Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
31/03/16
Pidocchi (e uomini e maiali)
Leggo* che i pidocchi hanno una specializzazione fortissima: ogni loro specie si nutre del sangue solo di un'altra specie: bovini, cervidi, topi, cani, ovini ecc. Solo il pidocchio del maiale può nutrirsi anche del sangue dell'uomo, e viceversa.
Questo dovrebbe significare qualcosa?
Dobbiamo pensare, per esempio, che a certi tabù alimentari che alcune religioni istituiscono per i maiali non sia estraneo anche il sentimento di una remota parentela, e il rischio conseguente di cannibalismo?
O dobbiamo lanciarci in altre ipotesi? In sogni morali, o incubi a loro volta specializzatissimi? La duplice preferenza dei nostri pidocchi cos'altro ci può insegnare? Niente?
Però l'immaginazione, lei, vola.
*(in "La strategia della farfalla" di Marco Belpoliti, di prossima uscita presso Guanda)
30/03/16
Tornano a casa (un sogno, anche meno)
Un gruppo di
uomini dei Balcani, e mediorientali, con qualche pakistano anche, vestiti come
i contadini di una volta, con pantaloni di tela grezza e maglie di lana a
mezzamanica color carne o grigie, tarlate e slabbrate, piene di rammendi, non
del tutto pulite, o che danno questa impressione anche appena lavate, la barba
di qualche giorno, i capelli scarmigliati, gli occhi scuri, luminosi, passa tra
i vicoli cantando in coro, come canzoni di montagna e in una lingua comune pur
essendo loro di origini diverse, prima di sparire nel cortile di una cascina
del vecchio paese di montagna.
Il passo è
agile, deciso. I piedi calcano le pietre con vigore. Le pareti della viuzza
rimbombano, ma piano, in sordina. Qualcuno scherza. Sono allegri, pieni di
vita.
“È la Comunità Viperina che torna a casa!”, annunciano sul portone.
(Sognando, sono
allegro e pieno di vita anch’io.)
26/03/16
Morti (da Figura di schiena, Doppiozero books, 2014)
Al posto del volto, sul lato nascosto verrebbe più
spontaneo attribuire alla figura di schiena, al massimo, una maschera, con le sue grinze espressive e
le sue smorfie, e perché quello che conta è l’effetto che suscita ciò che si
verifica davanti a lei, non chi lo prova. Anche qui, dunque, al posto di un
individuo essa incarna un essere generico: uno che potrebbe benissimo essere un
altro, che a sua volta potrebbe benissimo essere un altro ancora, e così via.
(…)
Ma che uomo è quello a cui una maschera, attribuita,
si attaglierebbe meglio di un volto, negato? Quello con la maschera sarebbe
piuttosto un uomo morto, meno per la parentela che lega le maschere ai
morti che per il fatto che dietro la maschera non importa chi c’è. Va bene chiunque.
E lo stesso dicasi del corpo: il morto è senza corpo; il morto con la maschera
non è il cadavere, che lui sì è un corpo, e solo corpo. Così la figura di
schiena è solo corpo quando interessa che sia viva e potrebbe essere di
qualsiasi materia se è indifferente che lo sia. E neanche di qualsiasi materia:
di qualsiasi materiale .
(…) sia che si rivolti, sia che continui a porgere le
terga dichiarandosi estranea al sacrificio e alla violenza “legittima”, la
figura di schiena non viene risparmiata. Chi dà la schiena è inerme, esposto al
colpo traditore, e forse lo sa.
Essere colpito alla schiena, però, è anche la pena cui
il traditore viene condannato, come contrappasso. Dürer, nel suo progetto di Monumento
ai contadini vinti, pone in cima alla colonna che si erge sopra uno
stratificato basamento, ai cui piedi stanno “mucche-pecore-maiali e così via”,
un uomo con una spada conficcata nella schiena.
