11/04/24

Ex voto



  

Avrebbero dovuto saperlo, prima di avventurarsi ad attraversare il fiume, dove il guado era più semplice. E certo non dubitavano che il posto giusto fosse quello. Era un punto di passaggio di uso comune. L’argine scendeva dolcemente e la risalita dall’altra riva altrettanto, mentre tutto attorno gli argini erano alti, perché le piene improvvise e travolgenti non erano rare, quando i temporali sulle colline vicine erano particolarmente forti. Ma quel giorno di temporali non si vedeva nessuna minaccia. Il cielo era grigio, l’aria umida, ma stagnante. Caldo non faceva, e i vecchi avevano dovuto coprirsi, mentre agli sposi bastavano gli abiti da cerimonia, che non potevano essere guastati da nessun pastrano, e il calore dell’evento imminente, i corpi in ebollizione. I buoi, bellissimi, erano incoronati da vezzose ghirlande; il carro se l’erano fatti prestare da un amico che ne aveva uno tutto decorato che sembrava fatto apposta per le cerimonie e non aveva voluto nessun compenso, salvo l’onore della guida. Già era stato invitato al banchetto! Gli sposi erano radiosi, soprattutto lei, che coronava un sogno. Era innamorata da quando aveva 14 anni! Lui era un po’ più serio: pensava anche alle responsabilità. Alla futura famiglia, ai figli. Lei invece non voleva altri pensieri, per oggi. Ma forse la sua immagine è stata aggiunta a posteriori, forse lei stava andando verso il sagrato da un’altra strada. La mamma dello sposo, alle sue spalle, rimasta vedova presto, in tempo di guerra, godeva della gioia più rattenuta del figlio e di una maggiore tranquillità e aiuto domestico e in cascina, probabilmente. E dei nipotini da accudire: era ancora giovane, di forze ne aveva, e anche tanto da amare, ancora.

Poi non si sa cosa è successo. L’acqua un momento prima si era attestata poco sopra il garretto dei buoi, più tanto non era previsto che arrivasse. Il clima sul carro era sereno. Il conducente tranquillo. Forse il futuro marito aveva detto qualcosa di divertente. Un sorriso era spuntato sulle labbra di tutti. Tranne del bambino, che non aveva capito e si godeva la gita accanto alla nonna guardandosi attorno con il suo solito stupore. Ci dev’essere stata una buca imprevista, una piccola voragine provocata dalle ultime piogge, uno smottamento sotterraneo: fatto sta che il bue di sinistra si è trovato senza appoggio e anche quello di destra ha faticato a trovarlo, con le due zampe di destra che scivolavano perché quelle di sinistra annaspavano per cercare il suolo. Così il carro all’improvviso si è piegato: il bambino è stato sbalzato fuori e la nonna con lui. Gli altri sono riusciti a attaccarsi ai bordi del carro. Il bambino e la nonna, che non sapevano nuotare, sono stati trascinati dalla corrente invece. Gridavano e si agitavano. Mentre i buoi hanno provato a recuperare l’equilibrio e alla fine lo hanno trovato trascinando il carro ormai di traverso sull’altra sponda con le altre donne aggrappate e incolumi, i due uomini si sono gettati così com’erano, immediatamente, e hanno cercato di raggiungere la nonna e il bambino pur impacciati dagli abiti. Il conducente ha afferrato il bambino e è riuscito a portarlo a riva abbastanza presto, mentre lo sposo faticava a mettere il salvo sua madre, che si agitava e gridava e era appesantita dagli abiti impregnati di acqua, già che non era leggera di suo, e rischiava di essere trascinato dalla corrente lui pure. Allora l’amico si è sbarazzato ha corso un po’ lungo la riva sbarazzandosi nel contempo della giacca e si è gettato di nuovo per aiutare lo sposo, e in due, tra grandi ambasce e con una fatica immane, sono riusciti a tener ferme la vecchia e a trarla il salvo. Visto che era ancora viva e si muove, si sono abbandonati sulla riva con il cuore che sembrava scoppiare, i muscoli che dolevano, il respiro che tardava a venire e poi usciva a fiotti, con l’acqua bevuta. E’ stato allora che hanno visto la donna librata tra gli alberi che sollevava le braccia per l’esultanza, o per benedirli. Sembrava una contadina. Era vestita come una di loro. Chissà chi era.

