26/06/16

La via del taschino (Arles, 1996 ca., Disfarmer)


Le lastre della piazza abbrustoliscono le suole dei miei mocassini, il vento fonato dalle viuzze laterali miscela un’aria ancor più irrespirabile e i gradini della cattedrale, con il subdolo artificio dell’ombra, complottano con le emorroidi che ancora non ho perché anch’esse usufruiscano del diritto alla vita, che certo non si può negare a nessuno. I ragazzi con gli skate-board falliscono tutte le acrobazie tranne quella, troppo facile, di aumentare il mio nervosismo, del quale i tamburi di quattro valenti artisti di strada già scandivano il ritmo e la bella umanità assiepata fuori dai caffè e attorno alla fontana costituisce il degno fondale.
Mi alzo di scatto, incurante del rischio di sciatalgia, e mi dirigo verso il cortile dell’arcivescovado con passo sempre più deciso, impavido, glorioso. Gli eroi devono sentirsi così. E come un eroe mi accolgono le arcate dell’ingresso monumentale, che imbocco a busto eretto, con la camicia aperta, il sacchetto di cellofan in una mano e la sigaretta nell’altra. Attraverso il cortile, spengo la sigaretta, non prima di aver tirato due lunghe boccate consecutive, e apro la porta che conduce al chiostro. In cima alle scale, porgo il biglietto alla sorvegliante, brutta come tutte le altre, ma come tutte le altre felice di vedere finalmente un visitatore; ricambio il suo sorriso che ho voglia di ricambiare, apro un’altra porta e entro nel chiostro.
Il chiostro, manco a dirlo, è splendido ma non mi va di visitarlo come merita: faccio solo un giro indolente, godendomi la frescura e il silenzio che per statuto ogni chiostro deve offrire e gettando qua e là uno sguardo disimpegnato alle colonne e ai capitelli, che forse proprio per questo mi appaiono bellissimi. Faccio dunque un altro giro prima di raggiungere la sala della prima mostra, dove mi colpisce il lavoro di una giovane californiana, Jennifer Bornstein, col suo bel viso che appare in tutte le immagini, scattate come polaroid per strada e in altri luoghi pubblici, accanto ai clienti di un bar, a un fruttivendolo o con un gruppo di boyscout. Non so se hanno qualcosa a che fare con la sua esperienza quotidiana, ma mi piace l’idea di questi “autoritratti in compagnia” e mi piace l’idea di persona che trasmettono.


Mi piacerebbero allo stesso modo in un altro momento e in un altro contesto? Non lo so e non mi importa. Conta dove e come accadono le cose, se si è freddi o già caricati, e di che tipo è la carica; conta l’emozione, se è improvvisa e invade completamente o cresce un po’ per volta, predisposta (preceduta e preparata) da altri episodi che hanno affinato la percezione, schiuso e messo in moto la testa, porosa e mobile, prensile ma coi succhi gastrici cerebrali già pronti ad aggredire e trasformare, le microfornaci ghiandolari che hanno già messo in circolazione le prime avanguardie degli ormoni; se il corpo è sveglio e coopera in toto o viceversa è stanco, anche sfinito, e si ritira perché tutto possa concentrarsi in un unico luogo e secondo una modalità dominante; e poi la qualità dell’emozione, se è silenziosa, estatica, scollata da qualsiasi forma di pensiero o intrisa di parole, ad esse consustanziale, e da che parte vengono e dove vanno queste parole, fermo restando che ogni emozione ha il suo pensiero e ogni pensiero la sua emozione, non importa quanto formulata o formulabile. Niente è astratto. Tutto ha luogo.

