Persegue
fiaccamente un moderato abbrutimento. Bastasse l'intenzione. Ritorni di fiamma
dovuti all'abitudine, peraltro sempre più radi, intralciano l'opera con
speranze inopportune, ma confida che questa nuova abitudine le spenga una volta
per tutte. In ambedue i casi nessuno si illude. Ci pensa però, guardando la
tele. Un bambino che piange in cortile, con beneficio inatteso, lo distrae,
subito seguito, non appena smette, da un altro che lo imita molto bene. Due
benefici sono troppi però. Dalla finestra, in tutta naturalezza, entra un
paesaggio di colori innaturali, prevedibili comunque. Le cose non lo sono meno;
di più non possono fare, a dispetto della buona volontà. Pazienza. Preso atto
dello scenario indegno, subito lo dimentica, invece di approfittarne. Difetta
di senso tattico, inutile negarlo: un punto a suo favore. Dimenticare tuttavia
potrebbe rivelarsi, alla lunga, la strategia migliore: nessuno la beve. Insiste
saggiamente con la televisione, allora; il suo futuro è lì. Lì davanti,
possibilmente senza vederla, o solo a sprazzi, quale utile sussidio; oppure
ancora seguendo tutto con la massima attenzione, come ogni trasmissione merita.
Il telefono una volta tanto non suona, non potrebbe desiderare di meglio. Se
suonasse, però, sarebbe meglio ancora, specialmente se avessero sbagliato
numero. In linea di principio non desidera intrusioni, ma vengono accettate con
una certa riconoscenza, per quanto stizzita. Reazioni inconsulte non sono
previste: sarebbero un regresso, l'indizio di una solidità, e non una
sconfitta, certo preferibile. Non mancano pressioni, ad ogni buon conto. Tutto
starebbe a sviarle, avendone voglia; ma è appunto questa che andrebbe più di
ogni altra cosa evitata. In ambedue in casi perde, cioè vince. Per fortuna lo
soccorre una scarsa resistenza; sforzi prolungati non li regge, né rientrano
nelle sue ambizioni. La stanchezza, se non l'abbattimento, lo coglie sempre
d'anticipo: un altro punto a suo favore. Non per questo indulge a riconoscenza
scomposta. Se ne distoglie e passa ad altro. Armeggia una mezz'ora con la pipa,
che non sa usare e comunque non gli piace, ricavandone sei boccate. Due e due e
due. Benissimo.
Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
26/09/16
24/09/16
I giovani ci stanno solo provando (1986)
La città
moderna e industriale si è sviluppata tutta sul lato destro del fiume
schiacciandovi contro il centro storico, che oggi appare come dislocato e fuori
mano, seppur sempre intasato di gente, uffici, monumenti e turisti. Uomini e
mezzi a motore di ogni tipo ne sono attratti anche senza una ragione specifica
e vi si muovono sgomenti, percorrendo strade e marciapiedi come se fossero i
margini di una ferita sulla quale ci si deve affacciare proprio per poterla
rimarginare distogliendone gli occhi, ed emettendo suoni nei quali non
riconoscono la propria voce, ma un'altra, che pure la comprende, per quanto non
la giustifichi.
Basta
però attraversare un ponte e già ci si muove in un altro mondo: al di là
dell'alveo largo e secco infatti, un grande parco si dirama irregolarmente
attorno ad un laghetto ad esso tanto proporzionato da potersi permettere un
cospicuo isolotto. Su quest'ultimo, nascosto e insieme rivelato dal verde fitto
di un boschetto, si intravede, invece del solito pretenzioso padiglione, un
tempio colonnato di discrete misure, forse veramente antico o più probabilmente
una ricostruzione su basi e con materiali già esistenti. Due strade ripetono
con qualche negligenza i bordi del laghetto: una asfaltata, per i ciclisti,
le carrozzine e la pubblica manutenzione, che lancia i suoi pseudopodi in tutto
il parco verso i confini invisibili; mentre l'altra, piuttosto un sentiero, è
lastricata per uno scomodo passaggio, visto che l'acqua per lunghi tratti la
lambisce rendendola scivolosa. Ora il sentiero è occupato quasi esclusivamente
da gruppi di ragazzini che, abbandonata la strada asfaltata evidentemente
troppo comoda, o viceversa troppo ingombra, gareggiano su bici da cross
coinvolgendo anche i pochi che più giudiziosi pedalano in fila indiana o a
coppie, chiacchierando. Sul bordo esterno dell'asfalto invece, disposti in
ordine sparso e nondimeno ritualmente regolari, gruppi di panchine metalliche
con la vernice scurita e talora scrostata si confondono con la vegetazione,
camuffati da sua naturale appendice.
