Io
sinceramente, ha detto quello che mi ha raccontato questa storia, davvero non
capisco perché mai gli dei ce l’abbiano tanto con i figli degli uomini, e anche i loro, gli eroi semidivini che nascono da
quelle loro unioni meticce capricciose, che gli decretano sorti infauste a
volte prima ancora che nascano, alle nozze dei genitori, senza che nemmeno
questi gli abbiano potuto fare anche un solo torto… come se un mortale potesse
davvero fargli qualcosa… a parte il fatto che essendo permalosi e piuttosto
egocentrici, paranoici per dirla tutta, gli basta un pensiero fuggevole,
laterale, un’intenzione abbozzata in un momento di sconforto o rabbia per
urtarli… E neanch’io capisco, dico. Più mi sforzo, meno capisco. Per quel che
serve, capire… Allora la smetto. Forse hanno invidia, continua lui. Ci
dev’essere qualcosa, in questi esseri miserabili, che li disturba, che proprio
non gli va giù. Forse quel che gli invidiano è proprio ciò che destinano loro
nei modi più crudeli, la morte. Forse sono invidiosi del morire. Della
possibilità, che loro non hanno, di chiudere una volta per tutte questa storia
della vita che non finisce mai. Questa condanna al sempre. Perché niente è più
pesante di sempre; perché sempre ti sta addosso ogni momento, ti toglie il
gusto di qualsiasi cosa fai, che perde subito importanza, perché farlo, fare
quella cosa lì, non esclude altro, ma semplicemente lo rinvia. Se non ora,
domani, o dopo, o tra un milione di anni. C’è tutto il tempo. Miliardi e
miliardi di anni. E poi altri miliardi. E altri ne sono già passati, infiniti.
Sì, c’è tutto il fottuto tempo. Mentre agli uomini la fine fornisce un peso a
tutto, anche a quello che non sembra averne, che non ne ha. Anzi, a quello più
ancora. A quello più di tutto. E allora gliela fano pagare. Non glielo
perdonano. Mettono dell’amaro ovunque. Ma poi finiscono per invidiare anche
quello. Si inventano scaramucce, conflitti, corna, dispetti. Ma l’amaro, il
negativo, non ce l’hanno. La paura non sanno cos’è.
A questo,
aggiunse, mi sembra alluda anche la storia di quando Achille viene scoperto
dopo che la madre lo aveva nascosto in un luogo segreto per tenerlo lontano
dalla guerra, che l’avrebbe sì coperto di gloria imperitura, ma anche destinato
a una morte precoce. Odisseo e il vecchio Nestore, come si sa, avevano
escogitato un trucchetto per smascherare il giovane guerriero dopo che erano
venuti a sapere che dimorava nel gineceo della reggia di Licomede, il quale si
credeva furbissimo e li aveva sfidati a scovarlo, se ne erano capaci. Allora
Odisseo aveva portato in dono alle ragazze del parthenon dei monili e delle
belle vesti, ma in mezzo a queste aveva messo uno scudo e una lancia, di fronte
alle quali il ragazzino non aveva resistito, appalesandosi in tal modo. Il
momento è solenne, e anche il linguaggio si adegua, si scusa il narratore. Non
si può escludere però che Achille si sia fatto scoprire per sua scelta,
approfittando dell’occasione offertagli da Odisseo, nonostante certamente
sapesse della profezia che gli gravava sul capo. Se anche mammina gliel’aveva
taciuta, in Grecia ne erano a conoscenza tutti. Certe notizie fanno il giro del
mondo in un amen. E lui magari aveva avuto tutto il tempo di pensarci e non gli
era rimasto altro che aspettare l’occasione buona di uscire allo scoperto senza
andarsela a cercare lui. A combattere a Troia lui non era tenuto, certo; non
era stato tra i pretendenti di Elena, che al proposito avevano giurato, però
dài, una guerra senza l’eroe più forte che guerra è? I Greci sapevano anche che
senza di lui non ce l’avrebbero fatta. Et donc! E lui non vedeva l’ora. Perché
va bene, stare in un gineceo per un giovane in piena tempesta ormonale ha i
suoi vantaggi, di cui lui a quanto pare non ha mancato di approfittare, tanto
che alcuni insinuano che proprio lì abbia messo incinta Deidamia, figlia del
suo ospite (che ben gli sta… a meno che non l’avesse messo lì apposta per
trovarsi un genero, e una consuocera, con agganci olimpici, che fanno sempre
comodo...), che gli avrebbe dato il suo unico figlio, Neottolemo, che poi
avrebbe ucciso, dopo la morte del padre, Priamo, padre di Ettore, e Astianatte,
di Ettore figlio. (Quando
parte per Troia, dopo la morte del padre, Neottolemo aveva, secondo alcuni, 12
anni (Graves, 641), il che non gli avrebbe impedito di ammazzare e stuprare a
destra e a manca. Buon sangue non mente.) Ma questa è un’altra storia che qui ci interessa poco.
