E c’era
questa grandiosa Deposizione di Cristo,
proveniente anch’essa dall’Accademia, fatta probabilmente per l’altare maggiore
di Santa Maria dell’Umiltà nel 1562, di grandi dimensioni (227x294), che la
fondazione Zeri cataloga a mio parere giustamente come Compianto sul Cristo morto e svenimento della Madonna.
In una composizione tutta addensata, con i corpi quasi
compressi in uno spazio di asfissia, come quella che è sopraggiunta alla
Madonna facendola svenire, le figure sembrano immobili, sospese al colmo di un
movimento scenico arrestato, incluso il solo gesto plateale ma non scomposto delle
braccia aperte per lo sgomento e il dolore, e come a protezione del gruppo
sottostante, della Maddalena, che si piega verso il volto del suo amato quasi a
baciare le sue labbra, l’unica parte del viso, eccetto un angolo della fronte,
a essere illuminato.
Cristo, in equilibrio instabile nonostante sia
sostenuto per le spalle senza sforzo apparente da un nerboruto Nicodemo (o
Giuseppe d’Arimatea), poggia malamente, quasi senza peso, sulla gamba destra,
quella esterna, della Madonna, che a sua volta cadrebbe alla propria sinistra
se non fosse sostenuta da Maria di Cleofa (credo: lo scrivo in memoria di mia
mamma che si chiamava Maria Cleofe), che china la testa verso di lei con
sguardo dolcissimo e apprensivo, in perfetta ma non meccanica simmetria alla
testa della Maddalena, lungo una stessa diagonale alla cui base sta quella di
Maria, il cui corpo, disposto da sinistra a destra procedendo dal basso verso l’alto,
forma con quello del figlio in diagonale perpendicolare una X, o meglio: una
croce di carne.
Il volto e le mani della Madonna, specie la sinistra,
sono cinerei, lividi, la bocca socchiusa come gli occhi (quasi un anticipo della
Santa Teresa del Bernini, ma senza la sua sensualità a causa dell’angolo del capo
che pesa sull’avambraccio di Maria di Cleofa e del colorito cinereo), il corpo
abbandonato con il braccio sinistro che cade a terra, in parallelo (tutta la
composizione si basa su parallele, mosse: due in diagonale da destra a sinistra
e questa in verticale) a quello del Figlio, che pure ha la bocca aperta, un po’
di più però, come se avesse cercato l’aria più a lungo e fosse rappresentato
nello spasimo di chi l’ha ormai persa per sempre, con la vita, mentre la
memoria del corpo sembra continuare a cercarla ancora, con un ultimo residuo di
autonomia. A cercarla ancora. (E questo è in memoria di mio papà.)
A parte,
in un primo tempo, la Madonna, tragica e serena, e la bellezza dei colori (tutti,
non solo i blu e i rossi e i grigi…), a colpirmi di più nella grande
composizione è però la meravigliosa Maddalena dai lunghi capelli biondi intrecciati
a formare una crocchia che si estende a tutto il capo in spighe d’oro
abbaglianti (è il punto più luminoso del gruppo, che si staglia su uno sfondo
cupo che solo un bagliore biancoazzurro squarcia sulla sinistra), le guance
rosee, le carni appena un po’ più abbondanti dei nostri rinsecchiti parametri
attuali,
ma senza alcuna controindicazione (anzi!), sode come sono,
lisce, luminose, gioiose anche nei frangenti drammatici (come qui: gioiose per
la vista, non per la situazione):
una di
quelle bellissime donne veneziane che troviamo anche nei quadri di Paolo
Veronese, di qualche anno più giovane di Tintoretto, le cui trecce bionde sono
però confinate alla crocchia mentre sulla fronte e alle tempie sono più libere,
un po’ mosse dai movimenti dei corpi o appena scarmigliate per vezzo, mentre il
più vecchio Tiziano prediligeva capelli ramati, quasi mai raccolti in crocchia,
lunghi e sciolti (ma nei quadri più tardi, come “Venere e Adone”, del 1560 e
quindi contemporaneo di quelli di Tintoretto e Veronese, la crocchia,
evidentemente di moda, compare; prima ancora niente trecce, o pochissime:
crocchie magari sì, come le donne del Carpaccio, ma non trecce).
Bellissima,
la Maddalena! Come bellissime sono tutte le Susanne e Veneri e Giuditte e la moglie di
Putifarre (per restare alle opere in mostra, tra le quali, se dovessi
sceglierne una, non esiterei a indicare l’impareggiabile “Susanna e i
vecchioni”, che già più volte mi aveva incantato a Vienna), e tutte quelle donne,
nude e ubertose, o anche riccamente vestite, che non saprei, al mio sguardo
odierno, se indicano maggiormente, con sottile malizia, i piaceri della carne
oppure la sua innocenza, la sua gloria trionfante, inscalfibile e immortale,
che in fondo, a ben vedere, sono lo stesso.
Una carne
che sembra lontanissima da quelle di Cristo morto e di Maria, svenuta ma che
sembra ancora più morta del Figlio, che tuttavia morte non sono davvero, né l’una
né l’altra, perché una risorgerà e entrambe, gloriosamente, saranno assunte in
cielo, innocenti e trionfanti. Come vorremmo avvenisse della nostra e di quella
di tutti!
(È anche
per questo che le metto qui, a chiudere, per il momento, la breve descrizione
dei santi corpi da cui sono partito.)
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