Come ribellarsi, e forse di più, andarsene, chiamarsi
fuori, viene visto come un tradimento e quindi espone alla rappresaglia, alla
rabbia, alla vendetta. Colui che si vede voltare le spalle si sente umiliato,
disonorato; ciò in cui crede e che gli permette di vivere, viene da questo
gesto, più che negato, annientato, dichiarato irrilevante, pura illusione,
vaneggiamento, e quindi lui reagisce, approfitta della momentanea debolezza di
chi è (si reputa, o è reputato da colui che, correttamente, interpreta come
disprezzo il suo gesto) più forte, e lo annienta. Chi si toglie, nega e si
espone; esponendosi, chiede di essere a sua volta negato.
E la negazione definitiva, a quanto pare, è la morte.
Forse per questo, talvolta, mi fa pensare, la figura di schiena, al morto;
non allo spettro, o al doppio o all’anima o a qualsiasi altra
rappresentazione di ciò che del morto sopravvive, per lui o per gli altri, e
nemmeno al cadavere, alla spoglia o ai resti mortali, ma proprio al morto in
quanto morto e basta: uomo senza volto, e quindi senza individualità, e quindi
non più uomo; corpo mortale morto, e in quanto tale assimilabile a tutti gli
altri. Per negare questa assimilazione, per tentare di difenderne colui che ci
è caro, personalmente o socialmente, ecco la maschera, il ritratto funerario,
la fotografia nell’album di famiglia, nel portafoglio e sulla tomba.
Nome e date non bastano, è indispensabile l’effigie:
di qui la proliferazione delle immagini dei morti o dei loro simulacri in passato,
e ora la democratizzazione della sopravvivenza mediante l’immagine fotografica
e filmica che la tecnica ha finalmente concesso a tutti. Non più solo re, papi,
condottieri, magnati e uomini per qualche verso significativi, mostri e
capolavori della specie e del branco: tutti hanno diritto a essere ricordati; e
l’immagine è, del ricordo, la miccia più sicura.
Se non che la memorabilità di ogni morto tende a
trasformarsi in oblio in toto della morte. Se ogni morto permane visibile (e
dunque se tutto può essere e permanere visibile, e lo è, dal momento che
persino tutti i morti lo sono), allora è l’invisibile a scomparire, a diventare
invisibile persino nella sua stessa possibilità e pensabilità. Tutto è
visibile. È tutto chiaro. Meglio così.
1 - Paolo Uccello, Battaglia di San_Romano
(part.),National Gallery, Londra
2 - Maître de Boucicaut -tresor des histoires-bnf
3 - Miniatura Besançon iniz.XV sec. Dett
4 - Maestro del Bambino Vispo
5 - The Morgan Crusader’s Bible 1250 ca F.29 v
25/03/16
Amica in analisi
Una mia amica è
entrata in analisi per imparare a soffrire: a provare dolore, sentirlo, invece
che limitarsi a esserlo. (Farlo passare da soggetto a complemento oggetto,
penso mentre me lo dice.)
Per imparare a
esporsi all’emozione, a quella forte però, quella intensa, irresistibile, lei
che si è costruita sulla resistenza (sulla difesa a oltranza, assoluta, contro
tutto). A lasciarsi pervadere, e persino travolgere, dal sentimento. Per
provare cosa vuol dire esserne sopraffatta.
Dice che vuole
riuscire a innamorarsi; che vuole diventarne capace, costi quel che costi, ogni
volta che capiterà, con chiunque, senza preclusioni. E ti credo! Mettere delle
condizioni è già rifiutarsi. Negarlo. Cita col suo sorriso gentile, un po’
malinconico, il signor Perugina: intanto ho già imparato a amare l’amore. Gli
sta già andando incontro: già lo prova.
Una volta che
proverà anche la sofferenza, sarà fatta! Catturata per sempre. E felice, con
tutte le possibili infelicità. Glielo auguro.
(E così magari
la vedrò anche ridere. Ma ridere davvero: a cuore aperto.)
24/03/16
Una cartolina da Santa Monica
La seconda cartolina è datata
dicembre 1989 e viene da Santa Monica, che vi è rappresentata in veduta aerea.
