24/07/21

Il Francia, Annunciazione

 
 

Di questa Annunciazione, splendida, mi piace il grande cielo, l'azzurro infinito, e che l'angelo sia all'aperto poggiato a terra, nel paesaggio, quasi. E quella ragazza meravigliosa, sulla soglia di casa, con alle spalle la colonna che rappresenta il figlio a venire (come dicono) e davanti quei due gradini, che la innalzano da terra, e insieme ve la conducono. Ancora un passo, due, e è fuori. Ma un solco nel terreno indica che all'angelo non potrà avvicinarsi, come questi a lei, perché l'estrema vicinanza è anche un'incolmabile distanza. Ed è proprio questo che a me piace. Mi piace la distanza.

 

***

E mi piace che sia all'aperto, in luogo pubblico anche se non c'è in giro nessuno: la Vergine sulla soglia di monumentali edifici tondeggianti, l'angelo sul nudo terreno con alle spalle colonne squadrate, in una fuga di rette verticali, mentre sullo sfondo è chiuso da un paesagio sereno, lacustre si direbbe; e poi, soprattutto, mi piacciono i due alberelli, cresciuti chissà come in mezzo a quelle architetture monumentali, bellissimi lì, e nel quadro, a dare, al di là del loro valore simbolico, quel supplemento di vita di cui la città sembra bisognare, così pura nelle sue linee ma un po' gelida, affusolati, delicatissimi, essenziali. Sono esili, non stenti, forti invece, mi sembra, pieni di promesse. 

 


22/07/21

E’ bello ubbidire all’alfabeto (Appunto su Il tramezzino del dinosauro, di M. Belpoliti)


Ho il vizio di leggere i libri dall’inizio alla fine. Anche quando permetterebbero di non farlo, quelli con l’indice dei testi alfabetico, per scelta o comodità; o per evitare altre forme di organizzazione, più impegnative. Sono fatto così. Mi piace ubbidire all’alfabeto. Inchinarmi alla sua dolce tirannia.

I pezzi di Il tramezzino del dinosauro, scelti tra quelli sulla Stampa tra il 1999 e il 2006, seguono questo ordine. Sono tanti brevi articoli che sembrano altrettante istantanee, istantanee che sono epifanie. Belpoliti vede le cose, non le va a cercare. Le trova. Ha un radar speciale per questo. Sono cose che hanno sotto gli occhi tutti, ma appena il suo sguardo si posa su una di loro, la mette a fuoco, scatta l’illuminazione, che però subito si ramifica in un’analisi o una storia.

Non sono oggetti sfiziosi o rari che va a cercare, ma cose comuni che incrociano meno i suoi sguardi che i suoi pensieri. Non credo sia la loro vista a scatenarli, è il modo di pensare di Belpoliti, i suoi pensieri sempre in movimento, che li conduce alla soglia del visibile, dove allora i suoi occhi li captano. E’ una specie di Mithologies (non a caso il Barthes giapponese viene citato nel libro, p. 20 e 46), dove i miti sono le cose. Alcune legate alla sua storia personale (Biciclette), altre alla vita quotidiana e alle minime novità di cui è costellata. Invenzioni e merci che entrano senza far rumore nelle nostre consuetudini e le cambiano radicalmente e di cui ci accorgiamo solo quando ci vengono a mancare o qualcuno le guarda come non le abbiamo mai viste. E allora scuotiamo lentamente la testa avanti e indietro, avanti e indietro, e poi alziamo gli occhi e pensiamo: è così. E a volte ci sentiamo più intelligenti. Migliori.

14/07/21

Intervista a Tomaso Kemeny 11-10-1981


 

Kemeny svicola, coltiva l’arte della deviazione, il discorso laterale, quasi la reticenza per quanto concerne la poesia.

L’ingenuo intervistatore, conoscendo la squisitezza della persona e la varietà e l’ironia della sua conversazione, era invece portato a credere sin troppo facile il suo compito, anche perché non ignora che, nonostante le denegazioni di pragmatica, raramente un poeta si sottrae al sacrosanto piacere di parlare del proprio lavoro, all’accondiscendenza del chiarimento, o quanto meno al dispiegamento delle intenzioni. Tanto più che in questo caso l’intervistato è professore universitario, nonché traduttore e critico.