 

Foto di Orlando Paci, 1956/57 tra Calmazzo e Urbino

26/03/24

Nuvologia


 
Di sera, sulla città, le nubi del primo autunno sono bianche, nel cielo luminoso. Si muovono lente, con calma invidiabile. Poi prendono sfumature grigio-rosa, ma non mostrano di risentirne: il loro passo resta inalterato. Per loro è lo stesso. Per me no. Non importa, va bene ugualmente.

Hanno passato a fatica le montagne; sono superstiti. Un po’ stanche, ma adesso la paura è passata. E’ dimenticata anzi, e così si godono il viaggio, indolenti. Fischiettano. Nella testa ne ripeto il motivo.


16/03/24

Pigpen



Il bambino è sporco per natura. Chi gioca all’aperto, nei cortili, per strada, all’oratorio e nel bosco, come faceva il sottoscritto, è sempre sporco. Il bambino non ama lavarsi, se ne impipa delle sozzure, non avverte i miasmi, sguazza nel fango, sta bene solo lontano dal sapone. È certo questo che mi affascina in Pigpen. Mi piace anche il nome, che significa recinto (pen) dei maiali (pig), porcile, letamaio…, ma che in origine era scomposto in Pig e Pen separati e uniti da un trattino: un maialino che si rotola nella sporcizia e una penna, che sta per lo strumento della scrittura, o del disegno, che spesso nello sporco è intinto e, per me, per un nomignolo a cui sono affezionato. La debolezza si infiltra dappertutto.
Ma ciò che veramente mi ha sempre affascinato è la nuvola di polvere attorno alla testa, che gli dà quell’aria svagata, di chi non ha problemi a stare con gli altri ma nemmeno da solo, con i suoi giochi fatti di terra e di banalissimi oggetti trovati (sassi, legnetti, foglie) e le sue fantasticherie che lo accompagnano sempre. Sempre avvolto dai suoi pensieri, e quindi perennemente distratto. Perso in sé e poco comprensibile agli altri..
Pigpen porta in giro senza problemi, e direi addirittura spensieratamente, la stessa polvere da cui, al pari di tutti, come ci ricorda premurosamente la Bibbia, proviene e a cui tornerà. A volte ne ha il sospetto, ma ci scherza sopra (ma intanto lo dichiara). A Charlie Brown che gli chiede perché si lava così poco, risponde: "Ho addosso la polvere dei secoli: chi sono io per profanare il passato?". Lui, al contrario del perfetto asceta depresso, non ha bisogno di particolari penitenze e meditazioni per ricordarselo, non se ne dimentica un istante, ci convive pacificamente e questo gli conferisce la serenità che lo caratterizza, almeno ai miei occhi. È il bambino e al contempo un memento quia pulvis ecc. ambulante, ma inconsapevole di esserlo e per questo sottilmente efficace, perché non infastidisce con nessun moralismo. Incurante di se stesso, conciliato, incurante perché conciliato e viceversa, non provoca, porta in giro la propria mortalità con la leggerezza della polvere che gli aleggia intorno, sereno, senza patemi o paure, spensierato. Sono gli altri che si preoccupano per lui, che gli fanno notare, e a volte gli rimproverano, la sua sporcizia, e lui ogni tanto cede alle insistenze (è cortese, mai aggressivo, anche se un po’ casinista, fracassone: non a caso suona la batteria) e si lava, ma appena finito, trasformato in un bambino normale, irriconoscibile, il fango e lo sporco tornano in un attimo a rivestirlo, non come un involucro ma come la sua vera identità. È un attrattore istantaneo di sporcizia. Una potente “calamita per la polvere”. Dalla polvere viene, alla polvere va e con la polvere vive, e bene. Dov’è il problema? Giochiamo?

