grado estolle!:
citazione accomodata). (Faccio notare che nella frase precedente il pronome di
prima persona, astutamente sostantivato, diventa soggetto di una frase in
terza: lo segnalo agli sbadati.) Ci credo che qualcuno ha cominciato ad averne
piene le scatole! Da qui un susseguirsi ininterrotto di pro e contro, in
altalena. Soprattutto contro. Se non altro per buona educazione. Meglio non
parlare troppo di sé a chi è già tanto preso dal suo e aspetta solo di prendere
la parola per illustrarlo in lungo e in largo. Fatto sta che quanto più il
narcisismo è diventato abito universale, tanto più l'io è venuto in sospetto.
In odio addirittura. Poi risbuca da tutte le parti, camuffato, con vesti di
scena, ma questo è un altro discorso. Anzi no: questo è il discorso. Perché
appunto di parole stiamo parlando. Della parola io e derivati.
E' un discorso complicato, filosofi e linguisti si
stanno accapigliando tuttora, perché da lì alle massime questioni non c'è che
un passo. Me ne sono occupato anch'io per un certo periodo, ma alla fine ho
lasciato perdere: non c'avevo la testa sufficiente, e quel poco, ho deciso di riservarlo
a me stesso. Questione di risorse, di gestione delle riserve. Non mi azzarderò
a recuperare ora. Quello che mi interessa qui è che i pronomi sono dei
commutatori (shifter, deittici, nel linguaggio tecnico), che hanno cioè a che
fare con la situazione enunciativa e non indicano delle sostanze. Sono solo dei
fottuti pronomi accidenti! Ci sono e si usano. Fine.
Con tutto ciò quando si sente o legge la parola "io"
(persino quando è sottintesa), un certo fastidio, facile che insorge lo stesso.
Quando si sente da altri, chiaro. Ma anche quando la si sente da noi, il fatto
stesso di percepirla ci pone a distanza, come se a parlare fosse un altro. Un
altro che sono e non sono io. Brutta sensazione.
Quando si legge, invece, lo si sopporta più
facilmente, specie in un contesto narrativo; poi il personaggio che dice io o
la voce narrante possono essere simpatici o meno, intelligenti o cretini, ma
questo è secondario qui (anche "qui" è un deittico: qui,
"qui" indica il contesto discorsivo, non il luogo dove è colui che
scrive o legge: non il mio studio, per esempio, con i miei 70 chili di carne e
ossa seduti davanti al pc, al calduccio, mentre fuori cade la prima neve
dell'anno, bella fitta ora; "ora": altro deittico). Resta un margine
di ambiguità, comunque. Infatti il lettore ingenuo ci mette niente a
identificare questa voce con l'autore. Le domande che non mi hanno fatto in
proposito! Io confermo tutto. Sempre. Anche che c'è stato un periodo che
volavo.
Di questa ambiguità ora se ne approfittano in
molti, sembra. Hanno addirittura coniato, in proposito, il termine
"autofiction". Cioè, l'autore costruisce una finzione (una storia) narrata
da (o incentrata su) un personaggio che porta il suo nome e cognome, parlando
di fatti più o meno importanti della propria vita e farcendo il tutto delle
proprie opinioni. E tutto vero! Ma non vero fino in fondo! Con qualche margine
di invenzione. Da qui "fiction" (che però è un termine di prevalente
uso cinematografico-televisivo, ora: credo sia stato recuperato da lì). Come se
uno, raccontando la propria storia anche con la massima sincerità (santa
ingenuità!), non fosse costretto, sempre!, a inventare. Cosa scelgo? Cosa
tralascio? Cosa accentuo? Cosa attenuo? Come separo e lego? Senza contare la
modificazione che i ricordi subiscono nel tempo. Per tacere dei falsi ricordi.
Dei ricordi di copertura. Del grande fratello inconscio. Cioè dell'inconscio
come grande fratello, bastardo e bugiardo. (E tiranno.)
L'incapacità di raccontare storie con
l'autorevolezza del narratore del passato, il relativismo che rischia di
rendere ridicola ogni affermazione, la povertà di esperienza, l'immaginazione
che è emigrata in altri lidi e forme, in questa faccenda c'hanno messo lo
zampino. Però a raccontare si deve continuare, e le proprie idee (per dire) non
si rinuncia a sibilarle. (Pardon, a sillabarle, a esibirle: quasi un
anagramma.) Ma sì, se non altro, quando non è una forma di ingenuità
(narrativa) di secondo grado, è un modo di prendere coscienza della situazione
e di affrontarla. Ci sta. C'è di meglio, ma anche di peggio. Dipende dal come,
come sempre.
Per conto mio (arieccoci!) è stato in parte così.
Quando una trentina di anni fa ho capito che non ero capace di raccontare
storie come se niente fosse e che non ero in grado di inventare nuove forme
mirabolanti, dopo un lungo periodo in cui non mi uscivano che frasi spezzate,
moncherini di emozioni, limatura di pensiero, ho ricominciato a scrivere avvicinandomi
a me. Avvicinandomi da fuori e al contempo prendendomi cura di me. Poca roba, di
scarso peso; l'esatto corrispondente di una vita banale, risicata a stento. E
però erano le uniche cose che ero in grado di dire, che potevo dire senza
vergognarmi. Senza vergognarmi di dire io! Era, ed è, tutto quello che avevo, e
allora lo dovevo, lo devo, spremere ben bene. Sono o non sono importante per
me? La scusa è buona: solo se mi prendo cura di me, posso prendermene anche
degli altri, per quanto sono in grado. Ho una piccola vocazione al martirio, ma
la tengo a freno. Se il mio problema è, almeno in parte, risolto, o quantomeno
conosciuto e affrontato (cerco di autoconvincermi), posso prendere altre strade
senza scaricare lungo il percorso i miei rifiuti, o quel che sia. Dico io, come
se ci fossi io in ciò che dico; scrivo attribuendomi delle esperienze che
magari sto facendo solo mentre ne sto scrivendo. Mi ficco in ogni salsa, ballo
ogni danza (le poche che so). Tanto poi, scritto, io appartiene a ciò che è
scritto, e a chi legge (se gli va). Se va bene quello, va a posto anche il
resto. Lo lascio lì volentieri. E che cavolo, è solo un pronome!
(Poi, ogni tanto, mi viene anche altro. Come caput
mortuum. Come dono della saturazione.)
(scritto nel 2010 o 11)
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