 

Invece niente: Kemeny comincia a dire che la poesia è per definizione senza padre, che qualsiasi gesto di soccorso è superfluo o arbitrario, che nemmeno l’autore vanta dei diritti su di essa, se non da un punto di vista sociologico, come etichetta di identificazione comunitaria, o nei casi peggiori, per sfizio narcisistico. Ma la cosa grave è che in linea di massima fa seguire a queste dichiarazioni di principio, in questo tono del resto abbastanza diffuse, i fatti.

Anche quando, a domande dirette e forse brutali, la gentilezza sembrerebbe indurirlo a qualche cedimento, subito ti accorgi che ha già imboccato un’altra strada, che ha certo a che fare con la sua poesia, ma non è una spiegazione né una giustificazione teorica più o meno esterna: qualcosa di parallelo piuttosto, ovvero, in certi casi, l’esplicitazione delle condizioni di scrittura. Perché soltanto di questo può in fondo parlare: di come si sentiva o cosa provava o pensava mentre scriveva, dato che uno è poeta soltanto quando scrive.

Quando uno dice infatti: sono un poeta, enuncia solo il fatto di esserlo stato in certi periodi e il suo desiderio di poterlo essere ancora.

I testi, loro, stanno da soli, rotondi e catafratti, in cerca di un soggetto, o di mille soggetti, o di mille frazioni o fantasmi, di soggetto ancora a venire: duri come sassi ma monchi, in attesa della follia della lettura.

 

“Una volta non era così però” – aggiunge –. “Quando ho cominciato a scrivere mi muovevo in modo un po’ selvaggio, scrivevo tutto quanto mi veniva in mente e non mi interessava il lettore. Scrivevo per me e per i mostri dietro l’orecchio, senza tagli, discriminazioni o scelte: in un certo senso i mostri davanti al naso li disprezzavo persino. Pensavo che la poesia fosse come una seduzione vivificante, qualcosa vicino alla natura nei suoi momenti di eccesso, e che fosse a sua volta un eccesso, ma del linguaggio, non della coscienza.

Poi ho incontrato André Breton, una persona straordinaria, che emanava un grandissimo fluido come una seduzione vivificante, il quale mi ha insegnato a scegliere, a staccarmi dalla follia. Il poemetto “quando” (Tool, Milano, 1970), dedicato appunto a Breton, ha segnato questo distacco e mi ha aiutato a uscire dal solipsismo. Cercavo in quel periodo la contraddizione tra il lirico e il banale, pensando, come del resto tuttora, che la banalità avesse una sua dignità letteraria. L’intensità, la forza, mi interessavano di meno: era una poesia in cui lasciavo molte tracce di me stesso.

In Il guanto del sicario (Out of London Press, New York- Norristown- Milano, 1976, con traduzione inglese a fronte fatta dall’autore stesso), come in parte suggerisce anche il titolo, tutte queste tracce ho cercato di farle sparire affinché potesse emergere un mondo autonomo.

Mentre prima rifiutavo la forma sostenendo che io non sono un ragioniere del verso, scrivendo questo libro mi si è rotta la testa in due, e da una parte c’era un’orchestra che mi suonava nelle orecchie all’impazzata, mentre nell’altra, quando cominciavano a venire le parole, venivano come incise, inscritte nel ritmo. Era una continua lotta, niente di programmato quanto al tipo di verso, solo che dopo mi accorgevo che si trattava di anapesti, giambi o dattili perfetti. Ne è uscita una poesia molto orale. Il tema più insistente era la pluralità di maschere: non c’era un soggetto lirico, o anche dell’enunciato; c’erano folle di soggetti che urlavano la loro rabbia o gioia o sberleffo. Un’iperbole di gente che parlava di cose dette, tutto assieme.

D’altronde perché dire per forza una sola cosa per volta? Era il contrasto derivante da questa contemporaneità che creava la tensione.

Anche in Qualità del tempo (Società di poesia, Milano, 1981) penso ci sia un mondo che ruota appunto attorno al problema del tempo, il tempo del corpo, del teatro, del cicaleccio, del luogo comune. Attraverso un ritmo implosivo, che esplode continuamente su se stesso, le parole, invece di spazzare la pagina, fanno un po’ i netturbini del cosmo, dei suoi residui. E come residui di esistenza e percezione funzionano queste poesie, pur senza la retorica della verosimiglianza. In essa gli opposti, che erano sempre stati sacralizzati o demonizzati, non vengono orientati verso l’inferno o il paradiso, ma dissolti nella carne senza l’apporto di alcuna mitologia, in quanto penso che il mito senza mito, quello che caratterizza il nostro tempo, sia certo il più grande di tutti. La parola, il corpo, la fenomenologia della vita quotidiana sono talmente grandi e terribili che è inutile andare a cercare, per nobilitarti, i cascami della metafisica.

