Le lastre della piazza abbrustoliscono le suole dei miei
mocassini, il vento fonato dalle viuzze laterali miscela un’aria ancor più
irrespirabile e i gradini della cattedrale, con il subdolo artificio
dell’ombra, complottano con le emorroidi che ancora non ho perché anch’esse
usufruiscano del diritto alla vita, che certo non si può negare a nessuno. I
ragazzi con gli skate-board falliscono tutte le acrobazie tranne quella, troppo
facile, di aumentare il mio nervosismo, del quale i tamburi di quattro valenti
artisti di strada già scandivano il ritmo e la bella umanità assiepata fuori
dai caffè e attorno alla fontana costituisce il degno fondale.
Mi alzo di scatto, incurante del rischio di sciatalgia, e
mi dirigo verso il cortile dell’arcivescovado con passo sempre più deciso,
impavido, glorioso. Gli eroi devono sentirsi così. E come un eroe mi accolgono
le arcate dell’ingresso monumentale, che imbocco a busto eretto, con la camicia
aperta, il sacchetto di cellofan in una mano e la sigaretta nell’altra.
Attraverso il cortile, spengo la sigaretta, non prima di aver tirato due lunghe
boccate consecutive, e apro la porta che conduce al chiostro. In cima alle
scale, porgo il biglietto alla sorvegliante, brutta come tutte le altre, ma
come tutte le altre felice di vedere finalmente un visitatore; ricambio il suo
sorriso che ho voglia di ricambiare, apro un’altra porta e entro nel chiostro.
Il chiostro, manco a dirlo, è splendido ma non mi va di
visitarlo come merita: faccio solo un giro indolente, godendomi la frescura e
il silenzio che per statuto ogni chiostro deve offrire e gettando qua e là uno
sguardo disimpegnato alle colonne e ai capitelli, che forse proprio per questo
mi appaiono bellissimi. Faccio dunque un altro giro prima di raggiungere la
sala della prima mostra, dove mi colpisce il lavoro di una giovane
californiana, Jennifer Bornstein, col suo bel viso che appare in tutte le
immagini, scattate come polaroid per strada e in altri luoghi pubblici, accanto
ai clienti di un bar, a un fruttivendolo o con un gruppo di boyscout. Non so se
hanno qualcosa a che fare con la sua esperienza quotidiana, ma mi piace l’idea
di questi “autoritratti in compagnia” e mi piace l’idea di persona che
trasmettono.
Mi piacerebbero allo stesso modo in un altro momento e in
un altro contesto? Non lo so e non mi importa. Conta dove e come accadono le
cose, se si è freddi o già caricati, e di che tipo è la carica; conta
l’emozione, se è improvvisa e invade completamente o cresce un po’ per volta,
predisposta (preceduta e preparata) da altri episodi che hanno affinato la
percezione, schiuso e messo in moto la testa, porosa e mobile, prensile ma coi
succhi gastrici cerebrali già pronti ad aggredire e trasformare, le
microfornaci ghiandolari che hanno già messo in circolazione le prime
avanguardie degli ormoni; se il corpo è sveglio e coopera in toto o viceversa è
stanco, anche sfinito, e si ritira perché tutto possa concentrarsi in un unico
luogo e secondo una modalità dominante; e poi la qualità dell’emozione, se è
silenziosa, estatica, scollata da qualsiasi forma di pensiero o intrisa di
parole, ad esse consustanziale, e da che parte vengono e dove vanno queste
parole, fermo restando che ogni emozione ha il suo pensiero e ogni pensiero la
sua emozione, non importa quanto formulata o formulabile. Niente è astratto.
Tutto ha luogo.
Salgo le scale e mi trovo in una saletta con le foto di
questo americano a me ignoto, anche se il nome non mi sembra del tutto
sconosciuto, disposte in piccoli gruppi, quasi sequenze, su due pareti ad
angolo. Le guardo, sono ritratti di persone riprese sullo sfondo nero di un
muro o di un telo, a mezzo busto o a figura intera, da sole o in piccoli gruppi
di famigliari o di amici, che, dopo un po’ che le osservo, cominciano a
raccontarmi storie e queste storie io le conosco, le ho già viste e sentite,
anche se, guardando le foto, mi trovo disposto a seguirle ancora, trovo che mi
interessano e mi piacciono e mi divertono e commuovono.
Più che promanare da queste figure anonime, le storie convergono
su di esse dotandole di una identità che forse non è quella che loro credono di
avere, ma che a me è in qualche modo nota, come se io le conoscessi già tutte e
di ciascuna mi fossero familiari carattere e sentimenti e ne avessi potuto
seguire passo dopo passo il decorso della vita. E così è, infatti, solo che
caratteri e eventi piovono su di esse, e le intridono, provenienti dal mio fin
troppo banale immaginario filmico e letterario; con la differenza tuttavia che,
se ognuna di esse è un film o un racconto che magari anch’io ho già
dimenticato, nondimeno resta se stessa in modo così forte e caratterizzato che
la sua storia appare egualmente come nuova, modificata per qualche verso
decisivo, perché perfettamente coincidente con ognuna di esse, di ognuna sua e
soltanto sua.
