Sono
seduto di fronte a un salone pieno di divanetti a due posti, bassi e senza
braccioli, rivestiti dalla stessa stoffa come quelli delle discoteche. Sono
tutti occupati, a volte anche da tre persone che stanno un po’ strette. Tra di
loro si muove un tizio in giacca a quadretti dai colori vivaci: un
presentatore, un comico...
Arriva
una coppia di signori dai capelli corti, quasi bianchi e un po’ radi, gli occhi
azzurrissimi, trasparenti, innocenti, che mi colpiscono. Mi colpisce
l’innocenza. Uno lo riconosco come parte di un trio comico di qualche anno fa;
l’altro gli assomiglia molto e ne deduco, senza riconoscerlo, che faceva parte
del trio. In un primo momento avevo pensato che fosse un fratello, forse
gemello. Un’impressione fugace, subito sparita e sostituita dalla deduzione,
che pure mi sembra improbabile.
Io
sono seduto di fronte alla scena ma non ne faccio parte, come separato da un
vetro invisibile. Cioè, è come se il vetro ci fosse, ma non c’è, e io guardo la
scena come dentro un televisore, anche se il salone è a grandezza naturale e il
nostro spazio continuo e omogeneo. Quelli che sono nel salone non mi vedono,
non sanno che sono lì a guardare, a un passo da loro, eppure in qualche modo
percepiscono la mia presenza.
Guardano
tutti il signore in giacca a quadretti, che si rivolge ai due che stanno
entrando chiedendogli, prima ancora che si accomodino, come ci si sente a
restare nell’ombra (usa proprio questa espressione) per tanto tempo, dopo un
periodo di notorietà. Quello che ho riconosciuto risponde: “Tu dovresti saperlo
benissimo...” “Eh sì...” risponde il presentatore, “è come fare programmi
notturni di intrattenimento sui canali minori di Sky” (intendendo: che ci sono
ma non guarda nessuno; che vengono realizzati in fretta e furia, con quattro soldi,
solo per riempire il palinsesto, perché la legge prevede una percentuale di
produzioni proprie, e non importa cosa si dice o si fa; tantomeno chi c’è:
vecchie glorie da elemosinare, nuove leve da saggiare, parenti e amanti da
accontentare ecc.).
Poi
la scena (o il sogno?) cambia e mi ritrovo in auto seduto accanto a qualcuno
che guida per strade simili a quelle del bassolodigiano, che riconosco non
tanto per la campagna, di cui non conservo traccia, quanto per i paesi e
soprattutto per un viale alla periferia di Casalpusterlengo, dove sono passato
una sola volta in vita mia. L’immagine è precisa: la strada, gli alberi, il
marciapiede, le casette e i condomini ai lati... il semaforo, i lavori in
corso. Però invece di Casalpusterlengo, mi viene in mente Sant’Angelo
Lodigiano.
A
un certo punto la scena cambia ancora: l’auto si ferma in mezzo a una strada
larga come una grande aia (come mezza
piazza d’armi, è l’espressione che mi è venuta in mente dopo), sterrata e completamente sgombra,
delimitata ai fianchi da file di caseggiati molto simili alle nostre cascine e
chiusa in fondo da un unico grande edificio dello stesso genere.
Scendo
dall’auto, che subito riparte. Cammino per la strada senza provare particolari
emozioni, solo con un lieve spaesamento che svanisce subito, forse per la
familiarità dei caseggiati, che peraltro, messi così l’uno accosto all’altro in
lunga fila, sono gli stessi che me l’hanno suscitato. Sotto i portici e
all’interno delle case stanno tutti pranzando. Un pranzo normale, modesto.
Qualcuno si muove tra i tavoli; chi parla non alza la voce. Il rumore è
discreto, non disturba, quasi non si sente. Per un attimo, mentre passo accanto
a un lungo tavolo, mi viene l’impulso, appena accennato e subito dimenticato,
di sedermi, con la sensazione che sarò accolto senza problemi (o c’è qualcuno
che mi invita?), ma poi proseguo lungo la strada. Dopo un po’ la attraverso e
ne percorro il lato sinistro senza accostarmi troppo agli edifici. Guardo nelle
case e vedo grandi tinelli: solo questi grandi locali in cui c’è chi mangia
seduto a tavola (a volte ce ne sono due o tre, ma non è un ristorante: sono
locali domestici), altri con il piatto in mano su sedie isolate o vicino al
camino spento, e altri ancora seduti di divanetti anni 50 dall’armatura di
metallo e le imbottiture rettangolari ricoperte di similpelle (come quello che
avevamo nel vecchio tinello noi, quello scomodissimo su cui mio padre per anni
ha fatto la sua canonica mezz’ora di pennichella prima di tornare al lavoro).
Dietro
l’edificio che chiude la strada, sullo sfondo si vede un’imponente catena di
montagne innevate, che sembra vicinissima. C’è il sole e la gente, anche quella
sotto i portici, veste leggero; io indosso cappotto, sciarpa e cappello, ma non
ho caldo. Arrivato in fondo, mi accorgo che la strada finisce lì, a parte un
passaggio sulla sinistra dell’edificio che imbocco senza esitazioni. Accanto al
muro laterale, cieco, c’è una donna, anziana ma non vecchissima, seduta su una
sedia di paglia, con uno scialle di lana fatto a maglia sulle spalle. Dietro di
lei si apre il paesaggio. Mi tolgo il cappotto e la sciarpa. Nel mentre, arriva
un cagnolino che mi punta come per aggredirmi. “Sssst”, gli faccio, e lui si
accuccia immediatamente, senza nemmeno uggiolare.
Guardo
le montagne in lontananza; la neve luccica, è luminosa nonostante il cielo ora
sia grigio, basso; sulla pianura, quasi nebbioso. Alla mia sinistra la piana è
ricoperta da erbe secche e al contempo marce, disseminata ogni tanto di spiazzi
aridi o da cespugli di erbacce più alte. Nessuna pianta. Di fronte e alla mia
destra invece è ricoperta di neve; non una coltre continua: neve ammucchiata in
grandi blocchi, come massi erratici, alti anche decine di metri. Sono
tantissimi, molto fitti eppure nettamente separati l’uno dall’altro, singolari
e isolati, e di varie forme dalle superfici accidentate, rozzamente sbozzate.
Alcuni blocchi sono tondeggianti, come cupole irregolari e sfrangiate (mi è
venuta in mente la parola “pagode”, incongrua), altri assomigliano a giganteschi
termitai, altri ancora a cilindri rastremati o a menhir, stalagmiti, a tumuli
antichi, mausolei diroccati, cataste, pire... e si stagliano nell’aria grigia
per chilometri e chilometri, fino ai piedi delle montagne. Li distinguo tutti,
ad uno ad uno, anche i più lontani. Resto a guardarli, incantato di un incanto
senza inflessioni, che non appaga. Soggiogato e insieme distante.
A
un certo punto sento la vecchia che mi chiede: “Tuo figlio è già partito?”
(intendendo: per la guerra). Io sto già piangendo da un po’ (forse). Un pianto
silenzioso, quasi impercettibile, ma inconsolabile, senza remissione. “Sono
tutti pazzi”, dico con voce calma, priva di incrinature, e continuo a piangere.
Lei si alza e se ne va. Io resto a guardare la distesa dei massi di neve e le
montagne, tra le lacrime. Poi mi volto e vado via.
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