D’acchito l’avevo scambiata per Rimini, chiedendomi chi diavolo potesse esserci
andato in quella stagione. Non conosco festaioli e tiratardi, né malinconici
dalla vena poetica che potrebbero bearsi del mare d’inverno. Ho pensato a uno
scherzo. Me ne frego di Rimini. Ma le differenze si notano subito: gli alberi
che separano i due grandi viali che costeggiano la spiaggia sono palme; alcune
crescono addirittura sulla spiaggia, che è immensa, tanto che la gente
addensata sulla battigia quasi non si distingue: puntolini che in un primo
tempo avevo creduto alghe e sporcizia depositata dalla risacca. I viali sono a
quattro corsie, il traffico è intenso ma non caotico; i parcheggi capienti,
ordinati e con spazi liberi. In primo piano, sulla sinistra, c’è un
grattacielo, forse un grande albergo, ma è l’unico; gli altri palazzi sono di
pochi piani, in genere non più di quattro o cinque. Sopra l’orizzonte, anche
qui molto alto, una striscia grigioazzurra quasi invisibile più che a una nube
fa pensare allo smog, mentre forse è solo l’effetto del contrasto con la terra:
infatti, a destra, il cielo sfuma nell’acqua senza soluzione di continuità. In
fondo potrebbe essere Rimini in un giorno di grazia. Una freccia tracciata con
la biro in alto a sinistra, a poche decine di metri dalla costa che si inarca
dolcemente, indica la casa in cui si è da poco trasferita la famiglia di L. I
miei genitori mi informano che intendono fermarsi lì per un po’ e si
raccomandano perché mi prenda cura della casa.
21/03/16
Una cartolina dalla Thailandia
La terza cartolina viene dalla Thailandia e non possono
avermela inviata che Marco e Lori. Ci sono andati nelle vacanze di Natale del
1989, prima che Marco assumesse il nuovo incarico. Incorniciata in primo piano
da rami di alberi che non conosco, l’immagine è occupata per due terzi da un
mare color lapislazzulo che lambisce una spiaggia dalla sabbia rosata che si
incurva dolcemente (anche questa: dev’essere una caratteristica delle spiagge
da cartolina). Nell’acqua ci sono una decina di imbarcazioni lunghe e sottili e
cinque nuotatori: due coppie ben distanziate tra loro e una testa che affiora
solitaria. Di acqua ce n’è in abbondanza per tutti. È calma e trasparente,
tanto bassa che sarebbe impossibile annegarci anche volendo. Peccato. Se i
componenti delle due coppie stanno vicini è perché lo desiderano. Forse sono in
luna di miele, o sposati da pochi anni come Marco e Lori, se non amanti che
magari si sono conosciuti durante il viaggio: quelli sposati da tanto di solito
non nuotano così affiancati, a meno che non si tratti di coppie anziane e già
consolidate (ma in questo caso che ci fanno in Thailandia?). Una figurina sta in
piedi sul bagnasciuga vicino al margine destro e un’altra è seduta poco più in
alto. Per il resto la spiaggia è deserta, a meno che qualcuno non sia al riparo
dei pochi ombrelloni piantati ai margini della sabbia, ai bordi della
foltissima vegetazione che incombe su di essa. Con una vegetazione del genere
perché diavolo avranno messo gli ombrelloni proprio lì? Non era meglio disporli
sulla spiaggia o vicino all’acqua? L’ombra della foresta è meno buona? O è
perché dagli alberi cadono foglie o insetti? Non ho esperienza di questi posti.
Non mi attirano, solo a guardarli mi annoio. Comunque sia, gli ombrelloni
macchiano di un inopportuno tocco di civilizzazione un quadretto che per il
resto potrebbe essere edenico. I nuotatori potrebbero benissimo essere degli
indigeni, ma gli ombrelloni indicano che sono turisti. I bungalow sono
invisibili, ma sempre gli ombrelloni suggeriscono che sono nascosti a pochi
metri (i turisti non sono propensi a camminare nella foresta, sia pure in una
foresta domata, ripulita e ammaestrata), forse in alto a destra, dove delle
macchie di terreno soleggiato tra gli alberi segnalano una radura, o una
strada. Le barche a cosa servono? Sono per la pesca o per portare gli
appassionati subacquei al di là della presumibile barriera corallina? Sono
grandi in rapporto alle misure dei nuotatori, quindi o i turisti sono tanti, o
vicino c’è anche un villaggio di pescatori. Alcuni di loro a quest’ora saranno
morti (morti in paradiso), il villaggio turistico probabilmente passato di
moda, sceso di categoria, degradato, se non addirittura scomparso. Speriamo.