Su due di
queste panchine contigue, sul lato più vicino all'isolotto, dove l'acqua è più
profonda, in posizione favorevole per godere il commovente simulacro del sole
ottobrino, sei vecchi parlano tra loro in dialetto. Per la verità a
monopolizzare la conversazione sono in prevalenza i tre della prima panchina;
gli altri stanno per lo più in silenzio, guardano qua e là svagati, e comunque
con scarsa intenzione anche quando un particolare sembra attrarli, e solo ogni
tanto intervengono o biascicano commenti lapidari tra loro o verso l'oratore
del momento. Il più silenzioso è il quarto, un tipo alto e magro dall'aria
strana, un po' stonato nella compagnia, che pure senza di lui sarebbe monca.
Porta giacca e cravatta blu, un cappello grigio e occhiali non da sole con
montatura verde brillante sfumata verso il basso, semitrasparente. Non pensa ai
fatti suoi, non è un intruso: ascolta silenzioso e basta. Gli altri di quando
in quando si voltano verso di lui, lo guardano senza peso come si fa coi
famigliari, ma non lo interpellano mai direttamente. Se fosse necessario
interverrebbe, e gli altri lo ascolterebbero con attenzione, ma già ogni loro
parola sembra presupporre la correzione del suo possibile intervento. Così lui
può fare a meno di parlare e aspetta con pazienza il momento giusto perché
indispensabile, che si intuisce sempre prossimo e che quindi non ha bisogno di
venire mai.
Un altro, il quinto della fila,
picchia ritmicamente, – ma è un ritmo tutto suo –, il
bastone per terra, si gratta e approva ogni sfumatura del discorso, che pure lo
interessa in modo alquanto relativo. Ne seguirebbe con la medesima attenzione,
sempre approvando, qualsiasi altro. È il più vecchio, trema. Trema con un
dispendio di energie, ed anzi con una vigoria persino superiore, si direbbe,
alla gesticolazione esorbitante del più vivace della compagnia che, quasi per
compensazione simmetrica, è invece il terzo: un tipo tarchiato dalla pelle
rubizza e porosa, con un maglione a scacchi colorati, pantaloni terra di Siena,
un foulard blu e la voce rauca screziata, tutta interruzioni e cedimenti da
laringectomizzato, durante i quali il suo discorso continua ancora
completamente significativo pur nell'assenza di suono, con l'esemplare
perfezione delle parole non dette.
Passa il tempo senza
veramente passare e gente va e viene senza veramente andare e venire. I ragazzi
sulle bici da cross, autentiche promesse del nuovo sport, si rivelano più
giovani di quanto non sembrasse: bambini, quasi infanti; per questo proseguono
la loro gara gridando sempre più forte, oppressi da un'allegria isterica. Con
passo adolescenziale le mammine spingono carrozzine silenziose, ragazze scipite
si fanno confidenze tenendosi a braccetto con strette eccessive, gli studenti
scoprono i mondi deserti di una stessa pagina. Amici raggiungono la compagnia
delle due panchine: alcuni si fermano solo per salutare, altri sostano più a
lungo. Uno su una bicicletta dal cambio complicato accentra per un po'
l'attenzione disquisendo, forse stimolato dal passaggio di una coppietta
peraltro insignificante e tra specificazioni di cui nessuno sente la necessità,
da vero intenditore, sulle differenze non a tutti evidenti tra le donne di
settant'anni, per le quali valga l'esempio classico di sua moglie che strappa
un sospiro di compianto a quanti la conoscono, e quelle di trenta, alle quali
accorda invece la sua entusiastica preferenza, certo spropositata. Un
particolare riferimento merita sua nuora: stupenda. Ancora non capisce come
abbia fatto quel cretino integrale di suo figlio ad accoppiarla. È una
preferenza, quella per le trentenni, che una volta tanto si sentono tutti di
condividere in pieno, nonostante le differenze individuali quanto a certe
motivazioni che però nessuno ritiene opportuno approfondire. Solo il quinto,
sorprendentemente, non è d'accordo! Lui preferisce le sedicenni, e anche meno
se fosse possibile. Per quanto...
