Si
sparla volentieri di ciò da cui per qualche motivo si è talvolta costretti a
dipendere: così anche della critica letteraria dei giornali. Sorvoliamo su
motivazioni o invidie personali, perché non è certo colpa del critico se si
leggono più giornali che libri o riviste e se quindi in certi casi (pochi) egli
diventa più famosi di molti scrittori e cattedratici; se paraintellettuali
spesso chiacchierano solo per aver letto recensioni ecc.; come fa parte del
gioco che al successo o meno di alcuni libri contribuiscano anche i critici
(conviene però notare che la figura del dittatore dell’opinione è estinta e che
soprattutto è in ben altra sede che si decidono le tirature; tanto più che, per
esempio, per un Giuliani che giustamente stronca 1934 di Moravia ci saranno sempre due Siciliano che lo esaltano;
c’è posto per tutti, anche per stare zitti).
Altre
sono le accuse: gli scrittori, che non di rado sono i primi a leggerlo, specie
se parla di loro, o non ne parla quando invece dovrebbe, e comunque trattandolo
sempre da interlocutore privilegiato, si lamentano che il critico, la cui
preparazione è notoriamente un dono del cielo, giudichi con la minima fatica un
lavoro che ne è costata tanta, senza essere poi capace di fare altrettanto (di
“creare”); i professori e i saggisti invece lo accusano di qualunquismo, di
preparazione metodo e rigore insufficienti, nonché di parzialità e soggettività
eccessiva. Si parla anche di servitù verso l’editoria e le solite conventicole.
Tutto vero. Karl Kraus, come d’abitudine, ci andava ancor più pesante; un suo
epigramma intitolato Concorso per
recensori recita infatti: “Specchio, specchio delle mie brame / chi è il
più scemo del reame?”
Fortunatamente
non mancano eccezioni. Io poi preferisco considerare le cose altrimenti (Cicero
pro domo sua). Sarò ingenuo, ma preferisco partire sempre dal presupposto che
il critico, fino a prova contraria, è preparato e onesto, tanto più che
altrimenti perde in fretta credibilità. Il pubblico non è poi così stupido.
Appartiene
senza dubbio alle eccezioni Alfredo Giuliani, del quale Feltrinelli ha da poco
pubblicato il terzo volume di critiche, Autunno
del Novecento, che come valido quanto parsimonioso poeta in proprio e
professore universitario è stimato dai rispettivi colleghi, e sulla cui onestà
è difficile nutrire dubbi. Onestà non significa ovviamente mancanza di
predilezioni e di idee selettive su ciò che è o sembra vitale nella letteratura
in corso e nel riesame di quella già storicizzata, ma anche, oltre alla
disponibilità verso ogni forma (il critico è, o dovrebbe essere, in primo luogo
una persona che ama leggere e gioisce di qualsiasi buona lettura) la chiarezza
di ammetterle, la capacità di motivarle seriamente e il coraggio di rischiarle
(così il lettore avrà anche gli elementi per discuterle e magari dissentire,
come è capitato a me a proposito di certe scelte e esclusioni nella sezione
dedicata alla poesia).
Il
terreno su cui si muove il critico dei giornali, infatti, è tutto allo
scoperto, perché il recensore, come dice la parola stessa, deve passare in
rassegna, scegliere e valutare i libri nel momento della loro attualità più
immediata e secondo una prospettiva, ancor più che presente, futura, anche in
occasione di ristampe. Avere predilezioni, idee teoriche, e anche un metodo, è
quindi necessario, anche se non sempre è possibile o opportuno dilungarvisi.
Senza
timore di apparire agiografico, penso che Giuliani abbia tutte queste qualità
basilari. Ne ha anche altre, che ne fanno indipendentemente dal giornale per cui
scrive (“Repubblica”) uno dei critici più letti e apprezzati: per prima cosa
non confonde indebitamente critico e scrittore, pur sapendo che ogni scrittura
è seconda (è differente infatti, per esempio, la prospettiva verso il
linguaggio, per quanto Giuliani sia un po’ schematico quando dice – in
“Cerimonie perverse della critica”, in Le
droghe di Marsiglia, Adelphi, 1977 – che è di “inconsapevolezza attiva”
nello scrittore e di “consapevolezza passiva” nel critico); si riserva sempre
dell’ironia, che non è il rifiuto di essere seri fino in fondo, ma uno dei modi
migliori di esserlo; scrive senza fumisterie e senza cercare la “poesia” o le
frasi ad effetto, eppure in modo denso e inventivo, capace anche, quando è il
caso, di escogitare la formula sintetica efficace (“compito del critico è di far immaginare il lettore”; “leggendo
Savinio vien fatto di pensare che il genio è un’attività riposante”;
“Sanguineti è approdato al crepuscolarismo
dialettico” ...); non si perde nell’episodico ma se ne serve all’occorrenza
come strumento verso l’essenziale o per introdurre una prospettiva inedita;
ecc.
Come
ogni buon scrittore reinventa o assimila a sé regole del proprio genere, così
Giuliani fa con la recensione, e si direbbe anzi (né questo sembri restrittivo:
non è sicuro che la recensione debba per forza essere un genere minore, come
ben sapeva Walter Benjamin che ne scrisse di meravigliose) che proprio in essa
egli abbia trovato la sua perfetta misura critica: quando infatti ne esula
(come nei saggi su Delfini e Moravia), vi resta ancora legato e la struttura
resta inalterata o quasi. Non che i saggi risultino recensioni annacquate, sono
piuttosto le recensioni a configurarsi, pur nella conquista di un tono
scorrevole, come dei brevi saggi concentrati, che presentano solo i risultati
delle indagini cioè, risparmiando gran parte del percorso che vi ha portato e
l’abbondanza delle esemplificazioni, che però si lasciano intuire o vengono
suggerite e che comunque ciascuno può verificare da sé (parsimonia sempre gradita
dove impera la verbosità).
Autunno del Novecento riesce così a fornire un
panorama tutt’altro che superficiale della letteratura di questo secolo, certo
non esaustivo ma significativo per le scelte operate e soprattutto vivo perché
non perde mai di vista i problemi attuali della letteratura e invita a
discuterli più sui libri che non sulle teorie, che pure non vengono dimenticate
sebbene lo spazio loro dedicato non sia molto. Si fa inoltre preferire, anche
didatticamente direi, a gran parte delle storie letterarie correnti, ancor più
che per la quasi ovvia superiorità di scrittura, per la varietà degli approcci
e l’assenza sistematica delle solite genericità e banalità. Ciò che, per una
“semplice” raccolta di recensioni, non è affatto poco.
“C’è
la critica perché in fondo la letteratura è inverificabile.”
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