Italo, terza opera narrativa di Marco
Belpoliti, si presenta come un memoriale che ripercorre la vita del
protagonista dalla nascita, avvenuta il giorno stesso della prima emissione
televisiva in Italia, il 3 gennaio 1954, alla dissoluzione del paese che il suo
nome richiama. In realtà l’arco di tempo coperto dalla narrazione è un po’ più
ampio, perché va dal 1945, anno in cui il primo presunto padre di Italo, un
maestro ex-partigiano, si eclissa accollandosi l’omicidio di un prete commesso
da due suoi compagni, al 2010, quando il narratore si trova confinato in un non
meglio identificato “paese del Nord”. Come suggeriscono le date, la storia di
Italo viene a intrecciarsi a quella dell’Italia, grazie anche ai suoi numerosi
padri (oltre al maestro, un agente dei servizi segreti e un onorevole
democristiano), agli amori della madre Romea Monticon (da ultimo con un
ex-carmelitano[1]),
alle avventure dello zio Nello dagli ambienti degli ex-partigiani al
terrorismo, e al suo matrimonio con la figlia di un magnate televisivo, il
dottor Berlicche, che diventerà il primo presidente del Nord dopo la divisione
del paese. È quindi una storia doppia, come doppia è la temporalità della
narrazione, che alterna il presente della segregazione e della scrittura al passato
della memoria e della storia.
Questa duplicità, e doppiezza, costituisce una spia che,
caratterizzando la narrazione, suggerisce anche una doppia lettura, al di là
della patina di scorrevolezza in apparenza un po’ strampalata che cattura ad un
primo approccio l’attenzione e della forte dose di riferimenti concreti che ad
ogni momento sembrano convogliare su di sé tutto il senso, e la verità, delle
vicende anche più improbabili, dal punto di vista diegetico se non storico. Non
è quindi un caso se proprio all’insegna del falso si apre il libro: falso è
infatti il primo francobollo descritto, Testa
d’uomo irretita dal volo di una mosca non-euclidea, primo della serie di 36
francobolli che campeggiano sotto il titolo di 35 dei 50 capitoli in cui è
diviso il romanzo (un capitolo ne ha due: l’ultimo). Di essi solo un altro è
falso, e un terzo di falso ha solo il timbro.
Dunque, il primo è falso, ma esprime, meglio di ogni
francobollo vero, la verità (presunta) della condizione del
narratore-protagonista. L’intreccio di verità e finzione (menzogna), — la
seconda per portare alla luce la prima, la prima come elemento della seconda —,
è quindi la prima cosa da tenere in considerazione. La seconda è che nessuna di
esse può pretendere di scalzare l’altra: ognuna di esse è (almeno) doppia, come
due sono i francobolli dell’ultimo capitolo.
Tale duplicità della scrittura e della lettura si
riscontra anche a livello tematico: infatti proprio il tema del doppio, e del
doppio che si raddoppia a sua volta, è uno dei pilastri portanti della
narrazione. Doppia è infatti la (prima) nascita (ma quattro i padri); due sono
i fratelli (Romea ha un altro figlio dall’ex-carmelitano); studioso di gemelli è
Gerra (Gedda), il fondatore dei comitati civici antidivorzisti per il quale Italo
lavora e che poi lo curerà in clinica dopo il suo crollo psicofisico; e
soprattutto Italo ripete la vicenda del padre generando un figlio che non lo
conoscerà mai (anche lui è all’«estero»), e duplica la propria vita
raccontandola (inventandola).
La narrazione si articola lungo quattro filoni o livelli
principali: la storia di Italo; i francobolli e la loro descrizione; la storia
dell’Italia e il presente della narrazione.
Quest’ultimo contempla la presenza di una donna, una nera di nome Maria che fa
da nutrice-amante-carceriera, che ad un certo punto per un po’ sparisce
facendosi sostituire da Santina (altro doppio; serva-padrona, madre-amante,
vergine-puttana, entrambe sante, almeno un po’: Santina, appunto, e Maria,
quasi anagramma di Romea: Roma, e che a Roma ci va, sposa dell’onorevole
Settoni, detto la Cimice). Maria funge anche da lettore quanto mai esplicito,
innescando con le sue reazioni i commenti e le giustificazioni del disinvolto
memorialista, e quindi la nuova duplicità di una metanarrazione affettuosa e divertita ma non per questo meno
sottile.