Un altro, approfittando
di un'interruzione provocata dalle urla ormai disarticolate dei ciclocrossisti
sempre più compresi della loro missione riporta il discorso su binari a suo
parere, ma soltanto suo, meno accademici, riprendendo non si sa per quale
ispirazione un argomento già avviato in precedenza da quelli della prima
panchina, lui assente: la boxe. La nobile arte! La sua caratteristica
principale è che parla in italiano, fluido e persino forbito a momenti, ma
stonato nel contesto. Gli altri. Gli altri, con naturalezza e senza intenzioni
polemiche, ripetono in dialetto i punti salienti del loro interrotto dibattito
a proposito di un argentino e di un venezuelano, tale Figueroa o Quiroga, non è
ben chiaro. Uno dei due ha trentatré anni, l'età del Signore, mica pochi per un
pugile, specie se è passato professionista molto giovane e ha molto combattuto
come usano da quelle parti, spinti dalla fame: quale dei due, questo è il
problema.
Li distoglie
dall'intricata controversia la sfilata di alcuni ragazzotti vestiti in fogge inconsuete,
coi capelli colorati e spettinati ad arte e il viso sporco e pitturato a
mascherare la loro età: straccioni; poi lo sfrecciare di due bambini in vena di
speciali arditezze a filo d'acqua. Uno della compagnia (il primo, che spicca
per i blue jeans nuovissimi con la piega inamidata e gli stivaletti marrone a
punta, da cow boy) quasi controvoglia si alza per rimproverarli: c'è il
rischio, se cadono in un laghetto, che anneghino. Mica esagera. Dove sono le
madri? Mettono al mondo i figli e se ne fregano, ed ecco il risultato. Seguono
commenti sui bambini e sulla gioventù in genere, ma di sfuggita,
meccanicamente: urge tornare alla boxe, argomento molto più interessante.
Ognuno dice la sua e
tutti la dicono contemporaneamente, in un crescendo di confusione che però non
preoccupa nessuno. Discutono sulla decadenza del pugilato italiano, trionfo
della poltroneria e della chiacchiera, ballerine prive di attributi
contrabbandate per tecnici sopraffini, e su quali siano gli incontri migliori.
Sono quelli tra pugili piccoli, è ovvio: quelli sì che picchiano accidenti! Mai
che tirino il fiato, sempre all'attacco, impavidi, velenosi! Dai superwelter
in su, invece, con qualche eccezione per pochi pesi medi, è tutta una lagna. I
massimi poi, meglio lasciarli perdere quelli, sono solo bestioni foderati di
ciccia lenti e noiosi che sparacchiano un paio di pugni a round e già sono
stanchi. Questo non si discute. Nessuno li può vedere, i massimi. Li odiano
addirittura. A parte Cassius Clay, naturalmente.
Nel frattempo,
dall'altra parte del laghetto, uno degli acrobati delle due ruote cade davvero
in acqua. I suoi amici e avversari si fermano e lo stanno a guardare silenziosi
senza muovere un dito, tra sorpresi e ammirati. Poi, quando già il caduto non
si vede più, sprofondato, cominciano uno alla volta a tuffarsi seguendone
l'esempio, col repentino cambiamento di chi scopre finalmente la sua vera
vocazione; poi in tre o quattro contemporaneamente, alcuni prendendo
addirittura la rincorsa con la bici. Nessuno torna a riva, ma la loro scomparsa
non impedisce che anche tutti gli altri bambini, e tutte le ragazze a braccetto
ora più luminose, e le coppiette, gli studenti col libro in mano, i giovani
sgargianti e le mammine con le carrozzine che affollano le due strade attorno
al laghetto e tutto il parco li imitino con rincorse sempre più lunghe e salti
di rara efficacia, anche dal punto di vista spettacolare, ciascuno secondo le
proprie forze senza esitazioni.
È un mosca, un altro venezuelano, quello su cui
converge ora il gruppo delle panchine sempre più assorto nella raffica delle
rievocazioni, uno che conta poco però, una meteora: il suo posto infatti viene
subito rilevato da un messicano, lui pure un mosca ma campione del mondo lui,
che ha rifilato un tremendo KO a un giapponese tarchiato. Quello sì che è stato
un vero KO, da antologia: sembrava morto. Eh sì quello se lo ricordano tutti,
impossibile dimenticarlo. Un coreano invece è morto per davvero. E un
colombiano, un argentino, un paio di neri americani, persino un neoprofessionista
siciliano, uno proprio al primo incontro. Il coreano non l'avrebbe detto
nessuno che sarebbe morto, aveva combattuto fino al gong chiudendo in piedi un
incontro che secondo alcuni aveva forse persino vinto, un incontro bellissimo,
tirato allo spasimo, di quelli che si vedono sempre più raramente, ormai.