In queste poesie, più che lasciare un fantasma di me, penso succedano delle cose, degli eventi… Ho evitato di mettere in esse un codice ermeneutico o un sistema comunicativo in cui ci siano delle curiosità; le regge solo una logica dell’intensità, una, credo felice, coerenza che non deve niente alla logica. Non c’è dialogo né domande né risposte, solo un linguaggio come coltello, la ricerca della forza. Non ho nessuna risposta da dare perché non pongo domande: si tratta di oggetti senza padre che mi piace che girino. Certo, vietarsi la comunicazione intesa come piccola concessione implica una certa crudeltà, ma io non voglio vantarmi o piangermi addosso, voglio solo lasciare frammenti di energia.

 

Puoi ritornare un attimo al “tempo” del titolo?

Il tempo è una qualità poco tangibile; non riusciamo a percepirlo, mentre invece percepiamo gli oggetti, gli eventi. Il tempo è quell’elemento astratto che fa sì che si scopra che “l’eternità è un concetto cupo” (che è il titolo di una delle otto sezioni del libro). Le poesie tentano di non frenare il tempo, mirano pure all’eternità, ma il loro atteggiamento non è tombale, quello cioè di chi si vuole procurare il biglietto d’ingresso dell’eternità: le poesie sono nel tempo, e quindi nella possibile menzogna dell’eternità, dato che, una volta venute, hanno questa piccola menzogna della resistenza al tempo. A ciò si aggiunge il tempo di lettura e di scrittura: sono eventi; le poesie sono venute e si sono fermate sulla pagina, sono azioni che continuano ad avvenire a totale negazione della possibilità dell’eterno, del trascendentale. E non solo perché hanno il loro limite oggettuale (il libro) o di comprensibilità (durata e senso di una lingua).

 

Nell’insieme di questa economia il lettore viene ad acquisire un ruolo fondamentale.

Naturalmente. Questo libro è una sfida al fantasma, alla proiezione di sé, alla follia della scrittura ed è un invito alla follia della lettura. E’ il lettore che deve proiettare ciò che io invece faccio di tutto per cancellare; qualcun altro che deve lasciare le sue impronte sul testo e farlo rinvenire attraverso una lettura necessariamente indefinita, dato che il testo non si riesce mai ad addomesticarlo. E’ pericoloso e folle, appunto: leggere poesie è come essere investiti; io mi auguro che i miei lettori non muoiano per questo… ma che si limitino a perdere le gambe, la testa… e tutte le altre parti del corpo.

09/07/21

Ricordi di copertura 12 - Il piccolo gagà e passo successivo


Attorno ai 14-17 anni ho avuto la mia fase gagà. I miei mi avevano fatto fare un abito a 3 pezzi su misura da Elia, il papà di Giuseppe, mi ero comprato un borsalino per l'inverno (vestito così sono andato per la prima volta a teatro da solo, al Piccolo, a Milano, a vedere il Marat-Sade di Peter Weiss), un calzolaio amico di mio papà mi ha fatto delle scarpe nere lisce, con fibbia, morbidissime, che anni dopo ho passato a mio nonno Mario perché, io che sfascio le scarpe dopo pochi mesi, ero stufo di metterle, così come un altro paio di tipo inglese, color rosso cuoio antico, comprate a un prezzo esagerato da Pompeo a Bergamo (taccio la reazione dei miei), finite pure loro ai piedi del mio nonno adorato, e questo mentre sentivo solo Rolling Stones, Animals, Bob Dylan e tutta la roba buona e cattiva di metà anni 60. Poi ho cominciato a vestirmi solo di blu, tanto che sembrava che portassi sempre gli stessi abiti e pullover e maglioni. Poi sono arrivati gli ultimi anni 60. Ero cambiato già prima, di fatto, e poco mi hanno cambiato quelli. Un po' sì, ma mica tanto. Certi miei amici molto, invece. Io leggevo, andavo al cinema, dirigevo cineforum, andavo a mostre, facevo piccoli viaggi, leggevo e leggevo, e un po' scrivevo. Come adesso.