14/03/24

Frank Westerman, telescopi navicelle e astronauti (2023)



Poche settimane fa un lander russo si è tristemente schiantato contro il polo sud della luna, che doveva raggiungere alla ricerca di ghiaccio e altre risorse in vista della creazione di una base per ulteriori lanci nello spazio e per un eventuale sfruttamento minerario. Il fallimento sarebbe dovuto anche all’errata impostazione delle coordinate per i comandi di inserimento nell’orbita lunare, dalla quale poi passare con maggior sicurezza alla fase dell’allunaggio. Pochi giorni dopo, l’operazione è invece riuscita a una navicella indiana, mentre la Cina sta già effettuando esperimenti di coltivazione da qualche parte sul lato oscuro. Sempre a far le cose di nascosto! Non sarà un fallimento che fermerà le potenze mondiali nella corsa alla conquista dello spazio.  Del resto quello attorno alla terra è già ampiamente colonizzato da miriadi di satelliti e di catorci non più funzionanti, se non come minaccia di cascare prima o poi sulle nostre teste, e altri stanno esplorando il suolo di pianeti vicini, mentre altri ancora, Voyager 1 e 2, partiti decenni fa, hanno lasciato il sistema solare e ora vagano nello spazio interstellare nella speranza che qualcuno li intercetti e sappia decifrare la tecnologia e i messaggi che trasportano, nonché credere alle belle favole sull’uomo, senza “fame e povertà, dolore e malattia, morte e sopraffazione”, che raccontano. Gente evoluta ma ingenua. Così avanzata da nemmeno concepire la reticenza e la menzogna.

Con Copernico e Galileo l’uomo ha perso la centralità nel creato, ma l’ampliamento di questo ha indotto a non escludere che altre specie vivano chissà dove, secondo il noto paradosso di Fermi. Abbandonati nello spazio infinito, ci sentiamo orfani e soli, e forse è anche questa solitudine che speriamo di colmare attraverso lo studio e la perlustrazione dell’immensità del cosmo. Guardiamo il cielo da sempre, e da sempre lo popoliamo praticamente di tutto e sogniamo di raggiungerlo. La recente consapevolezza che il nostro soggiorno sulla terra è a termine, un termine che peraltro ci stiamo impegnando ad accelerare con la nostra indefessa operosità, ha reso ancor più urgente il desiderio di trovare altre case nel cielo, più abitabili di quelle dello zodiaco. Grandezza della nostra specie! Abbiamo guardato, siamo rimasti incantati e sgomenti, abbiamo sognato, e poi studiato, e poi qualcosa capito e negli ultimi decenni qualcosina anche fatto. E continuiamo, non scoraggiati dai fallimenti e entusiasti per ogni nuova scoperta. La conoscenza è tutto, per alcuni. La volontà di dominio e la concorrenza letteralmente senza confini lo è per altri, invece.

Frank Westerman nel suo ultimo libro, La commedia cosmica (trad. it. C. Cozzi, Iperborea, 2023), racconta la storia di queste scoperte e della corsa a mettere bandiere su altri suoli. Lo fa non con una ricostruzione lineare e oggettiva, scientifica o storiografica, ma sotto la peculiare forma di tutti i suoi libri che intrecciano reportage narrativo, saggio e memoir, muovendo sempre da ricordi della sua infanzia e giovinezza risvegliati da notizie, eventi o scoperte anche marginali ma che vanno a toccare punti nodali del mondo contemporaneo. All’oggetto principale dell’inchiesta si alternano così, contribuendo in modo decisivo alla sua comprensione, ricordi personali di scuola amori viaggi e incontri, e la rievocazione di momenti gloriosi, ma spesso anche bui della storia olandese e occidentale e delle loro conseguenze e ripercussioni attuali: colonialismo, nazismo, deportazioni, terrorismo, orrori di ogni genere e misura, non ultimi quelli dovuti alla religione e alle sue gerarchie, che Westerman, ateo e anticlericale (la sostituzione di “cosmica” a “divina” del titolo ne è la spia), non si fa scrupolo di denunciare dettagliatamente.