Torniamo a Achille, dice il narratore. Va bene stare in un gineceo ecc., ma
insomma il maschio, si sa, è un bastardo, e dopo consumato la donna preferisce
lasciarla dov’è e andarsi a divertire con gli amici, sapendo che quella tanto
aspetta a casa, o al limite un’altra in giro a trovarla fatica non si fa. Una o
tante. Sono tutte uguali. Una volta accontentate, ciao. Che poi fanno la fila
se non te le fili troppo. Ci pensano loro a rincorrerti, quelle scassamaroni.
Pussa via! Un uomo è un uomo, e quello, quello del gineceo intendo, non è
vivere, è una palla che non ti dico; va bene come svago, ma 9 anni sono 9 anni,
un inferno! Non si può vivere 9 anni di moine e discorsi di moda e cucina in
mezzo a uno stuolo di cretinette, vestito con veli frufrù e truccato di bistro,
i capelli che puzzano di olî preziosi… Giorni dopo giorni dopo giorni tutti
uguali, sempre la stessa solfa, con niente da fare, se non cose stupide,
insignificanti. Ci vuole ben altro per un eroe! E questo ben altro è solo
l’incombenza della morte che lo dà. La droga dell’adrenalina. La sfida.
L’incertezza. Il rischio fatale. La possibilità che tutto, ma proprio tutto,
finisca tra un istante. Se pensi a questo, mi fa il narratore, altro che
inganno!, ti vien da pensare. Per cui, quando ha visto le armi, il giovanotto,
che scemo non era, si è precipitato ad accaparrarsele scientemente, lasciando
credere al furbissimo tracagnotto di Itaca di averlo fatto abboccare come il
pesce Makò, per citare un mio amico pace all’anima sua, mentre in realtà è
stato lui, facendo l’ingenuo, a farlo fesso, assicurandosi così la sua fedeltà,
e quella dei suoi mandanti, una volta per tutte in un colpo solo. Ricordandogli
ogni giorno, con la sua sola presenza, quanto erano stati intelligenti tutti, e
lui Odisseo più di ogni altro, lo avrebbero onorato e gli sarebbero stati
devoti senza sforzo, e senza quegli strascichi di invidia e rancori che i forti
si portano sempre appresso. È la dialettica dell’ingannato e dell’ingannatore.
La stessa di quella servo-signore. La sua nobile antenata. Lo sfruttamento ha
sempre bisogno di nobilitarsi. L’inganno pure. Forse sono la stessa cosa.
Poi,
come va a finire davvero, non si sa. Anche i più grandi devono morire. I divini
genitori, che vorrebbero salvarli, non ce la fanno; in cielo non riescono a
portare nessuno, se non tramutato in qualche stella, o costellazione. Poca
roba. L’immortalità se la sognano,
quelli che ci pensano. Gli altri affrontano la morte come capita, alcuni
spavaldi, altri terrorizzati, altri rassegnati. Sereno nessuno. Alcuni muoiono
per cause stupide, per una fesseria, per una distrazione degli dei che a volte
sono proprio approssimativi. Fanno le cose male. All’ingrosso. Tanto a loro che
importa? Basta un niente, un tallone, e zac, sei fottuto. Potevano stare
radiosi e felici nei Campi elisi, e invece sono tristi, incazzati,
inconsolabili nell’Ade. Con solo qualche ricordo della vita, in genere vago, ma
quanto basta a un rimpianto senza fine. L’oblio non funziona, la cancellazione
non è mai totale. Qualcosa resta. Il peggio.
Le altre puntate qui
https://grazioliluigimario.blogspot.com/2018/07/achilleide-appunti-1.html
e qui
https://grazioliluigimario.blogspot.com/2019/01/achilleide-appunti-3-achille-muore.html
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