Prima di
uscire dall’utero ci penso più di una volta e infine decido che, per quanto
dipende da me, da lì io non mi muovo: essere originale è l’ultima delle mie
preoccupazioni. Mia madre, il dottore e tutti gli astanti, invece, non
condividono questa mia certamente bieca propensione allo statu quo ed anzi non
vedono l’ora, per ragioni tutte loro che non mi sogno di discutere, di ammirare
il mio bel muso e di correre ciascuno al proprio letto. È da ieri sera che sono
tutti in affanno a causa mia ed ora, a notte inoltrata, cominciano a
spazientirsi, e non si sforzano nemmeno di nasconderlo. Mia madre, donna di
esemplare correttezza, è costernata, tanto da non badare più, o quasi, agli
atroci dolori che la mia indole vendicativa le infligge, con precocissimo ma
inequivocabile preannuncio della futura vocazione, ad arte: la vergogna di non
saper concepire, che le aveva avvelenato i primi tre mesi di matrimonio
nell’ingenua presunzione che dipendesse da lei far centro al primo colpo,
ritorna adesso, nel momento che doveva segnare la sua apoteosi, aggravata dal
protrarsi dell’attesa e della fatica di tutta questa buona gente che è qui solo
per aiutarla.
Non si
resiste in questa stanza: i muri sono bollenti, l’aria irrespirabile nonostante
la finestra spalancata che invece di portare sollievo convoglia solo altra afa
e umidità, la somma degli afrori si incolla come una placca solida alle mucose
delle narici e la forfora nei capelli bagnati ne approfitta per dar vita ad uno
spettacolo tutto suo di metamorfosi iridescenti che tuttavia passa
ingiustamente inosservato, e fra poco, col sole, entreranno anche il calore
aggiunto di quello che si profila come il giorno più torrido dell’anno e la
polvere della strada provinciale non ancora asfaltata ad ostacolare ulteriormente
i movimenti e le comunicazioni, appiccicandosi ai corpi sudati e impastando
bronchi e palati. Tutto, mi par di
capire, mi sollecita a muovermi e congiura perché mi sbrighi, solo che io, perfettamente assuefatto a questa
immobilità quasi minerale, non mi sento affatto obbligato.
Ogni
movimento, anche il più piccolo, mi procura sofferenze per le quali non ho
letteralmente parole (of course), specie alla testa, che sembra dilatarsi
sempre più ad ogni nuova pressione contro l’inguine di mia madre, che ora si
lamenta con una teatralità che la sua comprovata capacità di sopportazione non
avrebbe mai lasciato supporre, ma non per questo desiste dall’assecondare con
tutte le sue forze residue quello che immagina un desiderio anche mio e
addirittura mi supplica a piena voce di avere pietà di lei chiamandomi
curiosamente con un nome che non mi appartiene e che, accetto scommesse, non mi
apparterrà mai: un nome di femmina, Amelia, che già da solo, se la mia
decifrazione è corretta, basterebbe a dissuadermi dal nascere per sempre. Per
un attimo tuttavia mi illudo che si tratti di qualcun altro della cui
provvidenziale compagnia finora non m’ero avveduto e con affrettato senso di
liberazione penso che sia lui, cioè lei, la vera causa di tutta l’indecorosa messinscena,
per cui cerco di trarmi da parte schiacciandomi ancor più contro l’inguine, al
diavolo il dolore!, per farle strada. Si accomodi, le cedo gratis la
primogenitura, purché questa storia finisca in fretta.
Per tutto
ringraziamento invece mia madre, come chi ha ormai abbattuto anche l’ultima
resistenza del pudore, si esibisce in un vocalizzo prolungato che fa illuminare
di colpo tutte le stanze da letto della via: alle finestre e sui balconi, ai
pochi insonni già esasperati dal barometro si aggiungono consorti che reclamano
le ultime notizie e il flagello dei figli, che però vengono prontamente, con le
buone o con le cattive, rispediti a letto. Tutti gli abitanti del cortile
interno si ammassano lungo il ballatoio a ringhiera, ma vengono respinti sulla porta
dalla padrona di casa, la nonna paterna, che prima tuttavia non perde
l’occasione di ricordare agli apprensivi curiosi come lei di figli ne abbia
fatti sette senza che nessuno se ne accorgesse, si può dire, e comunque con ben
altra dignità: i testimoni non mancano e non mancano di darle ragione con
sospiri di comprensione. I tempi cambiano.