Il diverso intreccio dei quattro livelli costituisce la
forma di Italo, romanzo che in
continuazione si forma e si (auto)dissolve (come del resto ciò che viene
raccontato: eventi, storia piccola e grande ecc.). L’impossibilità di una forma
(tradizionale), cioè di una narrazione strutturata se non continua, dà luogo a
un susseguirsi di forme che non approdano a nessuna stabilità (et pour cause), senza tuttavia
comportare la rinuncia a cercarne, sempre di nuovo, una, che allora non può che
essere mutevole, fluida e, in una certa misura, “esterna”, oltre che interna.
Con “esterna” intendo l’incidenza continua (o il
riferimento pur nell’assenza) della “storia” — che è certa (i “fatti”), anche
quando viene messa in discussione, o ricostruita (come un puzzle) o inseguita
nella sua aleatorietà e evanescenza con l’improbabile retino da farfalle che le
vicende personali di volta in volta forniscono. Tutto però perde forma, cade
continuamente nell’informe, a cominciare dalla vita di Italo per finire con
l’unità dell’Italia (ma altri eventi simili, sia pure lasciati nel vago,
vengono suggeriti anche per il mondo...[2]).
Alla fine al narratore sembra non restare altro che la via
di salvezza individuale: prima in un istituto steineriano dopo il crollo
psicofisico e infine con la scrittura (la forma “interna”). Che però non sono
una liberazione, ma un’altra prigionia, come si evince dagli ultimi capitoli:
la segregazione di Italo diventa sempre più stretta; alla fine non esce (non
può più uscire) dalla torre, secondo ventre materno dove avviene la sua seconda
nascita, però stavolta iniziata nella, o dalla, prospettiva della fine: quella
personale (la conclamata vecchiaia, quando nel 2010 ha solo 56 anni) oltre che quella
storica.
Già la prima nascita era stata doppia: infatti, il 3
gennaio 1954 c’è la quella fisica da Romea e padre per il momento ignoto (il
maestro Boschi, assente), ma anche quella dalla televisione alle cui onde Italo
viene esposto dallo zio Nello. In questo senso andrebbe allora interpretato il
biglietto in cui lo zio afferma di essere il suo vero padre. Il biglietto viene
invece inteso da Italo come pura cattiveria, strana forma di vendetta da parte
dello zio, e per il resto non ha seguito nella trama, ma conviene notare che è
inviato quando lo zio è in prigione per terrorismo e Italo lavora per
Berlicche, — che è la televisione, appunto, e un nuovo padre (in qualche modo
putativo, come lo zio, del quale riprende il filo televisivo), che gli dà in sposa
Giada, la figlia.
Italo conquista Giada completando
al primo colpo d’occhio un puzzle del quale lei, campionessa di questo gioco,
non riusciva a venire a capo. Il puzzle da una parte, e il caos, la confusione
dall’altra allora? Non direi: Italo risolve il puzzle ma non riesce a
organizzare il caos (la mosca non-euclidea che gli ronza attorno alla testa, e
dentro). Infatti il puzzle è riorganizzazione non del caos, ma di un ordine
(fittizio) già fittiziamente scomposto per poter poi dare l’impressione a chi
lo risolve di controllare la confusione, di saper trovare parentele nelle
differenze e differenze nelle somiglianze, aggirando le forme ingannevoli delle
tessere per incastrarle a formarne una vera che riproduce un altro, esterno,
modello, che come tale è già ordinato secondo apparente verosimiglianza. Italo
non può organizzare nessun caos finché non risolve almeno in parte quello che
porta in sé; ma una volta iniziato a risolvere questo (la clinica), non può
continuare se non trova anche qualcosa all’esterno, ma che con la sua storia è
legato, che gli fornisca un qualche appiglio per mettersi all’opera (la
scrittura).