Peccato che sia finito male... Càpita.
16/09/16
Due coche
Angela mi chiede se vado a prenderle una coca. Le dico di
aspettare cinque minuti che sto finendo di leggere un racconto, il primo che mi
piaccia veramente del libro che ho iniziato ieri sera. Suona il telefono: è per
lei. Io finisco di leggere, le chiedo se una lattina le basta. Due è meglio, mi
risponde. Prendo un sacchetto di cellophane dallo sgabuzzino per non tenere in
mano le lattine, che di sicuro saranno gelide. Metto il cappotto e esco.
Fuori non fa freddo, la sera è limpida, senza vento.
Passato il cancello, mi trovo davanti il prato che costeggia la strada e mi
sembra più grande del solito. Sarà il buio, le luci dei lampioni o quelle sullo
sfondo: non so, fatto sta che mi pare più grande e più bello, con gli alberi
che ne delimitano tre lati, scuri ma tutti perfettamente distinguibili. Sul
prato si diffonde, sfumando, la luce dei lampioni che costeggiano la strada
dalla parte delle case. Villette, in genere, a parte il mio condominio. La
strada è vuota, la roggia alla mia destra è asciutta. L’auto della vicina è
ferma davanti al suo cancello, spenta, ma coi lampeggianti accesi. Il loro
pulsare silenzioso mi fa percepire il silenzio che emana il mio quartiere. Da
alcune finestre viene una luce che non sembra servire a nessuno: nessuno si
vede nelle stanze, non una voce arriva sulla strada, neanche quella della
televisione. Le luci se ne stanno lì, per conto loro, buone buone. Mi
rispettano, accompagnano discrete i miei passi, e io gli sono grato. Mi volto
verso il prato, nella luce che sfuma guardo le erbe più vicine, cercando di
distinguerne i colori: verde scuro? nero? rosso smorto? ocra spento? Non ci
riesco. Dietro invece è tutto buio, gli alberi sono neri; nero è il profilo
dell’unica casa che vedo alle loro spalle; anche il cielo sopra di loro è
scuro. Di uno scuro più luminoso però.
In fondo alla via, davanti a me, c’è la cascina al cui
angolo è situato il ristorante, con barettino annesso. I tavolini alla sua
destra sono vuoti: non è più stagione. Davanti ci sono due enormi pioppi i cui
tronchi si sono ormai fusi alla base, tanto da sembrare un’unica pianta con due
grandi diramazioni che formano una gigantesca, bellissima chioma le cui foglie
residue, grazie alle luci della strada e del ristorante, posso distinguere ad
una ad una. Le luci dei lampioni sono di un giallo intenso, innaturale; quella
del ristorante è bianca. Le macchine parcheggiate davanti alla cascina sono
tutte in ombra, nere.
Entro nel bar, chiedo due lattine di coca. Il proprietario
le mette sul banco, io prendo dal portafoglio centomila lire e chiedo se ha da
cambiare. Sì, ma non ha nessun sacchetto per le lattine. Non importa, l’ho
portato io. Metto una mano in tasca, estraggo il sacchetto e quando lo apro
scopro che sono due, sottili, uno infilato nell’altro. Ho esagerato, come
sempre, senza accorgermene. Mentre ne rimetto uno in tasca, un signore da un
tavolo mi saluta. Rispondo con piacere, poi intasco il resto, metto le lattine
nel sacchetto, infilo la mano nel buco dei manici e poi in tasca, lasciando che
il sacchetto penzoli e mi batta contro la coscia, e esco.
La strada è ancora deserta, ma ora la vedo nella direzione
opposta. Sulla mia destra, ai bordi del prato, due coppie di ciliegi distanti
un centinaio di metri l’una dall’altra, anch’essi con molte foglie residue e
vizze. Mi sembrano diversi dal solito, poi mi accorgo che non c’è più la
recinzione a proteggerli: ecco perché il prato mi era sembrato più grande.