19/03/16
Neve pesante
Se qualcuno fosse passato dalle nostre parti nei
giorni sbagliati, avrebbe pensato che quest’inverno non ha mai nevicato. E
invece la neve è caduta spesso, e pure abbondante; in certe occasioni anche per
alcuni giorni di seguito, con qualche pausa, ovvero per una sola giornata alla
volta, ma fitta e senza remissione. Sempre però è seguito un rialzo della
temperatura che nelle ultime ore trasformava la neve in pioggia, o che
non le permetteva di ghiacciare o di resistere ai bordi delle strade nelle montagnole
lasciate dal passaggio degli spazzaneve o create a lato di cancelli, garage o
portoni dai badili nervosi e inesperti dei privati cittadini.
E comunque era sempre neve umida, pesante, che anche
quando lasciava le strade presto sgombre, si ammassava sui tetti e sul fogliame
di cespugli e alberi ricoperti di edera e altri rampicanti o sempreverdi, e sui
rami degli altri, soprattutto dove sono più fitti o si biforcano, opprimendoli
con la sua massa pregna di acqua. Miriadi di gocce imprigionate nella rete fragile
e porosa dei fiocchi, che per un po’, o anche per ore, per giorni, riusciva a
trattenerle, resistendo al richiamo della gravità e anzi formando un sostegno
su cui veniva a posarsi quella che continuava a scendere o sarebbe scesa il
giorno dopo, fino a che il peso non avesse superato la soglia di resistenza o
di equilibrio dei supporti. A quel punto di solito l’elasticità dei rami la fa
slittare di lato e scivolare verso il basso, in nevicate posticipate e
circoscritte, mentre a un passo c’è il sole, o l’aria grigia ma sgombra. Ma può
anche capitare che il supporto si spezzi. Più l’accumulo è durato e la
pressione è stata forte, maggiori sono stati i danni.
Mai come quest’anno ho visto tanti alberi sradicati
dal suo peso o piegati con le angolazioni più varie. Mai ho visto tanti tronchi
e rami spezzati, cespugli e rovi e canneti schiacciati a terra senza più la
forza di rialzarsi. La visuale dell’interno del bosco e delle rive del fiume, o
quella della palude dal ponticello o dal camminamento dell’alzaia del Naviglio,
già favorita dal diradarsi invernale della vegetazione, si è ulteriormente
aperta, gli spazi si sono ampliati, angoli nascosti sono venuti alla luce, i
dettagli fatti più evidenti, l’insieme più preciso, il passo più propenso a
rallentare e l’occhio a vagare. E il respiro è diventato più lento, e più
profondo. Come di rinascita, ad accogliere l’aria fresca e lo spazio tutto
attorno, ma per trattenerli dentro, senza nessuna intenzione di restituirli.
15/03/16
Una cartolina dal Camerun (da Il custode, 2)
La prima cartolina che ho conservato viene dal Camerun.
L’ha spedita Giorgio nel 1988 e rappresenta le cascate del fiume Lobé. Il salto
è modesto, ma il fiume appare maestoso. Forse dipende dalla prospettiva e dalla
foltissima vegetazione in mezzo alla quale si fa strada l’acqua spumosa, che
impediscono di farsi un’idea precisa della distanza delle sponde. La foresta si
estende fino all’orizzonte, molto alto, da cui spuntano nubi grigiazzurre per
niente minacciose. Alberi e cespugli approfittano di ogni centimetro di terreno
per proliferare; alcuni emergono direttamente dall’acqua dove il livello è
basso e si formano piccole conche che si riempiono solo nelle stagioni piovose.