Dalla
finestra di fronte, all’altro lato della provinciale, un’amica di mia madre, in
qualità di fresca esecutrice di un’identica performance che, a giudicare dal risultato
che proprio ora le sta massacrando il seno, avrebbe potuto con evidente
profitto risparmiare a se stessa e al mondo intero, offre tutto l’aiuto che la
sua recente esperienza può assicurare, certo pensando che le altre madri col
tempo hanno finito per dimenticare, aiuto che il dottore in persona si incarica
di respingere con la sua abituale, colorita cortesia, che solo gli sprovveduti
scambiano per una sfilza irriferibile di bestemmie. Se entra ancora qualcuno in
questa porca stanza se ne va lui: altro che salvare il bambino!, qui con questa
porca afa, si crepa tutti soffocati. Quelli che non c’entrano facciano lo
stramaledetto favore di sloggiare immediatamente, a cominciare da quelle oche
delle zie più giovani che impediscono e basta, loro, i loro pruriti e il loro
saformento di rosario. Il mio aspirante padre, al quale l’accesso, come da
tradizione, era stato tassativamente vietato fin dal principio senza che lui
avesse niente da ridire, informato che non c’è nessun pericolo immediato torna
ad accudire al suo altro primogenito, un tornio sistemato provvisoriamente in
solaio, al quale stava preparando tutto un magnifico corredo di punte, maschere
e guide per allentare la tensione in modo proficuo, ma che aveva abbandonato
alle prime urla della partoriente, la quale finalmente, proprio in virtù dello
scompiglio provocato, riacquista il proprio controllo e chiede scusa a tutti,
che adesso va meglio, che sta benissimo anzi.
Rassicurata
ma in qualche modo delusa, la gente sulla porta evacua senza fretta, molte
finestre tornano a spopolarsi e tutte le luci a spegnersi. Il dottore
approfitta della pausa per lasciar cadere il suo quintale e passa in una
poltrona e per illustrare alle quattro donne rimaste, – oltre alla diretta
interessata e alla nonna succitata (l’altra è bloccata a casa sua da un
improvviso attacco di terrore: terrore della vecchiaia probabilmente),
l’ostetrica e una vecchia zia di secondo grado, una zitella esageratamente
classica per secchezza e acidità che, per non aver potuto generare in proprio,
è diventata specialista nell’assistenza ai parti delle innumerevoli sorelle e
nipoti e che ora sta già covando una delle frasi memorabili che l’hanno resa
famosa per la loro millimetrica intempestività e che sicuramente anche stavolta
avrà la prontezza di infliggere ai già storditi presenti –, la perfetta
normalità della situazione e la strategia da adottare nelle prossime ore,
perché è vero che non c’è pericolo, ma le cose rischiano di andare per le
lunghe. Aggiunge, più per se stesso che per gli altri, che comunque questo è
l’ultimo stronzetto che porta al mondo: è troppo vecchio ormai e soprattutto è
stufo di tutte queste menate... ringrazino il cielo che è amico del nonno... e
poi adesso ci sono o no quei fottuti ospedali? e allora? Al che mia nonna,
senza scomporsi, solleva dal pavimento un tassello di legno camuffato da
mattonella e, dopo aver controllato la situazione della cucina sottostante,
ordina alle figlie ivi esiliate e ormai sulla dirittura d’arrivo del decimo
rosario, del caffè e un bicchiere di grappa o che altro il dottore voglia
gradire. Vada per la grappa e crepi il caldo.
La
strategia è la seguente: aspettare. Conviene a tutti riposare fin che si può e
che la natura (la natura!) segua i suoi
ritmi, senza forzature, che se poi quel testone (si noti l’anfibologia) dovesse
ostinarsi nel proprio errore, i mezzi per raddrizzarlo, ortodossi o meno, non
mancano. Del cesareo, per il momento, il dottore non vuole nemmeno sentir
parlare: lì dentro è tutto in ordine e anche questo, come i mille altri che ha
fatto nascere, è certo che al momento giusto imboccherà l’uscita nel modo
corretto da solo. Nel frattempo è meglio tornare a sterilizzare il forcipe e il
resto dell’armamentario, spegnere la luce e aprire anche la porta d’ingresso
con la speranza che si muovano almeno il tanfo e l’afa: mosche e zanzare,
quelle ci stanno da papa qui, e non se ne andranno certo per farci un favore.