In La commedia cosmica i punti di partenza sono un flirt adolescenziale nel buio dell’osservatorio del liceo, un professore che trasmette la passione per l’astronomia, che nella cultura olandese ha una lunga storia che Westerman ricostruisce anche attraverso figure poco note ma affascinanti (così come poi segue le tracce delle scoperte astronomiche in giro per l’Europa e in particolare nell’Italia di Galileo e di Schiaparelli, a Venezia, Firenze, Milano, fino a Torino,  dove stanno lavorando a moduli per le agenzie spaziali italiana e  europea, o visitando i cosmodromi della Russia, oggi in Kazakistan, e meno famoso noto dell’India, a Thumba Beach, dalla storia incantevole), e la vicinanza a un luogo dalla fortissima pregnanza storica e simbolica come Westerbork. Lì nel 1939 venne eretto un campo di internamento per profughi, che l’anno successivo gli invasori nazisti trasformarono in centro di smistamento da dove 102.000 ebrei, tra cui Anna Frank e Etty Hillesum, furono inviati ai lager e alle camere a gas soprattutto di Auschwitz e Sobibor (le pagine che narrano della Namenlezen, cioè la lettura ininterrotta per 6 giorni di tutti i 102.000 nomi dei deportati che termina il 27 gennaio, giorno della memoria, sono tra le più commoventi, e irate, del libro). Abbandonato alla fine della guerra, il campo, dopo l’indipendenza dell’Indonesia a cavallo degli anni ‘40-’50, fu convertito in alloggio per le famiglie dei soldati molucchesi che avevano deciso di restare nell’esercito olandese, dove si formarono i giovani che negli anni ’70 furono i protagonisti della prima stagione terroristica nei Paesi Bassi (le cui vicende sono raccontate, tra l’altro, nel bellissimo I soldati delle parole, trad. it. di Franco Paris, Iperborea 2015), per diventare infine la sede dove nel 1970 sorse il primo grande radiotelescopio. Questo fu successivamente ampliato a una serie di 14 grandi antenne a cui si affiancò dal 2012 il nuovo sistema LOFAR di migliaia di piccole antenne coordinate tra loro da grandi sistemi informatici a loro volta in relazione con altri sistemi simili sparsi per il mondo: esempio eccezionale di cooperazione scientifica che ritroviamo anche nella costruzione e gestione dell’ISS (Stazione spaziale internazionale). Una cooperazione che tuttavia non sempre regge il peso dei conflitti internazionali, come dimostra l’insuccesso dell’allunaggio russo dovuto anche, sembra, a una deficitaria comunicazione da parte di altri centri spaziali, dopo l’invasione dell’Ucraina, della loro parte dei complicatissimi dati necessari alle operazioni di allunaggio.


L’utopia che proiettiamo nello spazio, ci mostra a più riprese Westerman, rischia ad ogni momento di riprodurre le stesse perverse meccaniche dei rapporti terrestri. “Quante sono le probabilità che, armati delle migliori intenzioni, non creiamo in cielo un nuovo inferno? Nel più probabile scenario del futuro, su Marte ci troveremo davanti noi stessi.” L’astronautica è nata dalla rivalità tra le superpotenze e “non c’è nessuna garanzia che le future colonie spaziali rimarranno senza armi” e che il sistema solare non diventi a sua volta un immenso campo di battaglia, dando “inizio a una nuova era coloniale”.

 Poi però viene a rincuorarci la notizia che la prima fotografia di un buco nero, che si trova “al centro della galassia supergigante Virgo A […] lontano 55 milioni di anni luce dalla Terra” e ha la massa di 6,5 miliardi di Soli, è stata realizzata grazie al “progetto internazionale Event Horizon Telescope (Eht) e [al]la stretta collaborazione di oltre duecento ricercatori in tutto il mondo” (E. Vaudo, Mirabilis, Einaudi 2023 p. 75). A leggere di queste conquiste, come di tante altre che racconta Westerman, lo sgomento e lo stupore, la sensazione (la certezza) della propria insignificanza e insieme l’orgoglio per ciò che gli uomini sono capaci di realizzare si susseguono fino a diventare indistinguibili, e a momenti così intensi che ci si affretta a dimenticarli.