Eppure, per come sono fatte, le fotografie non hanno
intenzioni narrative, sono normali foto da studio, “documentarie”, “ufficiali”;
lo sfondo è neutro, le pose non sono marcate, a parte un paio goliardiche e
guascone di giovani amici; in genere, le persone ritratte indossano i vestiti
della festa, niente indica le loro professioni, nessun oggetto o particolare ne
suggerisce in modo chiaro i tratti sociali o psicologici, e la loro singolarità
si manifesta solo in quelli somatici e in qualche gesto minimo, imprevisto,
come quello di chi non sta nel “contegno”, non riesce ad aderirvi del tutto per
esuberanza o disagio, per sottrazione o supplemento, come quello del
figlioletto in piedi davanti al padre che con la mano destra portata indietro
gli stringe i pantaloni all’altezza del ginocchio, mentre il padre appoggia la
sinistra alla spalla del figlio ma nasconde a sua volta la destra, con tutto
l’avambraccio dietro la propria schiena.
Il pathos, se c’è, traspare anch’esso per sottrazione, o
di sbieco, non essendo l’espressività cercata né dal fotografo né dal
fotografato, o da quest’ultimo, al massimo, quella, comune, dell’immagine di sé
che lui vuole dare o che crede che ci si aspetti da lui quando compare in una
foto di rappresentanza, che però il
fotografo è stato bravo a smorzare, se non a cancellare. Ma ogni foto, proprio
in quanto di rappresentanza, è già presa nella rappresentazione, e in una rappresentazione ufficiale, sociale, che
è già fatta di storie, e queste storie sono altre foto, romanzi, film, ed è da
lì che convergono su ciascuna di esse e impongono la loro necessità. Necessità
tanto più forte in quanto non parrebbe che queste foto quelle storie le
vogliano narrare. Il rifiuto di raccontare risulta in tutta la sua evidenza se
le confronto con quelle di Walker Evans e di Dorothea Lange, di pochi anni
precedenti, che invece non solo molte storie le hanno prodotte, sotto forma di
articoli, resoconti, ricerche e memorie, per non parlare del libro di Agee, ma
erano esse stesse tese a narrare storie, originali, intense, significative e
persino epiche.
Queste invece sono storie stereotipe, come quelle che
raccontano molti artisti posteriori, ma anche qui con sostanziali differenze.
Cindy Sherman, per esempio, recitando tutti i ruoli delle proprie immagini, si
autodefinisce glacialmente, senza ombra di pathos, come stereotipo tra gli
stereotipi (per dirla con Rosalind Krauss), ma in questo modo arriva a farsi
definire dal proprio lavoro come colei che l’ha progettato, messo in scena e
prodotto, come Cindy Sherman e nessun’altra; costoro invece stereotipi lo
saranno stati essendo stati solo se stessi (quanto meno nelle proprie
convinzioni e, credo, in quelle di Disfarmer, del quale al momento non so
niente), ed è appunto questo che reintroduce il pathos nelle loro immagini che
di per sé ne sono prive. Infatti, se la Sherman, partendo dall’immaginario,
(ri)costruisce frammenti di storie nuove che traggono origine dalla ripetizione
delle vecchie, prese in quanto genere, questi personaggi sono delle storie generiche ancor prima che vengano narrate, prima
dell’effettivo svolgimento, nella loro singolarità, o tali sono diventati, in una dimensione che, per me ora, prescinde
completamente dal presente, saltando a piè pari dal passato, remoto o prossimo,
al futuro anteriore. Non sono: saranno stati.
Mi spiego: queste figure richiamano storie perché abbiamo
visto tutti i loro film e letto tutti i loro racconti e romanzi, ma non si
risolvono in essi. Non ne sono la concrezione, o l’emanazione, quanto piuttosto
la fonte, ma una fonte che ci appare come tale solo dopo e perché quelle
storie già le conosciamo. Non sono
espressive di per sé: lo saranno state perché lo sono diventate. La loro forza
e il loro incanto derivano da questo doppio passato, in cui il primo (il loro)
diventa tale solo in seguito al
secondo (le storie che conosciamo), vale a dire per il fatto che non intuiamo
la fine, come futuro inscritto, ma la sappiamo, come storia conclusa di
qualcuno che tuttavia, in quanto singolo, continua a restarci sconosciuto e che
solo adesso cominciamo a conoscere. Il noto, anziché riassorbire il singolo nel
tipico, e quindi cancellarlo in quanto tale, gli restituisce la sua parte di
ignoto, cioè la sua individualità, rafforzata da ciò che siamo venuti a sapere.