Salgo le scale e mi trovo in una saletta con le foto di questo americano a me ignoto, anche se il nome non mi sembra del tutto sconosciuto, disposte in piccoli gruppi, quasi sequenze, su due pareti ad angolo. Le guardo, sono ritratti di persone riprese sullo sfondo nero di un muro o di un telo, a mezzo busto o a figura intera, da sole o in piccoli gruppi di famigliari o di amici, che, dopo un po’ che le osservo, cominciano a raccontarmi storie e queste storie io le conosco, le ho già viste e sentite, anche se, guardando le foto, mi trovo disposto a seguirle ancora, trovo che mi interessano e mi piacciono e mi divertono e commuovono.
Più che promanare da queste figure anonime, le storie convergono su di esse dotandole di una identità che forse non è quella che loro credono di avere, ma che a me è in qualche modo nota, come se io le conoscessi già tutte e di ciascuna mi fossero familiari carattere e sentimenti e ne avessi potuto seguire passo dopo passo il decorso della vita. E così è, infatti, solo che caratteri e eventi piovono su di esse, e le intridono, provenienti dal mio fin troppo banale immaginario filmico e letterario; con la differenza tuttavia che, se ognuna di esse è un film o un racconto che magari anch’io ho già dimenticato, nondimeno resta se stessa in modo così forte e caratterizzato che la sua storia appare egualmente come nuova, modificata per qualche verso decisivo, perché perfettamente coincidente con ognuna di esse, di ognuna sua e soltanto sua.
Eppure, per come sono fatte, le fotografie non hanno intenzioni narrative, sono normali foto da studio, “documentarie”, “ufficiali”; lo sfondo è neutro, le pose non sono marcate, a parte un paio goliardiche e guascone di giovani amici; in genere, le persone ritratte indossano i vestiti della festa, niente indica le loro professioni, nessun oggetto o particolare ne suggerisce in modo chiaro i tratti sociali o psicologici, e la loro singolarità si manifesta solo in quelli somatici e in qualche gesto minimo, imprevisto, come quello di chi non sta nel “contegno”, non riesce ad aderirvi del tutto per esuberanza o disagio, per sottrazione o supplemento, come quello del figlioletto in piedi davanti al padre che con la mano destra portata indietro gli stringe i pantaloni all’altezza del ginocchio, mentre il padre appoggia la sinistra alla spalla del figlio ma nasconde a sua volta la destra, con tutto l’avambraccio dietro la propria schiena.
Il pathos, se c’è, traspare anch’esso per sottrazione, o di sbieco, non essendo l’espressività cercata né dal fotografo né dal fotografato, o da quest’ultimo, al massimo, quella, comune, dell’immagine di sé che lui vuole dare o che crede che ci si aspetti da lui quando compare in una foto di rappresentanza, che però il fotografo è stato bravo a smorzare, se non a cancellare. Ma ogni foto, proprio in quanto di rappresentanza, è già presa nella rappresentazione, e in una rappresentazione ufficiale, sociale, che è già fatta di storie, e queste storie sono altre foto, romanzi, film, ed è da lì che convergono su ciascuna di esse e impongono la loro necessità. Necessità tanto più forte in quanto non parrebbe che queste foto quelle storie le vogliano narrare. Il rifiuto di raccontare risulta in tutta la sua evidenza se le confronto con quelle di Walker Evans e di Dorothea Lange, di pochi anni precedenti, che invece non solo molte storie le hanno prodotte, sotto forma di articoli, resoconti, ricerche e memorie, per non parlare del libro di Agee, ma erano esse stesse tese a narrare storie, originali, intense, significative e persino epiche.
Queste invece sono storie stereotipe, come quelle che raccontano molti artisti posteriori, ma anche qui con sostanziali differenze. Cindy Sherman, per esempio, recitando tutti i ruoli delle proprie immagini, si autodefinisce glacialmente, senza ombra di pathos, come stereotipo tra gli stereotipi (per dirla con Rosalind Krauss), ma in questo modo arriva a farsi definire dal proprio lavoro come colei che l’ha progettato, messo in scena e prodotto, come Cindy Sherman e nessun’altra; costoro invece stereotipi lo saranno stati essendo stati solo se stessi (quanto meno nelle proprie convinzioni e, credo, in quelle di Disfarmer, del quale al momento non so niente), ed è appunto questo che reintroduce il pathos nelle loro immagini che di per sé ne sono prive. Infatti, se la Sherman, partendo dall’immaginario, (ri)costruisce frammenti di storie nuove che traggono origine dalla ripetizione delle vecchie, prese in quanto genere, questi personaggi sono delle storie generiche ancor prima che vengano narrate, prima dell’effettivo svolgimento, nella loro singolarità, o tali sono diventati, in una dimensione che, per me ora, prescinde completamente dal presente, saltando a piè pari dal passato, remoto o prossimo, al futuro anteriore. Non sono: saranno stati.