Al buio,
immediatamente il dottore si addormenta, russando e spremendo con elvetico
sincronismo dalle imperscrutabili scaturigini del suo adipe caraffe di sudore
che inzuppano i suoi vestiti e, peggio, il velluto damascato della poltrona e
lo spropositato, penelopide merletto che la ricopre con evidente funzione
apotropaica contro sederi e schiene indesiderate, inefficace tuttavia col
dottore, illuminista incallito; le tre pie donne invece si appartano accanto
alla finestra intente ad un sommesso delirio classificatorio, mentre le loro
sagome, stagliate meno dalla debole luce esterna che dai continui lampi di un’afa
che non riesce, nemmeno lei, a sgravarsi in un messianico acquazzone, danno
luogo ad un’involontaria e nondimeno scontata imitazione di qualche famoso
gruppo di ellenistica, o più esattamente, in conformità alle loro attuali
elucubrazioni, di cristiana memoria, a dimostrazione che i dilettanti, ignari,
non sanno che ripetere, e ripetere male: la natura sola non si ripete,
contrariamente alle apparenze, l’arte sì, perché gioca, contrariamente ancora a
quel che taluni credono, in un campo ristretto (è anche la sua risorsa del
resto). La partoriente infine, sul letto a catafalco, giace impietrita nella
sua solitudine, con gli occhi sbarrati ma ancor lucidi di un morto recente e le
mascelle spalancate nel vano tentativo di ingoiare più aria.
Scambiando
l’intervallo con la fine delle rappresentazioni, io torno ad acquartierarmi nel mio limbo
separato e sprofondo quieto e immemore (quieto perché immemore) nella fragile
omeostasi che precede ogni origine, io sì mostruoso intervallo tra l’essere che
non sono ancora, e che non intendo divenire, e il non essere che, mi piaccia o
meno, ormai non sono più. Omeostasi soltanto
presunta, naturalmente, perché l’origine è già alle mie spalle, io sono
già al mondo e il tempo è già in me, anche se ancora non lo so, anche se pause
propedeutiche, capziosamente benevole, mi inducono a distogliervi l’attenzione
onde meglio assuefarmi, senza traumi eccessivi, come se il disastro non fosse
già avvenuto. Ma con me non funziona, non funziona più: il mio limbo non è più
separato, qualcosa vi si è già introdotto infrangendo per sempre la quiete,
creando una memoria.
Così però
ho potuto capire ed ora so cosa fare.
L’ultima parola, adesso lo so, non è stata ancora detta: se prima proprio nelle
pause di beato abbandono ero io stesso il più
abile coadiutore alla crescita che scandiva la mia condanna; se cioè proprio quando ero ripiegato talmente
in me stesso da dimenticare con me anche l’esterno, me ne lasciavo invadere
e insieme vi tendevo, illuso che mi
avessero dimenticato e che non avrebbero preteso più niente da me; ora sarò io
a tener desta l’apprensione di tutti sforzandomi, ma in modo maldestro, di
assecondare le loro aspettative, così da impedire, o almeno da differire il più
a lungo possibile, proprio ciò verso cui i miei tentativi sembreranno diretti,
per guadagnare il tempo necessario al controcapolavoro della mia scomparsa.
Avendo finalmente riconosciuto che è solo l’introduzione a qualcosa che non
riceverà mai il mio assenso, ad un’opera che intendo lasciare in bianco, anche se
questo stato non mi dispiace, è necessario che vi rinunci, non nella direzione
da tutti sospirata della mia nascita ovviamente, ma in quella contraria, che
ripercorrendo a ritroso le tappe che hanno sinora portato alla mia crescita, mi
riconduca al punto di partenza, alla sua soglia minima che poi forse riuscirò a
riattraversare. Enfatizzerò il mio anelito verso l’esterno, verso l’espansione, per meglio contrarmi,
fino all’invisibile dell’ultimo resto,
se non all’impossibile della mia totale scomparsa, nell’interno dell’interno,
lasciando in mia vece un altro, creato da me a mia immagine e somiglianza,
identico a me in tutto e per tutto, tranne per il fatto che non sarò io e che
a lui mancherà sempre quel qualcosa che io sono, cioè l’essenziale, mentre a me
non mancherà niente, dimentico di lui non appena me ne sarò sbarazzato. Verrà
così ripagato con la sua stessa moneta chi voleva farmi credere, magari in
piena buonafede, che la nascita al mondo separato fosse la vera origine,
compiuta e matura, e non la ripetizione di qualcosa di già imperfetto, un
avvilente simulacro.
