02/08/14

Un sogno (o forse due)

 
Sono seduto di fronte a un salone pieno di divanetti a due posti, bassi e senza braccioli, rivestiti dalla stessa stoffa come quelli delle discoteche. Sono tutti occupati, a volte anche da tre persone che stanno un po’ strette. Tra di loro si muove un tizio in giacca a quadretti dai colori vivaci: un presentatore, un comico...
Arriva una coppia di signori dai capelli corti, quasi bianchi e un po’ radi, gli occhi azzurrissimi, trasparenti, innocenti, che mi colpiscono. Mi colpisce l’innocenza. Uno lo riconosco come parte di un trio comico di qualche anno fa; l’altro gli assomiglia molto e ne deduco, senza riconoscerlo, che faceva parte del trio. In un primo momento avevo pensato che fosse un fratello, forse gemello. Un’impressione fugace, subito sparita e sostituita dalla deduzione, che pure mi sembra improbabile.
Io sono seduto di fronte alla scena ma non ne faccio parte, come separato da un vetro invisibile. Cioè, è come se il vetro ci fosse, ma non c’è, e io guardo la scena come dentro un televisore, anche se il salone è a grandezza naturale e il nostro spazio continuo e omogeneo. Quelli che sono nel salone non mi vedono, non sanno che sono lì a guardare, a un passo da loro, eppure in qualche modo percepiscono la mia presenza.
Guardano tutti il signore in giacca a quadretti, che si rivolge ai due che stanno entrando chiedendogli, prima ancora che si accomodino, come ci si sente a restare nell’ombra (usa proprio questa espressione) per tanto tempo, dopo un periodo di notorietà. Quello che ho riconosciuto risponde: “Tu dovresti saperlo benissimo...” “Eh sì...” risponde il presentatore, “è come fare programmi notturni di intrattenimento sui canali minori di Sky” (intendendo: che ci sono ma non guarda nessuno; che vengono realizzati in fretta e furia, con quattro soldi, solo per riempire il palinsesto, perché la legge prevede una percentuale di produzioni proprie, e non importa cosa si dice o si fa; tantomeno chi c’è: vecchie glorie da elemosinare, nuove leve da saggiare, parenti e amanti da accontentare ecc.).
Poi la scena (o il sogno?) cambia e mi ritrovo in auto seduto accanto a qualcuno che guida per strade simili a quelle del bassolodigiano, che riconosco non tanto per la campagna, di cui non conservo traccia, quanto per i paesi e soprattutto per un viale alla periferia di Casalpusterlengo, dove sono passato una sola volta in vita mia. L’immagine è precisa: la strada, gli alberi, il marciapiede, le casette e i condomini ai lati... il semaforo, i lavori in corso. Però invece di Casalpusterlengo, mi viene in mente Sant’Angelo Lodigiano.
A un certo punto la scena cambia ancora: l’auto si ferma in mezzo a una strada larga come una grande aia (come mezza piazza d’armi, è l’espressione che mi è venuta in mente dopo), sterrata e completamente sgombra, delimitata ai fianchi da file di caseggiati molto simili alle nostre cascine e chiusa in fondo da un unico grande edificio dello stesso genere.
Scendo dall’auto, che subito riparte. Cammino per la strada senza provare particolari emozioni, solo con un lieve spaesamento che svanisce subito, forse per la familiarità dei caseggiati, che peraltro, messi così l’uno accosto all’altro in lunga fila, sono gli stessi che me l’hanno suscitato. Sotto i portici e all’interno delle case stanno tutti pranzando. Un pranzo normale, modesto. Qualcuno si muove tra i tavoli; chi parla non alza la voce. Il rumore è discreto, non disturba, quasi non si sente. Per un attimo, mentre passo accanto a un lungo tavolo, mi viene l’impulso, appena accennato e subito dimenticato, di sedermi, con la sensazione che sarò accolto senza problemi (o c’è qualcuno che mi invita?), ma poi proseguo lungo la strada. Dopo un po’ la attraverso e ne percorro il lato sinistro senza accostarmi troppo agli edifici. Guardo nelle case e vedo grandi tinelli: solo questi grandi locali in cui c’è chi mangia seduto a tavola (a volte ce ne sono due o tre, ma non è un ristorante: sono locali domestici), altri con il piatto in mano su sedie isolate o vicino al camino spento, e altri ancora seduti di divanetti anni 50 dall’armatura di metallo e le imbottiture rettangolari ricoperte di similpelle (come quello che avevamo nel vecchio tinello noi, quello scomodissimo su cui mio padre per anni ha fatto la sua canonica mezz’ora di pennichella prima di tornare al lavoro).
Dietro l’edificio che chiude la strada, sullo sfondo si vede un’imponente catena di montagne innevate, che sembra vicinissima. C’è il sole e la gente, anche quella sotto i portici, veste leggero; io indosso cappotto, sciarpa e cappello, ma non ho caldo. Arrivato in fondo, mi accorgo che la strada finisce lì, a parte un passaggio sulla sinistra dell’edificio che imbocco senza esitazioni. Accanto al muro laterale, cieco, c’è una donna, anziana ma non vecchissima, seduta su una sedia di paglia, con uno scialle di lana fatto a maglia sulle spalle. Dietro di lei si apre il paesaggio. Mi tolgo il cappotto e la sciarpa. Nel mentre, arriva un cagnolino che mi punta come per aggredirmi. “Sssst”, gli faccio, e lui si accuccia immediatamente, senza nemmeno uggiolare.
 

Guardo le montagne in lontananza; la neve luccica, è luminosa nonostante il cielo ora sia grigio, basso; sulla pianura, quasi nebbioso. Alla mia sinistra la piana è ricoperta da erbe secche e al contempo marce, disseminata ogni tanto di spiazzi aridi o da cespugli di erbacce più alte. Nessuna pianta. Di fronte e alla mia destra invece è ricoperta di neve; non una coltre continua: neve ammucchiata in grandi blocchi, come massi erratici, alti anche decine di metri. Sono tantissimi, molto fitti eppure nettamente separati l’uno dall’altro, singolari e isolati, e di varie forme dalle superfici accidentate, rozzamente sbozzate. Alcuni blocchi sono tondeggianti, come cupole irregolari e sfrangiate (mi è venuta in mente la parola “pagode”, incongrua), altri assomigliano a giganteschi termitai, altri ancora a cilindri rastremati o a menhir, stalagmiti, a tumuli antichi, mausolei diroccati, cataste, pire... e si stagliano nell’aria grigia per chilometri e chilometri, fino ai piedi delle montagne. Li distinguo tutti, ad uno ad uno, anche i più lontani. Resto a guardarli, incantato di un incanto senza inflessioni, che non appaga. Soggiogato e insieme distante.
A un certo punto sento la vecchia che mi chiede: “Tuo figlio è già partito?” (intendendo: per la guerra). Io sto già piangendo da un po’ (forse). Un pianto silenzioso, quasi impercettibile, ma inconsolabile, senza remissione. “Sono tutti pazzi”, dico con voce calma, priva di incrinature, e continuo a piangere. Lei si alza e se ne va. Io resto a guardare la distesa dei massi di neve e le montagne, tra le lacrime. Poi mi volto e vado via.

Nessun commento:

Posta un commento