Guardo anche il prato in modo diverso. In fondo, a destra, gli stessi alberi di
prima, ma alle loro spalle, lontano, ora vedo le luci di alcuni caseggiati che
si stagliano sulla linea mossa ma netta della riva destra del fiume, più alta
di quella del mio paese, a un paio di chilometri di distanza. L’aria è pulita,
il cielo è senza stelle, molto alto. Se
ci sono nubi non le vedo, e comunque non contano.
Sono le 18,30 del 2 novembre 1997. Sto bene, anche se
prima, all’andata, guardandomi attorno e poi fissando i pioppi, nel fare la
stessa constatazione ho pensato: e io devo morire. Senza amarezza però. Solo
con un pizzico di rimpianto, come è comprensibile, ma senza strascichi.
Quietamente. Alla mia sinistra i fari dell’auto della vicina continuano a
lampeggiare in silenzio e per nessuno. Guardo il fosso e poi l’erba sulle rive.
Raggiungo la curva che conduce al cancelletto del mio condominio, aperto come
sempre. Davanti ci sono auto parcheggiate su entrambi i lati della strada. In
una, la ragazza del quinto piano sta al buio con un amico. Ne sento uscire una
musica sommessa, poi delle risate.
Angela mi sta aspettando e fa scorrere la serratura mentre
io sto girando la chiave nella porta. La saluto e metto il sacchetto sul tavolo
della cucina. Lei estrae una lattina e parla della telefonata appena finita.
Dico qualcosa anch’io. Ci sorridiamo. Poi lei si versa la coca e io mi dirigo
verso lo studio. Apro la porta, la richiudo subito per non fare uscire il fumo,
accendo la lampada, mi siedo al tavolo e scrivo.
14/09/16
L’andatura charleston
C’era questa ragazzina che camminava a testa alta, schiena e
spalle dritte, lo sguardo fisso davanti a sé, le braccia tese che oscillavano
leggermente, le mani un po’ all’infuori con i palmi paralleli al terreno.
L’andatura charleston! Oggi nella sua versione più elegante: quella da
educanda, che dalla danza ha preso una sola postura e l’ha adattata al passo,
rendendola fluida e composta invece che
sincopata e sguaiata.
Una volta la si vedeva spesso, specie in certe signorine mature che volevano darsi un tono, ma anche in ragazze, la cui naturale disinvoltura faceva dimenticare quel po’ di ridicolo che comunque la citazione della postura, o la sua eco involontaria, producevano.
Ora è molto rara, quasi estinta. Peccato, era così graziosa!
Chissà da chi l’ha imparata la ragazzina? Una vecchia zia? Un film? La memoria corporea della mamma che ogni tanto recupera un vezzo della sua giovinezza? O è un dono del corredo genetico? Una remota potenzialità che ogni tanto si riattiva e tenta nuove fioriture? In ogni caso, sempre benvenuta!
Una volta la si vedeva spesso, specie in certe signorine mature che volevano darsi un tono, ma anche in ragazze, la cui naturale disinvoltura faceva dimenticare quel po’ di ridicolo che comunque la citazione della postura, o la sua eco involontaria, producevano.
Ora è molto rara, quasi estinta. Peccato, era così graziosa!
Chissà da chi l’ha imparata la ragazzina? Una vecchia zia? Un film? La memoria corporea della mamma che ogni tanto recupera un vezzo della sua giovinezza? O è un dono del corredo genetico? Una remota potenzialità che ogni tanto si riattiva e tenta nuove fioriture? In ogni caso, sempre benvenuta!
12/09/16
Il lettore e la vecchia in sedia a rotelle
Sono
solo in due seduti all'ombra: un ragazzo su una seggiola pieghevole, che
alterna ogni mezz’ora dal sole moltiplicato dal prolungamento in cemento della
spiaggia alla precaria protezione di un oleandro che segna il limite tra la
passeggiata a mare e la strada poco frequentata, e una vecchietta su una sedia
a rotelle. Accanto a lei, su una panchina al sole, un uomo sulla sessantina,
probabilmente suo figlio, che parla con un paio di donne del posto e ogni tanto
si alza per spostarla, inseguendo con millimetrica pignoleria il bordo
dell’ombra nella sua traiettoria.