Ma perché racconto queste cose? Perché ieri ho letto una cosa in cui si parlava di un calzolaio che disegnava, faceva e riparava le scarpe cantando canzoni anarchiche.

E ora per la sorpresa di vedere quanto poco sono cambiato.

Amen.

04/07/21

INTERVISTA A MAURIZIO CUCCHI (09-01-1982)

 


Maurizio Cucchi è nato a Milano nel 1945, dove risiede. Lavora in campo editoriale ed è critico letterario di Il giorno e l’Unità. Collabora a varie riviste, tra le quali L’illustrazione italiana, ed è presente in tutte le più importanti antologie di poesia contemporanea. Oltre a quelli citati nel testo ha vinto anche il premio Serravalle Sesia nel 1978 ed è stato due volte finalista al Premio Viareggio.

 

Quello di Maurizio Cucchi è nel ventaglio di nomi che di solito vengono citati quando si parla della nuova poesia, forse l’unico che non manca mai, ed è significativo che non lo dimentichi nemmeno chi non lo ama particolarmente.

Sta di fatto che quando nel 1976 apparve il suo primo libro, Il disperso (premio speciale della giuria del Premio Martinafranca), in quella che probabilmente è la più prestigiosa collana di poesia italiana e cioè Lo specchio di Mondadori, non ci fu chi non ne rimanesse in qualche modo sorpreso: non solo per l’inusuale giovane età dell’autore, quanto soprattutto perché si trattava non di una raccolta di un libro di poesia, compatto e organico, originale e anomalo rispetto ad argomenti, stile e linguaggio allora dominanti.

Da allora Cucchi è rimasto un punto di riferimento costante, confermato da Le meraviglie dell’acqua (Id, 1980, Premio Carducci) , anche se la sua poesia non è riconducibile propriamente a nessun gruppo o maniera e ha scoraggiato eventuali imitatori. O forse proprio per questo. Del resto tentativi di definirla, classificarla o solo ricondurla per certi aspetti a qualche modello o ascendente, non sono mancati, alcuni condotti anche con precisione ed efficacia (e così si è parlato di linea lombarda, di tessa, Tozzi, Proust, Gadda e Céline), ma ogni volta che si riesce ad avvicinarglisi, Cucchi è già altrove.

 

Perché questi continui scarti da un lavoro all’altro, come testimoniano anche da ultimo i frammenti di Glenn contenuti in Poesia Tre di Guanda?

 

Perché ogni libro che corrisponde per un rapporto di causa-effetto, quasi, ad un momento della mia vita, è concepito come qualcosa di unitario, che ha una sua architettura che non coincide con l’ordine di composizione ma forma una struttura che cerca di rispondere a certe esigenze di equilibrio, di sviluppo dei temi e di progresso, compiuta la quale, o meglio: esaurita l’esperienza su cui si basava, era inutile continuare. Trovo noiosi e superflui quei poeti che magari scrivono cinque libri parlando sempre con la stessa pronuncia e nei quali le poesie sono intercambiabili.

 



E’ forse per questa unitarietà che a proposito di Il disperso è affiorata più volte la parola romanzo?

 

Non è assolutamente vero che io volessi fare della narrativa, semmai tutto il contrario. Cercavo di utilizzare materiali non poetici, alcuni dei quali certo di derivazione romanzesca, per uso poetico, ma non c’era nessun desiderio di raccontare delle storie: c’era piuttosto uno slittamento continuo da una situazione all’altra, così che non una storia veniva data, ma l’effetto della situazione.

 

Se si pensa nell’insieme la disseminazione dei motivi, tuttavia, una specie di narrazione può risultare.

 

Certo c’è la presenza di mille movimenti narrativi, ma non c’è mai una storia che inizia o si conclude.

Ogni poesia era una collezione di frammenti, spesse volte disparati. Una volta resomi conto cioè che era inutile tentare di prolungare un inizio efficace per continuare il discorso, ho cercato di procurarmi un meccanismo che potesse consentirmi di mettere assieme le parti disparate, apparentemente, di diversi discorsi, che in realtà erano poi lo stesso discorso perché appartenevano allo stesso circolo spazio-temporale.

 

Il soggetto che attraversa questo circolo disperdendovisi è cioè impossibilitato a ricondurre ciò che incontra a se stesso o a un ordine qualsiasi, si ha l’impressione che sia un adolescente.

