12/07/18

C'era questo grande guerriero (Achilleide - appunti, 1)



C’era questo grande guerriero, Achille, che se ne stava in disparte nelle sue tende, molto adirato perché dei suoi cosiddetti amici gli avevano sottratto la sua schiava preferita e l’avevano assegnata a quel vecchio vanesio del capo, che ne aveva già a bizzeffe e non era neanche in grado di farle contente, o almeno così si sussurrava. Ma erano malignità, perché se uno si incapriccia così della preferita del suo guerriero più forte, uno da cui possono dipendere le sorti della guerra in corso, qualche capacità residua bisogna attribuirgliela per forza, al di là di una sana libidine senile. Senza contare che lui, Agamennone, per quella guerra, aveva fatto una rinuncia di quelle grosse grosse, il sacrificio cruento della figlia più cara, cosa che di sicuro avrebbe pagato un giorno o l’altro. Non che Achille fosse poi così innamorato, a quel tempo gli eroi erano intelligenti, mica si innamoravano, e poi di amiche e amici ne aveva anche lui quanti ne voleva; quello che gli bruciava era lo sgarbo. Lui era indiscutibilmente il più forte, se le cose erano andate bene fino a quel punto gran parte del merito era suo, e quel trombone di capo degli eserciti, con la sua barbetta ben curata e il pizzetto brizzolati, aveva anche lui il suo giro per tutte le orge che gli andava di organizzare: se si era impuntato per quella Briseide, con la scusa che aveva dovuto cedere la sua amante pure in –eide (Criseide) per calmare un Apollo arrabbiatissimo (a quei tempi l’ira scorreva a fiumi, non avevano ancora imparato a controllarla in vista del peggio), che aveva scatenato la solita pestilenza per l’assassinio dei suoi sacerdoti ex-mariti sia della sottratta che della contesa, era solo per far vedere chi comandava lì, mica per altro, e lui, lui Achille dico, questo proprio non glielo perdonava, gliel'avrebbe fatta pagare lì sul posto se non gliel'avesse impedito una dea… a lui e a tutto il corteo di falsi amici che gli dicevano di essere ragionevole, che insomma di bottino di guerra ne aveva accumulato a iosa, in schiavi ori e armi, e che se voleva gli cedevano qualcosa del proprio, ma che per favore la smettesse di fare il bambino viziato. Per una donna poi! Traditori bastardi tutti!
Non gli interessava niente a quelli, né di lui né del capo, volevano solo che la guerra finisse in fretta che almeno così tornavano a casa. Intanto invece le cose andavano che un giorno le prendeva uno, un giorno l’altro, e i morti non si contavano. Roba non molto importante, è vero: solo soldati semplici, fantaccini, servitori, carne beccata dai corvi, sangue che irrorava quella pianura secca, già rossa di polvere di suo e ora della poltiglia delle viscere e del sangue, che comunque non ci cresceva niente di niente lo stesso. Solo che ogni tanto ci lasciava le penne anche qualche guerriero con le sue armi e il suo cavallo, e la sua armatura!, fratello di un comandante, figlio di un re, e le famiglie a casa si lamentavano, che ci tenevano alla discendenza, loro, non si erano fatto il mazzo per prendere il potere per poi lasciarlo a qualche cugino sfaccendato o fratello degenere che nel frattempo, nel frattempo della guerra che andava avanti e non finiva mai, tenevano caldo il letto della regina e davano fondo alla dispensa e ai forzieri. E poi l’onore, l’onore! Una parola che, sembra, contava eccome, allora. Mentre oggi non serve nemmeno più per sciacquarsi la bocca. Magari è meglio così. Anche la vergogna, se è per questo… mentre allora persino i re, e anzi i re più di tutti in certi casi, erano i primi a provarla. Non si vergognavano di vergognarsi. Per dire che un po’ di grandezza ce l’avevano… Achille invece no, stavolta. E avrebbe dovuto, come quella volta che l’avevano vestito da femmina per evitargli la guerra e il destino che lo aspettava, non dico altro perché se no rovino il finale… e al tintinnio delle armi, si è tolto tutta quella mascherata e così al suo destino è andato incontro di corsa, con gran dispiacere della mamma, che sarà anche stata una divinità (minore però), ma era pur sempre una mamma. Anche i greci! Va be’…

Erano epoche, quelle, in cui il tempo era piuttosto ondivago, ancora incerto su se stesso, cosa era o non era, che direzione darsi, che senso aveva o doveva prendere, così andava da una parte e poi dall’altra, si fermava, tornava indietro, rallentava, accelerava, si stiracchiava, si avvitava su se stesso e a volte persino si dimenticava di se stesso e prendeva delle lunghe pause, si assentava, e sebbene la cronologia avesse raggiunto una sua pace aritmetica sommando un anno all’altro, stagione dopo stagione, come da programma, senza indagare oltre, questo non sembrava avere un influsso determinante sulla vita degli uomini,  e i loro anni si allungavano e contraevano senza avere una lunghezza e un ritmo regolari, tutto era imprevedibile, a volte certi anni, singolarmente o a mucchietti, venivano magari ufficialmente contabilizzati, ma poi, a guardare a ritroso, erano stati saltati del tutto, non solo non erano ricordati o non era successo niente di niente (questo accade anche oggi, e sono anni benedetti), ma proprio non c’erano stati, c’era un buco di tutto tranne che nei calendari, la gente manco se ne rendeva conto, per cui magari uno partiva per un viaggio e aveva un sacco di avventure e quando tornava erano passati pochi giorni o viceversa intere generazioni, e tutto era diverso e insieme uguale, o uguale ma pure diversissimo, e un altro andava in guerra giovanetto imberbe, ci stava 10 anni, veniva ucciso poco prima che terminasse, e poi si scopre che viene vendicato da un figlio di 20 o più anni che chissà da dove era sbucato, e ciascuno aveva un tempo suo che raramente coincideva con quello degli altri, e allora solo per poco, ma quel poco era tremendo, di gioia selvaggia o di lutto indicibile che non si vedeva l’ora finisse e invece non finiva mai, mai.

Nessun commento:

Posta un commento