Il
ragazzo, o più precisamente: il giovane, accavalla le gambe e si aggiusta gli
zoccoli ai piedi, si guarda attorno e, ad intervalli regolari, sbircia di
soppiatto la vecchia: non lo vorrebbe mostrare forse, ma lo ha sempre attratto
l’immobilità silenziosa dei vecchi, come una ripetizione insistita di un niente
che si trasforma in forza, l’assoluta inerzia che si fa impermeabile,
inattaccabile. Gli sembra che non pensino a nulla ed è come aspirato dal vuoto
della loro mente, vorrebbe navigarci, fluttuare, in pause diverse dalle sue che
poi si allargano sempre più fino a mutare in pausa l’oggetto che le interrompe,
per espellerlo infine irrevocabilmente o lasciare che si spenga da solo, per
mancanze di qualsiasi resistenza; ma la forza stessa che lo attrae è quella che
infallibilmente lo respinge. Perciò si rassegna a fissarli; con un’insistenza che
si arresta solo al limite della sfacciataggine percorre la loro fissità per
almeno descriverla come palliativo, si adegua al suo ritmo, incollato, e ripete
i loro unici movimenti, che sono quelli, lenti e spesso interrotti, degli
occhi.
Questa
vecchia si direbbe sui novant’anni, se non di più. Ha un viso scuro e scarno,
segmentato da un’intensa quanto disordinata rugosità e da una sottile e
sporadica peluria, le mascelle come saldate senza alcuna sbavatura o
prominenza, gli occhi che non denotano cedimenti, aperti a fessura. L’omogeneità
continua della pelle è stata sostituita da un tessuto di macchie di varia
gradazione e misura, di cifra illeggibile ma radicata da tanto tempo ormai da
rendere impensabile un precedente originale. Sotto il cappello di paglia
sfilacciata a forma di campana mozza, di un colore giallo vivo interrotto alla
base della falda da un nastro grigio sbiadito, spuntano pochi capelli
biancastri, a ciuffi radi, e degli orecchini a goccia incastonati di pietruzze
dure color sangue, magari preziose ma di taglio approssimativo. È magra ma non
minuta: le caviglie, infatti, come i polsi, sono tonde e robuste. La destra, a
causa del piede leggermente obliquo, è sbalzata in tre o quattro piccole grinze
di carne, che non possono essere grasso, dalla pressione delle calze elastiche;
l’altra si congiunge senza la minima protuberanza al piede perpendicolare, come
in un unico blocco privo di articolazione. Per quanto sia difficile calcolare
l’influenza dell’immobilità a cui è costretta e il rattrappimento derivato
dall’età, da giovane doveva essere stata abbastanza alta. Lo suggerisce il
busto allineato allo schienale, lungo ed eretto, che comincia a incurvarsi solo
all’attaccatura del collo, in un breve arco che si arresta subito alla nuca
senza costringere a piegarsi verso terra la testa, che si mantiene rigida anzi
e non tradisce nessuna debolezza anche a dispetto dell’afa che invece sta
sfiancando il suo scrutatore. Porta un lungo vestito di cotonina nera a
fiorellini bianchi e azzurri, con gambi ben marcati di un verde intenso. Dal
grembiule aperto che lo ricopre, sempre di cotonina ma stinta e a sfondo blu
stavolta, dalla decorazione di certi damaschi, policroma però: ocra rosso
marrone verde e bianco, spuntano le mani, serrate sulla fronte dei braccioli
nel solo atteggiamento che riveli, oltre agli occhi, una forma di vitalità.
Il
giovane sta leggendo un libro che certo non gli piace, e ad ogni capoverso si
volta a controllare se la vecchia c’è ancora, con la scusa di guardare nel mare
tre navi spuntate all’improvviso. Vede la stoffa del grembiule che si increspa
per qualche refolo, le mani sempre serrate come a spremere il cuoio dei
braccioli, la testa sempre di profilo, le labbra chiuse e quasi ridotte a un
duplice filo rosa, gli occhi che ogni tanto seguono i passanti fin dove
permette la fronte immobile, senza rincorrerli ma nemmeno fuggirli. Non vedono
però il giovane che ora sta scrivendo lì di fianco, né lo guadano quando si
alza, imbraccia con voluto rumore la sua seggiola e di proposito attraversa il
suo campo visivo per tornare al sole perché il vento si è rafforzato e ha
freddo. Sentendosi del tutto ignorato, lui decide, pur sapendo che è la
reazione dei deboli, di ignorarla a sua volta. Riapre la seggiola e quindi il
libro, legge qualche riga con scarsa attenzione e subito ritorna a fissare le
navi immobili, a distanze diverse forse, ma sempre, come di regola, allineate
sul filo dell’orizzonte. Le barche e le vele invece sono tutte più o meno
lontane, ma solo da terra.
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