L’assenza totale dell’uomo e delle sue tracce conferisce all’insieme un’aura
primordiale, serena. È questo del resto l’effetto che mi fa la natura quando
non compaiono esseri animati. Considero gli alberi la perfezione. Sbaglio,
perché anche lì è tutto uno scannarsi, ma tant’è. Comunque non è per questo che
ho conservato la cartolina, e nemmeno per il messaggio maccaronico e spiritoso
di Giorgio che ne evidenzia il carattere gioioso e all’apparenza un po’ superficiale,
ammesso che la gioia possa essere superficiale. Meno ancora per una sua
presunta dignità inaugurale, che va ascritta al puro caso: è stato piuttosto
per quello che forse è un difetto di stampa, una minuscola macchia rossa che
interrompe, lacera, se non insozza, il verde cupo della foresta oltre la sponda
più lontana. Non so perché, ma questo dettaglio (questa imperfezione) continua
a colpirmi ogni volta che torno a guardare la cartolina; dovrebbe irritarmi, e
a volte lo fa. Forse l’ho conservata appunto per questo.
12/03/16
Cartolina senza scritto né indirizzo (da Il custode, 1)
C’è poi una cartolina senza
scritta né indirizzo che qualcuno deve avere acquistato ad Amsterdam. È una
cartolina d’arte, o che si pretende tale, come testimonia la scritta ART UNLIMITED che taglia a metà,
completa di indirizzo e numero telefonico, il retro immacolato. In alto, a
caratteri molto piccoli, ci sono il nome dell’autore della fotografia
riprodotta, Ed van der Elsken, il titolo e la data di esecuzione, Portugal, 1969, e tutte le indicazioni
di copyright. Potrei averla acquistata io stesso, ciò che testimonierebbe di un
mio antecedente e dimenticato interesse per l’arte che, con mia grande sorpresa
(eccetto il periodo dell’adolescenza, che non conta perché a quell’età sono
tutti stupidi, ho sempre disprezzato le cosiddette faccende dello spirito), mi
sono scoperto a coltivare dopo essere tornato nella casa di famiglia. Comunque
sia non è la bellezza che cerco, che mi lascia del tutto indifferente. La
fotografia riproduce una cripta funeraria e vuole essere divertente. Non c’è
niente di più penoso di tale volontà, e di sicuro non è per questo che l’ho
conservata. I muri della cripta sono completamente ricoperti di ossa,
accatastate in strati di circa mezzo metro separati da mensole di legno. Le
ossa sono per lo più quelle delle gambe e delle braccia, tagliate e messe
perpendicolarmente alla parete in modo che le estremità arrotondate risultino
ben allineate onde evitare pericolose sporgenze. A intervalli ancora di mezzo
metro, certo per qualche banale quanto superfluo bisogno di equilibrio
(l’equilibrio è rassicurante), sporgono invece dei teschi, come risulta dalla
prospettiva della parete di sinistra. I teschi sono disposti in modo alternato
da uno strato all’altro, così da formare delle diagonali che rompono la
monotona tirannia delle linee orizzontali e verticali o, se si preferisce, in
modo da creare dei rombi le cui diagonali disegnano tante invisibili croci.
Preferisco la prima ipotesi: certamente i monaci volevano fare qualcosa di
grazioso, a modo loro, come a indorare la pillola. Sulla sinistra, nell’angolo
in cui due pareti si incontrano, c’è una donna sorridente. Indossa una specie
di lungo grembiule di cotone verde con motivi colorati che disegnano linee
orizzontali, per dare slancio alla figura tozza, un colletto morbido
arrotondato, bianco come i grossi bottoni che scandiscono l’abito. Sopra
indossa un cardigan verde scuro (o blu) allacciato da un singolo bottone nella
rientranza tra i seni cadenti e il ventre un po’ gonfio, che ne viene messo in
risalto. Le maniche sono rimboccate sulle braccia bene in carne ma non grasse.