Davanti a questa miscela spaventevole e esaltante niente ci differenzia dai primi studiosi che nei loro rudimentali telescopi videro il cielo ampliarsi e cambiare forma a conferma delle nuove teorie copernicane e galileiane che sconvolsero sicurezze millenarie, rinnovando gli stessi interrogativi elementari, e dunque fondamentali, di cui da sempre “gli adolescenti potrebbero parlare all’infinito, ma [che purtroppo] una volta scomparsi i brufoli la maggior parte smette di far[si]”. Proprio ciò che lo scrittore olandese rifiuta, tanto da metterli appunto per questo a fondamento delle sue ricerche. Perché se è vero che “vogliamo sapere da dove veniamo”, e dove andiamo o vorremmo andare, lo è altrettanto che “preferiamo ignorare quello che siamo diventati” (Noi umani, trad. it. di E. Svaluto Moreolo, Iperborea 2022), che è invece ciò che lui pensa valga maggiormente la pena di capire, senza farsi troppe illusioni o concessioni, e anzi partendo dal “momento in cui il sogno si trasforma in incubo. Scrivendo, dice Westerman, inseguo la verità alla ricerca di microfessure. In tutto ciò che fanno gli esseri umani qualcosa, prima o poi, va storto, ma dove e quando compaiono le prime crepe?  … amo gli sforzi umani, più ancora quando tendono all’impossibile, sono inadeguati” come scrive nel recente Dittico idraulico (ed. or 2021, trad. it. Claudia Cozzi, Wetlands, 2022)


Ci interessa lo spazio perché ci interessa sapere come siamo, e quanto più lontano andiamo, tanto più ci sembra di scoprire qualcosa di noi, non necessariamente gratificante, che ignoravamo ci appartenesse. Nello specchio della lontananza ci vediamo da vicino. L’astronomo e il cosmonauta sono gli eroi di questo viaggio, il primo “umile” e “guidato dalla meraviglia”, il secondo “pieno di audacia” e mosso “dal desiderio”.

Westerman dialoga con tutti, di tutti riporta parole e riflessioni, ma non prende quasi mai una posizione esplicita sulle questioni più importanti che la narrazione e l’inchiesta suscitano, o che stanno alla loro origine, ma si avverte chiaramente lo scetticismo di fondo della sua voce, la piega disincantata di chi ha avuto modo di incrociare molti eventi e molte versioni e punti di vista. Tanto più in quanto ancora si stupisce per le cose belle e per gli impulsi più alti e nobili, e ammira chi cerca di realizzarli o di improntare su di essi la propria vita, ma poi non si aspetta niente di positivo per ciò che verrà, a dispetto di tutte le migliori intenzioni, e in fondo è anche deluso da se stesso perché, quei nobili valori, lui vorrebbe ma razionalmente si rende conto che non riesce a farli propri assoggettandosi ad essi senza pretendere nulla per sé. Per cui si rassegna a guardare, a cercare, incontrare persone, a frequentare convegni, e a riflettere, ricordare, portare alla luce e a conoscenza degli altri, e insomma a raccontare. E a raccontarsi. A raccontare a sé e agli altri.

“Il cinismo era la vistosa maschera dell’impotenza”, dice di sé Westerman in relazione a un suo reportage dalla Cecenia (I soldati delle parole, p. 114);

tuttavia “vedere ciò che gli altri non vedono, per poi raccontarlo” è la strada a cui non ha mai rinunciato. Sia rispetto agli orrori di guerre e attentati, sia di fronte all’inesauribile incanto dell’universo.

Per lui, come per il lettore, è sempre come passeggiare nella vertigine; ad ogni notizia, ad ogni numero pronunciabile ma enorme, impensabile, il ritmo del fiato ha un sussulto, gli occhi vanno oltre la pagina con riflesso automatico alla ricerca di un appiglio, il corpo sembra fluttuare in un’atmosfera impalpabile; poi il tran tran dell’infinito riprende il suo confortevole corso.

Per fortuna Westerman viene in soccorso con aneddoti, storie di scienza e di scienziati e personali, descrizioni di luoghi e incontri con personaggi di ogni sorta. Gente straordinaria, ammirevole, a volte un po’ strana, ma in fondo come noi, solo con qualche piccola differenza, come ciascuno di noi rispetto a tutti gli altri, e questo è rassicurante. Tutto si appiana, e si ritrova un respiro regolare. Il buco nero al centro della galassia Virgo A non ha più niente di inquietante: è solo una bella immagine che immaginiamo di capire. Almeno un po’. Il resto se lo prende la meraviglia. Tutto galleggia nel mistero.