Nessuno diventa, o ritorna, simbolo o esemplare tipico, e anzi la storia stessa
ricade nell’immanenza di ciascuno, venendone rivitalizzata, rinnovata. Da
storia di serie B quale era in origine, diventa, per la prima volta, di serie
A.
Ne accenno qualcuna, a dispetto del rischio che l’accenno
torni a proiettarle nella serie di partenza. C’è la coppia di amiche: quella
con il carattere forte all’apparenza, ma in realtà solo capriccioso, e lo
sguardo ancora aperto ma che si intuisce con un fondo maligno, che osserva di
sbieco avendo voltato la testa di tre quarti nonostante mantenga le spalle alte
e dritte, mentre l’amica fissa davanti a sé con occhi fiduciosi e un viso
dolce, paziente, che indica come sia destinata per tutta la vita a recitare la parte
della confidente, a fare da parafulmine, schiavetta e consolatrice dell’amica
più bella e fortunata, capace di trovare una scusa anche alle sue peggiori
nefandezze e felice di accoglierla, infine, nella propria casa di zitella
rimasta tale per colpa sua, perché proprio lei le avrà rubato il suo primo
ragazzo mai dimenticato, così, per sfizio, per lasciarlo quasi subito,
distrutto e pronto ad arruolarsi o ad andare a cercare fortuna, trovandola
magari, nella grande città, per gettarsi tra le braccia del ricco giovanotto
che ben presto la tradirà, ricambiato con sostituti sempre più squallidi fino a
quando, dopo il quarto divorzio, si ritroverà con l’amica di un tempo come
unica speranza di salvezza, povera e sola, imbruttita proprio dai tratti che da
ragazza la rendevano bella, diventati ora la forma stessa e la rivelazione del
suo sfacelo. Ma c’è una variante, che dice che l’amica dolce invece si sposa,
per ripiego, col bravo ragazzo imbranato che però l’età adulta trasforma in
uomo bello e capace e sempre innamorato di lei, l’unica che lo ha accolto
quando tutte quelle che ora lo cercano lo avevano respinto, vive felice in una
bella casa e aiuta in maniera discreta l’amica caduta in rovina ma ancora
bella, che però non le perdona questo successo e tenta, riuscendovi, di
trascinarla nella propria sconfitta, dalla quale solo lei risorge quando l’ex
giovanotto emigrato ritorna in paese carico di soldi e se la sposa, questa
volta per sempre. I buoni è giusto che soffrano.
E infine (ma è solo per mancanza di tempo: sto scrivendo
appoggiato a una finestrella che dà sul terrazzo che sovrasta il chiostro e,
volendo, potrebbe condurre ai tetti dell’arcivescovado e da lì a quelli della
cattedrale, e, siccome i cataloghi sono finiti, faccio avanti e indietro dalle
foto per verificare i particolari, suscitando non so se allarme o curiosità
nella custode) c’è la bellissima coppia di anziani a figura intera, entrambi
con gli occhiali: lui col braccio destro incamiciato abbandonato lungo il
fianco, il farfallino dignitoso ma non elegante e la testa un po’ inclinata
verso la sua sinistra, quasi ad andare incontro ai capelli di lei; lei, molto
più bassa, pur senza alzarsi sulla punta dei piedi, sembra allungarsi per
riuscire a far passare il braccio destro sulle spalle del marito, con la mano
che a malapena riesce a cadere sul colletto sfiorando l’omero, adorna di una
collana di grosse perle finte sotto la quale ne è appesa un’altra, di corda e
col nodo ben marcato, che regge non so se un orologio a cipolla o un
medaglione; entrambi, ma soprattutto lui, con uno sguardo di infinita dolcezza
(o tenerezza: non sono la stessa cosa?), che però lei eguaglia e supera col
gesto dell’altra mano, la sinistra, che, all’ultimo momento, con subitaneo
automatismo e oltre ogni intenzione di significato, ma appunto per questo con
intensità decisiva, va a raggiungere, quasi ad aggrapparvisi, il taschino della
camicia del marito e, sotto, il cuore.
Mi piacerebbe, poiché ogni storia ne genera altre e quelle
che ci piacciono vorremmo sempre ripeterle, che, da vecchi, una foto del genere
fossimo capaci di realizzarla anch’io e mia moglie. Solo che, a parte il fatto
che noi siamo incomparabilmente più belli, Angela, specie coi tacchi, è più
alta di me, per cui le sarebbe impossibile riproporre la postura della donna;
ma non dubito che la sua mano la via del taschino riuscirebbe a trovarla lo
stesso.
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