Forse per
mia madre un po’ dovrebbe rincrescermi, non posso negare di aver passato anche
dei bei momenti con lei, in fondo, ma anche per lei il minimo che si può dire è
che avrà esattamente quello che avrà voluto e si sarà meritato. Del resto è
certo che nemmeno si accorgerà della sostituzione e che gli stessi dolori
supplementari da essa causati entreranno nel conto dell’amore bestiale che
riverserà sul mio malcapitato sostituto non appena se lo sarà ritrovato tra le
braccia. Supererà in fretta lo spavento e il senso irreprimibile di estraneità,
la repulsione siderale provocata dalla
sua testa enorme e lucida, da quella pelle sottile come una velina, trasparente
e tesa come sul punto di scoppiare in un intrico violaceo di vene pulsanti;
riconoscerà subito, oltre il lerciume gelatinoso che avvolgerà quel corpo
imprevisto e al di là dell’immagine non più condivisa della figlia stupenda
desiderata dagli altri, i lineamenti inconfondibili di un figlio più suo di
quanto non avrebbe mai osato sperare; si lascerà sfuggire un ultimo lamento
sotto il peso del dottore seduto sul suo ventre per aiutare l’espulsione della
placenta rimasta imprigionata, ma non avrà bisogno di nessuna rassicurazione sul
rapido ritorno alla normalità suo e del bambino; non sentirà le espressioni
deluse degli astanti e guarderà invece con un amore mai provato prima il marito
portare come un ostensorio quel dubbio prodigio sulle scale, e poi nel cortile
e al bar sulla strada di fronte a farne oscena mostra a parenti, vicini e
amici, tutti quanti incontrerà, senza
accorgersi dei loro sguardi perplessi, metà ironici metà compassionevoli
per la sua cecità, per quel suo orgoglio che
ad essi apparirà a dir poco prematuro. Poi lo nutrirà, lo cullerà,
cercherà di placare con ninnenanne stonate il suo per lei inspiegabile rancore,
esasperandolo in tal modo ancora di più, e passerà notti insonni, per mesi e
mesi, a causa dei suoi urli prolungati fino al limite dell’autosoffocamento,
finché i suoi gesti non diverranno
automatici, finché non avrà imparato a ficcargli il succhiotto
inzuccherato in bocca, o nelle orecchie o su tutto il viso e il collo, dove
capiterà, senza svegliarsi, e finché lui non comincerà a sorridere per poi non smettere
più, sempre contento, sempre sereno, certo più di quanto non sarei mai stato
io, di compagnia, pieno di vita, fin troppo, sempre in movimento, come per
paura, se si fermasse, di essere strozzato dall’amore e dalla bellezza delle
cose: solo a volte potrà sorprendere quel suo continuo attraversare di corsa la
strada senza guardare, quel suo rifiuto di imparare la prudenza anche dopo il
ripetersi degli incidenti, o viceversa
quel suo improvviso impalarsi contro il muro o davanti a un giornalino, con gli
occhi spalancati ma come ripiegati in dentro per scrutarsi, sbalorditi di
vedere sempre meno quanto più metteranno a fuoco escludendo l’esterno e irati
per la sottrazione, di non capire nemmeno quel poco, che allora diventerà il
suo unico enigma, infinito, verso il quale si riverserà tutta la sua
attenzione, che non avrà più spazio né interesse per altro.
Ma niente
paura, il mio di simulacro non sarà uno scarto, bensì qualcosa di perfetto nel
suo genere imperfetto, perfino superiore (noblesse oblige) alle già grandi
attese di quei nativi igienisti dell’aria aperta, qualcosa di cui potranno
andare fieri, buono, capace, forse anche bello a modo suo, adatto alla scena
che lo dovrà accogliere, l’esatta carne di cui il tempo avrà bisogno quando io
mi sarò ritirato dietro le quinte nell’equilibrio di una molecola che non
aspetta più niente e alla quale non importerà di restare o di essere espulsa
con altre compagne nel tempo azzerato di
chi non sarà più stato nemmeno pensato.
(pubblicato prima in tiratura limitata in Vocazioni, ed. Bacacay 1990, poi in Racconti immobili, Greco&Greco, Milano, 1997)
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