26/02/24

Houellebecq il buono



Annientare (traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, La nave di Teseo, 2022) si presenta come un grosso romanzo di impianto tradizionale che, anche grazie a un’impaginazione agevolatrice e generosa di margini interlinea e pagine bianche, si fa leggere senza grandi difficoltà, privo com’è di asperità di scrittura o di riferimenti (eccetto a figure molto note nella società francese ma quasi tutte sconosciute da noi), e di oltranzismi formali o contenutistici, come un normale romanzo di intrattenimento scritto da un solido professionista. Lo stile è, come al solito in Houellebecq, piano (ci torneremo); i numerosi personaggi non macchiettistici e ben definiti, anche i secondari; i fili della trama ben alternati e intrecciati con sagacia, anche se alcuni vengono interrotti e abbandonati come se a un certo punto non ci sia più nulla da dire e il lettore possa dare una conclusione da sé se proprio gli interessa; e tutti gli ingredienti più sperimentati per stimolare curiosità e attenzione (suspense, società e politica, sesso, saga famigliare) presenti in dosi cospicue. Ci sono persino buoni sentimenti, momenti di dolcezza e tenerezza, relazioni positive, figure apprezzabili per doti intellettuali e umane. E ancora bei paesaggi, sentimento lirico della natura, romanticismo, ironia quanto basta ma raramente spinta fino alla ferocia, cinismo con la sordina, disincanto soft, sperimentato acume nel descrivere le relazioni sociali e umane, buoni dialoghi. Non sembra di parlare di Houellebecq. C’è abbastanza di che deludere il suo lettore abituale. Peggio per lui. Gli conviene resettare le attese. Houellebecq in questo è abilissimo. Non sa che farsene di un lettore pacificato, nel momento stesso in cui gli appronta una poltrona comoda e un ambiente con temperatura gradevole.

Forse è qualcosa che ha a che fare proprio con l’apparente facilità del suo stile, che è così levigato da indurre a supporre che, come suggeriva Goethe, sia stato disseminato ad arte di “segreti palesi”, invisibili per troppa esposizione e per assenza di marche distintive. Houellebecq stesso lo suggeriva in un’intervista pubblicata sul Cahier de l’Herne a lui dedicato (trad. it. Cahier, La nave di Teseo, 2019), dove denunciava “l’estrema incultura dei critici per i quali lo stile deve essere visibile. In Céline, per esempio, si vede il lavoro … quindi c’è stile”. Cicero pro domo sua. E’ comprensibile. Invece in lui, come segnala anche Valentina Sturli in Estremi occidenti (Mimesis, 2020), lo stile “piatto” rientrerebbe in una strategia di estremizzazione del discorso, in modo da renderlo irricevibile così com’è, letteralmente cioè, e da costringere a cercare altro, “contenuti inaspettati e sorprendenti, che devono essere estratti dal lettore, desunti sulla base dello scioglimento di alcuni impliciti”. Che queste osservazioni, valide per i libri precedenti, soprattutto i primi, lo siano anche per Annientare mi lascia però qualche dubbio. Di estremizzazione non se ne trova tanta, o forse è mimetizzata molto bene.


Le vicende narrate, ambientate in un futuro così prossimo (2026-27) da non distinguersi dal presente salvo per l’assenza della pandemia e delle sue ripercussioni, si strutturano attorno a tre filoni principali. Il primo si presenta come un thriller a sfondo terroristico, con attentati sempre più gravi e un uso spregiudicato della rete che denota risorse, conoscenze e abilità informatiche superiori a quanto fino allora conosciuto persino dai servizi segreti. La descrizione degli sforzi governativi per trovare spiegazioni e contromisure si intreccia poi ai retroscena di una imminente elezione presidenziale, in cui recita un ruolo importante Bruno Juge, un potente preparatissimo e rigorosissimo ministro dell’economia, affiancato dal suo assistente e amico, Paul Raison. Questi poi acquisisce sempre maggior rilievo nella trama tanto da diventare il protagonista sulla cui parabola personale si conclude la narrazione, che nel frattempo si è ampliata alla storia della sua famiglia, riunita dall’ictus che ha colpito il padre, ex funzionario dei servizi segreti, nelle cui carte viene trovato un documento fondamentale per cominciare a capire qualcosa degli attentati. Tout se tient.