La donna porta degli occhiali antiquati e i capelli corti, pettinati
all’indietro, e quindi schiacciati, in alto e gonfi di riccioli sulle tempie e
le orecchie. Dimostra una cinquantina d’anni portati male e sorride esibendo
una dentatura imperfetta. Dà l’impressione di essere un po’ ebete. Forse è
ospite di qualche casa di cura portata in gita al santuario. Assomiglia a mia
madre. Cioè le assomiglierebbe se fosse più curata e elegante, con gli occhiali
giusti, i denti a posto e qualche chilo in meno. Non le assomiglia affatto
quindi, eppure è come avrebbe potuto essere mia madre se fosse stata nelle sue
condizioni. Ha un’aria di famiglia, e forse la cartolina è stata acquistata e
conservata per questo. Non vedo altra ragione plausibile.
09/03/16
Le caramelle di Rodčenko
In occasione di una vecchia mostra di Rodčenko (mi è
tornato in mente dopo averne visto l’altrieri un’altra di sole fotografie), una
delle cose che mi avevano maggiormente colpito erano state le carte per
caramelle da lui disegnate nel 1923. C’erano molte opere degne di nota, ma tra
tutte ricordavo chiaramente solo qualche fotografia, un paio di manifesti, i
tavoli e le sedie di una sala di lettura per un club operaio, e appunto quelle
cartine colorate e incorniciate, così minuscole e all’apparenza defilate in
mezzo a lavori più imponenti e certo più importanti per la storia dell’arte,
sovietica e non.
Erano proprio belle, ma, adesso che ci penso meglio, non
era solo per quello che mi sono rimaste impresse, né per la loro singolarità
all’interno del contesto disparato per generi e materiali delle opere
presentate. D’altra parte, perché stupirsi che Rodčenko abbia disegnato anche
cartine per caramelle, quando è noto che l’applicazione a tutti gli aspetti
della realtà (quasi tutti, censura e autocensura permettendo) era una delle
caratteristiche dei costruttivisti, che rifiutavano programmaticamente l’arte
“fine a se stessa”, “iuxta propria principia” (che ci siano riusciti, o anche
solo che lo volessero tutti fino in fondo, è tutta un’altra questione),
eccetera eccetera?
Non è questo che mi interessa. Ciò che mi ha colpito
invece, adesso lo so (ma solo adesso), è la coerenza impeccabile del gesto, in
un contesto e a partire da presupposti che invece, più correttamente, avrebbero
dovuto renderlo impensabile. Non la sfida però, bensì, ripeto, la coerenza.
Siamo nel ‘23, in piena NEP, le condizioni dell’economia
sono disastrose, la stragrande maggioranza della gente (del popolo) manca
persino del necessario, i contrasti politici sono tutt’altro che sopiti, i
problemi da affrontare da parte di tutti, artisti compresi, sono immensi per
quantità e gravità, tanto che anche la vita quotidiana ne risente in modo
drammatico, — e Rodčenko che fa? Disegna cartine per avvolgere caramelle.
Certo, è un aspetto secondario, minimo, delle sua
molteplice e frenetica attività (oltretutto c’è ancora sufficiente entusiasmo e
libertà, per gli artisti), ma lo fa. Non è nemmeno importante, credo, sapere
quali siano state le circostanze che l’hanno indotto a farlo (un’ordinazione,
probabilmente): importante è che lo abbia fatto, e bene.
Penso alle caramelle, un lusso per pochi, quasi un
affronto se mangiate da un rivoluzionario coscienzioso (un po’ meno da parte di
un artista, che nel lusso vive comunque: non sto a specificare in che senso, lo
si comprende facilmente; un po’ di più del normale però se lo fa in certi
periodi, quando persino gli artisti si sentono investiti da una missione
sociale e pertanto in dovere di far propri i problemi dell’urgenza e della
maggioranza di cui si pongono al servizio). Come saranno state quelle
caramelle? che forma, che colori e che sapori avranno avuto? quanta sarà stata
la produzione?
quanto saranno costate? di che ingredienti saranno state composte? chi le avrà
fatte? fabbrichette o pasticcieri memori dei tempi in cui, sia pure per pochi,
un’abbondanza c’era stata e nostalgici di un’arte che volevano mantenere in
vita? chi e quando le avrà assaporate? Quanto mi piacerebbe poterle assaggiare!