Mi spiego: queste figure richiamano storie perché abbiamo visto tutti i loro film e letto tutti i loro racconti e romanzi, ma non si risolvono in essi. Non ne sono la concrezione, o l’emanazione, quanto piuttosto la fonte, ma una fonte che ci appare come tale solo dopo e perché quelle storie già le conosciamo. Non sono espressive di per sé: lo saranno state perché lo sono diventate. La loro forza e il loro incanto derivano da questo doppio passato, in cui il primo (il loro) diventa tale solo in seguito al secondo (le storie che conosciamo), vale a dire per il fatto che non intuiamo la fine, come futuro inscritto, ma la sappiamo, come storia conclusa di qualcuno che tuttavia, in quanto singolo, continua a restarci sconosciuto e che solo adesso cominciamo a conoscere. Il noto, anziché riassorbire il singolo nel tipico, e quindi cancellarlo in quanto tale, gli restituisce la sua parte di ignoto, cioè la sua individualità, rafforzata da ciò che siamo venuti a sapere. Nessuno diventa, o ritorna, simbolo o esemplare tipico, e anzi la storia stessa ricade nell’immanenza di ciascuno, venendone rivitalizzata, rinnovata. Da storia di serie B quale era in origine, diventa, per la prima volta, di serie A.


Ne accenno qualcuna, a dispetto del rischio che l’accenno torni a proiettarle nella serie di partenza. C’è la coppia di amiche: quella con il carattere forte all’apparenza, ma in realtà solo capriccioso, e lo sguardo ancora aperto ma che si intuisce con un fondo maligno, che osserva di sbieco avendo voltato la testa di tre quarti nonostante mantenga le spalle alte e dritte, mentre l’amica fissa davanti a sé con occhi fiduciosi e un viso dolce, paziente, che indica come sia destinata per tutta la vita a recitare la parte della confidente, a fare da parafulmine, schiavetta e consolatrice dell’amica più bella e fortunata, capace di trovare una scusa anche alle sue peggiori nefandezze e felice di accoglierla, infine, nella propria casa di zitella rimasta tale per colpa sua, perché proprio lei le avrà rubato il suo primo ragazzo mai dimenticato, così, per sfizio, per lasciarlo quasi subito, distrutto e pronto ad arruolarsi o ad andare a cercare fortuna, trovandola magari, nella grande città, per gettarsi tra le braccia del ricco giovanotto che ben presto la tradirà, ricambiato con sostituti sempre più squallidi fino a quando, dopo il quarto divorzio, si ritroverà con l’amica di un tempo come unica speranza di salvezza, povera e sola, imbruttita proprio dai tratti che da ragazza la rendevano bella, diventati ora la forma stessa e la rivelazione del suo sfacelo. Ma c’è una variante, che dice che l’amica dolce invece si sposa, per ripiego, col bravo ragazzo imbranato che però l’età adulta trasforma in uomo bello e capace e sempre innamorato di lei, l’unica che lo ha accolto quando tutte quelle che ora lo cercano lo avevano respinto, vive felice in una bella casa e aiuta in maniera discreta l’amica caduta in rovina ma ancora bella, che però non le perdona questo successo e tenta, riuscendovi, di trascinarla nella propria sconfitta, dalla quale solo lei risorge quando l’ex giovanotto emigrato ritorna in paese carico di soldi e se la sposa, questa volta per sempre. I buoni è giusto che soffrano.