Ed è proprio questa la prima funzione dei francobolli, la
cui raccolta accompagna la sua vita: il primo lo compra lo zio alla sua nascita,
per celebrarla, e, guarda un po’, è quello che celebra la nascita della
televisione. Contrariamente alle tessere del puzzle, i francobolli sono
emblemi, sottili perché all’apparenza fin troppo diretti e espliciti, della
storia di Italo e insieme di quella dell’Italia; ideologicamente trasparenti, e
stereotipati, vengono complicati, e rivificati, da Italo che in essi trova
scandita la propria vita, un modo per dare concretezza, nome e immagine, ad una
realtà individuale (esperienza) altrimenti sfuggente, innominabile o
difficilmente indicabile proprio a causa della sua individualità (e, in più di
un senso, singolarità). Senza modello quindi. Il pericolo era che tale
individualità, appunto in ragione della sua singolarità, diventasse in qualche
modo (poco o tanto) emblematica, nel senso ristretto della parola, con
conseguente morte della narrazione e appiattimento del personaggio[3],
ma è appunto questo che Belpoliti intende evitare ricorrendo ai francobolli,
alla stratificazione di sensi che la loro presunta immediatezza riceve dalla
storia di Italo, alla loro stessa assenza in vari capitoli, alla non linearità
del loro ruolo e valore, che già i loro bordi frastagliati suggeriscono.
La loro lettura assomiglia a quella che viene fatta della
“storia”, qualificata tramite microeventi all’apparenza secondari più che con i
fatti o i personaggi salienti del momento (che del resto vengono poi
dimenticati più o meno in fretta, meglio ancora quando assurti a stereotipati
capisaldi): si veda per esempio la fondazione del primo American Conturella a Milano nel (e per il) ‘68[4].
Dal palcoscenico dei grandi eventi non a caso Italo è assente[5]:
nel ‘68 è in collegio, e per lui l’evento più importante è la scoperta,
contemporanea di quella della letteratura, del sesso (altro filo rosso del
libro, in cui la presenza della corporalità, anche sotto forma di cibo, è
continua e molto variegata); mentre nell’89 e negli anni della dissoluzione
dell’Italia è nella clinica psichiatrica prima e nell’istituto steineriano poi.
Del resto anche i cosiddetti grandi personaggi sono a loro volta già
“abbassati” mediante l’uso di soprannomi, perifrasi allusive, “denominazioni
variamente metaforiche e antonomastiche” (M. Barenghi, l’Unità, 1996), che
talvolta emettono, oggi ancor più che allora, stridori che a me suonano
sgradevoli, in quanto non posso fare a meno di imparentarli con la cosa che,
già sgradevole di per sé, più mi respinge in letteratura (come surrogato della
letteratura): la satira politica (volevo aggiungere “spicciola”, ma quanti sono
i casi in cui non lo è? La satira politica, di solito, è il surrogato più
comodo dell’intelligenza, e quindi il peggiore). Questi personaggi inoltre non
sono meno evanescenti di Italo, essi pure “a rimorchio degli avvenimenti” di
cui credono di essere i manovratori, quando non addirittura i suscitatori. Se
tuttavia l’astuzia della storia finisce per burlarsi della loro supponenza,
neanch’essa poi sarà tanto astuta: infatti altri della stessa risma prenderanno
il loro posto, per essere di nuovo burlati a loro volta. Ma è una ben magra
consolazione per chi sopravvive ai primi doversi sorbire i loro successori
replicanti, così come è una ben magra astuzia quella che non sa che riprodurre
sempre lo stesso, povero gioco.
La moltiplicazione di microeventi e episodi marginali,
oggetti e segnali, personaggi noti e dimenticati, sembra collocare sotto il
segno di ciò che in passato veniva chiamato “enciclopedia” anche questo
romanzo, come del resto tutto il lavoro di Belpoliti: dai saggi ai testi
narrativi, al modo stesso in cui egli organizza anche le recensioni a prima
vista più ancorate all’attualità e i racconti che non di rado si presentano
come invenzioni particolari a partire da spunti minimi, per non dire
occasionali.