Penso, dickensianamente, a qualcuno che, un giorno,
rinuncia al pane per acquistarne una manciata; immagino che non sia uno che se
le può permettere, ma un cittadino qualsiasi (non penso a una donna, a una
mamma o una nonna col rispettivo figlio o nipote, ma proprio a un uomo, uno che
fa un lavoro qualsiasi e magari ha famiglia), che un pomeriggio le vede su un
piatto in una vetrina o con sorpresa le scopre in un vaso, sul banco di un
negozio dagli scaffali semivuoti: le guarda allibito, le desidera, fa dei
calcoli, si vergogna del proprio desiderio, vince la vergogna, fa altri
calcoli, o rifà gli stessi di prima, e poi con decisione sovrana li cancella,
chiede di che gusti sono, ne sceglie alcuni, anzi no, si affida al caso, vanno
bene tutti, le raccoglie dal banco con la mano, le mette in tasca, paga e se ne
va.
Quell’uomo sono io. Esco dal negozio, cammino un po’, mi
metto la mano in tasca, palpo il mucchietto come se volessi affidare la scelta
al tatto, o solo accarezzarlo. Poi afferro tutte le caramelle e, prima di
metterne in bocca una, le passo attentamente in rassegna. Ciò che vedo è
l’involucro. È indispensabile che sia bellissimo. Non tollererei niente di
meno.
07/03/16
Quattro apologhi fenomenologici
Vento apparente
Dicono gli esperti
marinai che certe barche a vela, come i catamarani, raggiungono la massima
velocità quando, in assenza di vento reale che le spinga, o con poco vento, è
la barca stessa a produrre, per il fatto stesso di andare, un “vento apparente”
che le imprime un’accelerazione sempre maggiore.
Onde stazionarie
In certi stretti la
frequente inversione del senso della corrente provocato dalle maree dà luogo al
fenomeno delle onde stazionarie, specie di gorghi alquanto pericolosi ben noti
ai marinai. Famose sono quelle dell’Euripo, il canale che separa l’Eubea dalla
Beozia, nel quale le spinte contrastanti delle maree invertono il senso della
corrente fino a sette volte al giorno. È in queste acque che, secondo una
leggenda, era stato abbandonato, in un’arca di legno come Mosè e Dioniso, il
piccolo Edipo. Chiunque l’abbia fatto agiva a ragion veduta: vien quasi da
rammaricarsi che gli sia andata male.
Stanze tibetane
La stanza nella
quale i monaci tibetani eseguono la cerimonia del disegno del mandala (il
quale, una volta terminato, dopo tre giorni, non sarà tanto l’immagine o la
mappa dell’universo, bensì l’universo reale), si chiama “camera della morte”.
Dunque l’universo non scompare nella camera della morte: vi viene creato.
Modeste erezioni
A volte, quando si
rimane a lungo sulla tazza e per defecare occorre fare uno sforzo non intenso
ma durevole, è come se anche il pene vi partecipasse, o ne godesse il benefico
influsso, sotto forma di una modesta quanto involontaria erezione.
03/03/16
Destino sinistro (Se mi avesse letto la destra sarebbe stata un’altra musica)
Una giovane donna con un’infarinatura di chiromanzia,
senza che io glielo chiedessi e prima che infastidito la ritirassi, mi ha
leggiucchiato la mano sinistra, indicandomi le varie linee e il loro
significato. A parte quella dell’amore, piuttosto profonda ma tristemente
uniforme, sono tutte alquanto brevi e superficiali, da quella della vita a
quella del lavoro a quella dell’intelligenza, che però, curiosamente, verso la
metà si biforca: in altre parole, mi par di capire, io sarei un emerito cretino dalla
personalità scarsa e per di più divisa, con prospettive professionali incerte e
comunque insoddisfacenti, e che inoltre inspiegabilmente sopravvive a se
stesso, mentre avrebbe dovuto essere già morto da parecchio tempo (diagnosi
sulla quale, con mia sorpresa, non trovo nulla da ridire). In compenso il
destino mi avrebbe riservato un amore forse unico ma, mi piace immaginare,
grande, addirittura eterno, perché no? Peccato che la mia dabbenaggine mi abbia
sempre impedito di riconoscerlo.