 

E’ vero solo in parte, in quanto ho scritto questo libro da adulto, ma è possibile che le scoperte che andavo facendo allora comportassero un affacciare il volto sul mondo di marca, più che adolescenziale, giovanile. Il protagonista è retrocesso a una condizione di ingenuità, di sradicamento e di emarginazione, è fuori da tutti i giochi ma comunque passa in mezzo a tutti.

 

Incontra così una pluralità di voci che interferiscono l’una con l’altra, oggetti e situazioni della vita quotidiana, “storie di quartiere, di casamento, di scala” (Raboni) e tutta una proliferazione di percorsi interrotti e solitari che solo raramente, e con segno differente, ritroviamo in Le meraviglie dell’acqua, il quale muove piuttosto da una relazione e da un interlocutore privilegiati.



Semplificando si potrebbe infatti dire che l’argomento centrale di questo libro è lo svilupparsi di un rapporto, le sue problematiche e gli ostacoli che incontra. Il problema di partenza qui è quello di una abilità e esistere e quindi di una idoneità a vivere, come indica anche il titolo di una sua sezione: L’abilità dei passi. C’è l’esigenza di esserci, di avere un rapporto più calmo e equilibrato con l’altro, di riconoscere se stesso nel volto dell’altro, anche se questo è un po’ narcisistico…

 

Ma non mi pare che questa esigenza resti poi aderente alla realtà. 

 

Anzi, in certi casi c’è un atteggiamento fortemente in contrasto con la realtà: il desiderio di abilitarsi infatti porta spesso a cercare di rimuovere gli ostacoli, a fingere che non esistano per poter dire (ma forse semplifico troppo): “siamo felici”. Per esempio, tutta la sezione Stazione Paradiso, è un tentativo di rifiuto della realtà, tentativo miseramente fallito, come è ovvio che succeda o come il finale poi denuncia.

 

Ciò che non comporta tuttavia, in molti casi, un ritorno più equilibrato alla realtà.

 

Questo perché il soggetto è un imbroglione con se stesso; parte sì verso la conquista di una normalità di rapporto (il quale naturalmente è una metafora, anche se io non l’ho concepita come tale), ma poi si perde nel vaneggiamento, come si vede in una delle mie poesie preferite, Dolce fiaba. E’ il vaneggiamento, la visionarietà, l’allucinazione sono predominanti in questo libro, nei punti più suoi almeno.

 


Le meraviglie dell’acqua è stato accusato di poeticismo…

 

Il disperso veniva accusato del contrario, se è per questo; ma sono discorsi che parlano della poesia come se fosse solo un affare letterario: questo si trova già in tizio… Caio è andato più in là… Ma la “letteratura”, anche la “buona letteratura”, è una cosa che danneggia la poesia. Io la trovo insopportabile. O mi dici qualcosa che mi interessa, che riguarda la mia vita, che mi emoziona, o altrimenti… quelli che fanno degli esercizi letterari o della “buona letteratura” mi danno noia, mi asfissiano. Preferisco fare una buona passeggiata.

 

Questo disprezzo per la “letteratura” mi fa tornare alla mente un intervento in cui identificavi la poesia con la parola autentica e piena.

 

Sì, certo, la poesia è la parola che parla, che non è muta o stereotipata, che ha in sé valori autentici… è uno dei pochi antidoti all’annullamento della parola. La parola ha lo spessore di una lamina, si consuma immediatamente, mentre la parola poetica è piena, ricca di senso che si ciclica continuamente. La parola non deperibile. Basta vedere la tradizione poetica italiana, che è mirabile e ricca quanto trascurata dalla cultura becera di questi tempi, nella quale molti conoscono tutto dei nuovi filosofi, per esempio, e magari non hanno letto Guittone o Jacopone…

 

… e la poesia del nostro Ottocento, della quale tu hai curato un’antologia per Garzanti.

 

Che è stata in un certo senso una grossa scoperta per me, che fino ad allora ero rimasto spesso legato ai luoghi comuni scolastici: che si trattasse cioè, a parte alcune grandissime riuscite (delle quali tuttavia era necessario scovare ad ogni costo i difetti), di un’accozzaglia di imbecilli falliti, mentre invece non sono pochi i poeti importanti. Tanto che se qualcuno, per esempio, mi assicurasse che il mio lavoro resterà come quello di uno Zanella o di un Aleardi, al contrario di tanti io ne sarei lusingato.