Tuttavia tale termine non sarebbe pertinente, almeno se
inteso in senso classico; per capire che inclinazione (o piega) esso prende in
Belpoliti, è utile collegarlo col punto di partenza sia di questo romanzo che
del precedente Quanto basta (Rusconi,
1989), che in entrambi, più che la rottura di un equilibrio, come nel romanzo
classico, è la rottura di tutti gli equilibri, e si direbbe l’esclusione della
possibilità stessa di un equilibrio qualsiasi, cioè la fine. Una fine totale,
definitiva, che nondimeno lascia un sia pur precario residuo (debole, stupido,
espulso) — come dire: ciò che nessuno degli equilibri precedenti contemplava, o
tollerava, come proprio e pertinente elemento, anche solo con funzione di
contraddizione, o di opposizione —, che però si ostina a vivere e per far questo
deve tentare di organizzare le macerie, gli altri resti che trova attorno o
dentro di sé (comunque, e già in questo suo, loro disporsi, un mondo).
La logica (la razionalità) che prima organizzava le cose e
i saperi è stata dissolta (andata a sua volta in frantumi, cancellata senza
resti che possano ancora dirsi i suoi,
vale a dire che possano restituirle una vita attraverso la loro appartenenza
residuale), e quindi non c’è più modo di mettere
alcunché in cerchio, di sistemare; l’oggetto non è più il mondo,
per mezzo del sapere, bensì ciò che di un sapere che non è più tale resta, ma
che comunque si deve cercare di mettere insieme, come una rete da tessere pian
piano, e senza alcuna arte già pronta per l’uso.
Non c’è mondo, per quanto la sua corposità (e corporeità)
urti e debordi da ogni forma e veste, bensì merci, prodotti sempre culturali di
cui però si è perso tanto il produttore quanto le circostanze della produzione,
per non dire il legame con un bisogno qualsivoglia.
Viene da qui quel senso insieme di penuria e di
sovrabbondanza, di impossibilità di una forma e di bisogno di ragione (a sua
volta sdoppiata in razionalismo che si contraddice per eccesso, e di
accostamenti apparentemente arbitrari che diventano analisi); insomma quella
necessità di uno sguardo complesso e mobile, senza il quale si impoverirebbe
anche l’esperienza della nostra lettura, prima ancora di equivocare sulla forma
e sulla scrittura del romanzo stesso.
Per questo leggere Italo
principalmente come una ricostruzione (sia pure grottesca ecc.) degli ultimi
cinquant’anni della nostra storia (oltre che una previsione, altrettanto
grottesca ecc., ma non per questo meno orribile, di ciò che l’immediato futuro,
rispetto a quando il romanzo è stato scritto — prima che il cavaliere scendesse
in giostra armato delle sue temibili antenne, come un nuovo Mandricardo —, ci
ha purtroppo in parte già riservato), sarebbe a mio avviso tanto corretto
quanto limitativo. E così pure interpretarlo come un’indagine sul carattere
degli italiani. Se infatti per la storia d’Italia qualche linea direttrice è
comunque possibile individuare, il carattere degli italiani, ammesso che
un’astrazione del genere sia plausibile, appare tanto informe da risultare,
dell’informe, un eccellente paradigma (anche se scriverne evitando eccessive
semplificazioni, proprio perché appare come un’impresa assurda, da megalomane,
è quanto di meglio può tentare l’ambizione di un romanziere). Ma scrivere
equivale a trovare una forma, e ogni forma, come più o meno tutto, dà quanto
prende, aggiunge nella misura in cui limita: tanto più una forma fissa, solida,
che in genere deriva da, o finisce per manifestare, un presupposto di
essenzialità, se non di completezza. Occorre quindi trovare una forma che
insieme tenga unito ma sia mobile, suscettibile, di aperture, divagazioni,
passaggi da un livello all’altro del discorso, e insieme capace di catturare
quante più cose (quanti più linguaggi) possibile. Porre dei vincoli, qui,
anziché soffocare, allarga il respiro. È questa l’altra funzione dei francobolli
(la funzione che i francobolli rivestono per la storia d’Italia in Belpoliti).