Oltre alla descrizione molto affascinante (e spietata in un caso) delle azioni terroristiche, che non sono solo attentati ma anche dimostrazioni di cosa può fare il dominio della rete e di quale potenza, ma anche lacune, presenta la sicurezza informatica, ampio spazio viene attribuito ai retroscena delle imminenti elezioni presidenziali, alle strategie comunicative, e ai riferimenti al contesto francese, con i suoi schieramenti e personaggi realmente esistenti o appena mascherati, come il citato Bruno, ispirato all’attuale ministro Bruno Le Maire, amico personale di Houellebecq, che non a caso, ma certo per gioco, qualifica il suo alter ego romanzesco come “il più grande ministro dell’Economia dai tempi di Colbert”.

Ma accanto e oltre questo, Aneantir si configura come una articolata fenomenologia della vita di coppia, struttura portante della società minacciata da quel dissolvimento dei valori che Houellebecq non si stanca di additare come causa e effetto della decadenza dell’Occidente e che porterà ineluttabilmente al suo annientamento, che forse di fatto è già avvenuto, mentre noi vivremmo il suo lento ma inarrestabile svanire, aggrappandoci a quel poco che ci resta, chi può almeno, in particolare all’amore a due consolidato da un buon sesso generoso e rassicurante. Rassicurante è un aggettivo chiave del mondo come dovrebbe essere, e solo raramente è, per lo scrittore francese, che include, in primo luogo, la donna, il cui “ruolo tradizionale [è di] spronare gli uomini a prendersi cura di sé, specialmente della loro salute, e più in generale rinsaldare il loro legame con la vita”, come una brava mamma, ma ovviamente anche amante, preferibilmente dai forti appetiti, sempre disponibile, ma altruista, attenta persino a prevenire i desiderata del compagno, e assolutamente non aggressiva. È questo, l’amore. Che magari non salva, ma aiuta. O che forse sì, salva. Salva il salvabile. Che poco non è.

La vita di coppia è descritta in tutto il suo spettro, sia pure limitata al nucleo base eterosessuale (altre forme per Houellebecq non si danno): Paul, il protagonista, sta vivendo un lungo periodo di raffreddamento, e in pratica di totale estraneità, dalla moglie Prudence, come Bruno che preso dal lavoro e tradito dalla moglie si riduce a vivere all’interno del ministero, con sviluppi per entrambi che non dirò; suo padre, prima dell’ictus che mette in moto le vicende del filone famigliare del romanzo, vive in perfetto appagamento con una donna di modeste condizioni che lo adora, Madeleine, dopo la morte della moglie, non particolarmente rimpiante, contrariamente al padre di Prudence che perde ogni voglia di vivere dopo la scomparsa della sua; Cécile, la sorella ultracattolica, ma buona, è invece felicemente sposata con un notaio disoccupato, lui pure un brav’uomo pur essendo vicino agli ambienti della destra identitaria più estremista (o proprio per quello? Sono idealisti in fondo, anche se non tutti); e infine Aurélien, il fratello più giovane, legato lui sì alla madre, fragile e sensibilissimo come non ne mancano mai in ogni famiglia che si rispetti, che è sposato con una megera ambiziosa che lo umilia in ogni modo, ma poi troverà, sia pure per pochissimo tempo, il riscatto di amore insospettato. Direi che basti.

L’adulto celibe, nevrotico, depresso, arrabbiato e negativo dei libri precedenti si sposta sullo sfondo, in personaggi secondari, lasciando maggiore spazio ai personaggi positivi, o quanto meno non negativi, e persino per l’amicizia, con le sue confidenze e certezze (rassicuranti).

Tra le figure positive, oltre alle donne citate, ci sono alcuni medici, che rivestono un ruolo significativo da una parte nelle vicende che riguardano il padre di Paul e nell’evoluzione della sua malattia, con descrizione dettagliata di tutta la patologia e delle cure, e consentono dall’altra di innescare varie riflessioni sulle tematiche della vecchiaia e dell’eclisse della sua considerazione sociale e della conseguente cura da parte della famiglia e della comunità (uno dei sintomi più evidenti della decadenza della nostra società), sull’eutanasia (che H. considera una vergogna inammissibile, tanto da affermare che rifiuterebbe di vivere in uno nazione che la legalizzasse) e soprattutto sulla malattia e sulla morte, cioè sul corpo, la sua degenerazione e il suo annientamento, in pagine a volte di grande impatto.