Poi c’è la foto dell’ochetta carina e sorridente che finirà alcolizzata e quella bellissima della mamma con le quattro figliolette che sciorinano il repertorio completo dello sguardo desolato, tra lo sgomento e un dolore che le bimbe già sembrano provare senza ancora saperlo, esibendo contemporaneamente le varie tappe dell’infanzia della madre come a illustrare la genesi del suo. E un’altra, che forma con quest’ultima un dittico, con madre e figlia signorina, entrambe con gli occhi chiarissimi, che nella madre tradiscono una follia già compiuta, per quanto ancora non manifesta negli atti. In un’altra ancora sono ritratte a figura intera due ragazze, una decorata di nastri come il palazzo di Ceausescu, con una mano posata nell’altra sul grembo, la testa leggermente piegata a sinistra e la bocca a cuoricino un po’ annoiata, mentre la seconda, più bassa e bruttina, tiene le mani dietro la schiena e ha una bocca larga che accenna un sorriso che contrasta con lo sguardo che mi sembra un po’ triste, anche se in fondo luminoso: un’amicizia che non può durare, perché la prima diventerà una maestra sempre troppo sostenuta, sbertucciata neanche troppo di nascosto dagli scolari e corteggiata dai colleghi, tra i quali tuttavia non troverà nessuno degno di lei, mentre la seconda sposerà un contadino che le infliggerà un nugolo di figli e altrettanti fastidi, in parte compensati dalle soddisfazioni che le daranno un paio di essi che si faranno strada nella vita, anche se il suo preferito, il penultimo, morirà in Vietnam.
E infine (ma è solo per mancanza di tempo: sto scrivendo appoggiato a una finestrella che dà sul terrazzo che sovrasta il chiostro e, volendo, potrebbe condurre ai tetti dell’arcivescovado e da lì a quelli della cattedrale, e, siccome i cataloghi sono finiti, faccio avanti e indietro dalle foto per verificare i particolari, suscitando non so se allarme o curiosità nella custode) c’è la bellissima coppia di anziani a figura intera, entrambi con gli occhiali: lui col braccio destro incamiciato abbandonato lungo il fianco, il farfallino dignitoso ma non elegante e la testa un po’ inclinata verso la sua sinistra, quasi ad andare incontro ai capelli di lei; lei, molto più bassa, pur senza alzarsi sulla punta dei piedi, sembra allungarsi per riuscire a far passare il braccio destro sulle spalle del marito, con la mano che a malapena riesce a cadere sul colletto sfiorando l’omero, adorna di una collana di grosse perle finte sotto la quale ne è appesa un’altra, di corda e col nodo ben marcato, che regge non so se un orologio a cipolla o un medaglione; entrambi, ma soprattutto lui, con uno sguardo di infinita dolcezza (o tenerezza: non sono la stessa cosa?), che però lei eguaglia e supera col gesto dell’altra mano, la sinistra, che, all’ultimo momento, con subitaneo automatismo e oltre ogni intenzione di significato, ma appunto per questo con intensità decisiva, va a raggiungere, quasi ad aggrapparvisi, il taschino della camicia del marito e, sotto, il cuore.
Mi piacerebbe, poiché ogni storia ne genera altre e quelle che ci piacciono vorremmo sempre ripeterle, che, da vecchi, una foto del genere fossimo capaci di realizzarla anch’io e mia moglie. Solo che, a parte il fatto che noi siamo incomparabilmente più belli, Angela, specie coi tacchi, è più alta di me, per cui le sarebbe impossibile riproporre la postura della donna; ma non dubito che la sua mano la via del taschino riuscirebbe a trovarla lo stesso.


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