Paul stesso sente di invecchiare, e proprio il giorno del suo 50° compleanno, coincidenza che forse poteva esserci risparmiata, scopre la sua malattia, che del declino è forse il segno tangibile, anche se quella che è la caratteristica dell’invecchiamento, il vivere di memorie e il progressivo spegnersi dei desideri annientati dalla soggezione alla realtà e dalla logica razionale (non dimentichiamo che Raison è il suo cognome; come quello di Bruno è Juge), viene sorprendentemente superata grazie a un lento ma solidissimo recupero dell’amore coniugale, che trova il suo compimento in una rinnovata e mai così soddisfacente intesa sessuale, con il suo portato, premessa e conseguenza insieme, di affiatamento, tenerezza e rassicurazione. Come una piccola apoteosi del corpo nel momento della sua sconfitta.

Accanto a questo Houellebecq, come altrettanti vini e salse e formaggi imbanditi sulla sua ricca tavola, non risparmia, sia pure di sfuggita, tutta una serie di riflessioni su molti altri temi rilevanti per la vita individuale e collettiva che lascio al lettore di scoprire, su ciascuno dei quali non viene lesinato, a colpi di Pascal ed Epicuro e di generalizzazioni che non sarebbe inutile applicare talvolta anche all’autore, il giudizio del narratore, o di Paul che spesso ne è un diretto portavoce, ma più morbido e meno pungente, e con qualche accondiscendenza e senso di colpa in più. Più umano insomma. Quasi buono. Sono pochi gli aspetti della realtà che ne vanno esenti. Immagino il loro sospiro per lo scampato pericolo.

La visione che ne risulta è a 360 gradi, o almeno a 358. Varia e soddisfacente.

Più che un libro che anticipa il futuro per dei lettori di oggi però, Houellebecq forse pensava di scrivere un libro per lettori futuri che vorranno sapere qualcosa dei nostri giorni. Molte cose che a noi appaiono, e sono, scontate, magari ridiventeranno interessanti quando non saranno più sotto gli occhi di tutti. E questo grazie anche allo stile semplice e orizzontale della narrazione, pulito fino all’osso, pur con eccezioni sentimentali da una parte e provocatorie dall’altra ben distribuite a risvegliare un’attenzione a momenti a rischio di assopimento: cioè esattamente quello che più disturba il lettore colto odierno, che da Houellebecq si aspetta sempre altro, uno sguardo spiazzante e sprezzante, cinismo e umorismo, estremismo nella rappresentazione dei personaggi e delle situazioni, paradossi logici e etici. Un po’ come quando si leggono oggi Dickens Balzac o Dostoevskij, per esempio (non si dice che il nostro sia di questo livello, ma certo vi ambisce), che non si va tanto per il sottile per certe pagine o approssimazioni stilistiche che fanno alzare non due ma quattro sopracciglia ai raffinati Nabokov di tutti i tempi e si apprezza tutto il resto. Si potranno conoscere modi di vita, sentimenti dominanti e cliché consolidati della società attuale, con particolare riferimento alla borghesia della società francese, che per il nostro autore equivale all’Occidente. Ma noi leggiamo oggi e li conosciamo già. Eppure io Annientare l’ho letto tutto fino alla fine, e, sì, lo ammetto, in poco tempo e senza annoiarmi, trasportato dolcemente (e docilmente) dal ritmo e dal tono nel complesso amichevole del racconto, e anche senza le tradizionali motivazioni per andare avanti, come scoprire cosa succede riguardo agli attentati, cosa ne sarà della moglie di Aurélien e di suo figlio, e di Cécile e del marito, e della loro segretamente spregiudicata figlia maggiore, e di Bruno, e di Prudence. 740 pagine. C’è qualcosa che non va in me. O qualcosa che va in Houellebecq. Forse una cosa e l’altra.