I francobolli costituiscono della storia d’Italia una forma interna tanto più
solida e rivelatrice in quanto involontaria, sintomi e simboli che mentre
mostrano ciò che di sé essa vuole mostrare, rivelano ciò che invece è senza
saperlo. Capovolto, l’ottativo diventa il più efficace indicativo, il desiderio
— diagnosi, l’ideale — descrizione. Ma sarebbe un giochetto fin troppo facile e
schematico. Perché i francobolli possano avere una qualche efficacia simbolica
e narrativa, come già detto, devono perdere il loro statuto generico e
individualizzarsi e legarsi ad una storia, non come semplice etichetta, ma come
lente, di volta in volta piana concava e convessa, che specchia, cattura e
rifrange, deforma e ingrandisce, o apparentemente restituisce fedele, le
immagini attraverso cui un singolo legge, scopre e costruisce la propria, di
storia.
È in questa prospettiva che va intesa l’adozione della
finzione autobiografica in Belpoliti. Ad Adamo Vir, il narratore di Quanto basta, faceva difetto “la prima
persona singolare” (ma poi finiva per parlare sempre in prima persona); Italo
invece (forse perché è un individuo che non è veramente tale) ne trabocca (e
forse finisce per parlare più degli altri che di sé): altra non-coincidenza con
sé, ma per eccesso, speculare alla prima e ad essa complementare (come a dire,
forse, che un io non c’è, ma è giocoforza adoperarlo, e che, viceversa, si può
parlare d’altro — e degli altri — solo passando per un io: specie per un io che
si sente diviso, cfr. pag. 154, ma per il quale la divisione si traduce non in
carenza ma in moltiplicazione).
L’eccesso di io è ciò che ad Italo rimprovera spesso
Maria: vale lo stesso da parte di Belpoliti riguardo all’Italia? Comunque sia,
il difetto dell’io, la sua (presunta) scomparsa, non avviene senza resti
ingombranti, che poi si rivelano, o si manifestano, come una sua (neanche tanto
diversa) presenza ossessiva in ogni dove (complementare al rilkiano “nessundove”
di cui Belpoliti parlava in Confine,
Elitropia, 1986, la sua prima raccolta di racconti).
Dissimulata tra tutte queste presenze, e quasi resa
invisibile dalla loro proliferazione, c’è in Italo quella a mio parere più importante, quella dei linguaggi, dei
generi e degli stili. Una presenza che ricorre in molti romanzi recenti, specie
quelli che in qualche modo si suole riassumere sotto l’etichetta di
postmoderno, che di solito di essi fa un uso parodico. Ma Belpoliti non ne fa
la parodia; fa di più: li prende sul serio. E non perché attribuisca alla
letteratura un’importanza che non ha (nessun atteggiamento romantico in lui,
nessuna idea “novecentesca” della letteratura e del linguaggio come “assoluto”)
— anzi, per lui essa è solo un modo, molto importante è vero, ma un modo al
pari di altri pur nella sua specificità, per cercare di organizzare e capire il
mondo (in questo fedele alla lezione di Calvino a cui ha dedicato molti saggi e
ultimamente un libro, L’occhio di Calvino,
ed. Einaudi, che dell’autore ligure dà una lettura innovativa, tutta incentrata
non a caso sul problema della conoscenza) —, quanto perché prendere sul serio
la letteratura, quando la sia fa, è anche l’unico modo per prendere sul serio
la realtà.
Proprio per questo, per quanto ci sia umorismo, ironia e
anche divertimento puro, in Italo la
parodia è assente; a Belpoliti non interessa di atteggiarsi a zuzzerellone, non
fa il giorgio con le sgallettate, per dirla con Ripellino, e nemmeno saltella
giulivo ripetendo che “essere qui è meraviglioso” (anche se, magari, è vero); è
duro nel suo atteggiamento, e quando prende di mira qualcosa, tutto finisce per
ordinarlesi attorno, per confluire verso essa, e semmai qualcosa gli si può
talvolta rimproverare, è un difetto di quella leggerezza di cui pure il suo
amato Calvino ha evidenziato l’importanza. Ma non importa: con tanti che fanno
i cretinetti sul nulla, la serietà (degli intenti più che del tono e degli
argomenti: in questi l’esuberanza e l’allegria non difettano di certo), è un
valore. Se talvolta difetta la grazia, ne guadagna la forza.
Linguaggi generi e stili, Belpoliti li mette in relazione,
li fa giocare l’uno con l’altro, anche fino all’attrito, abbandonandoli alla
soglia della loro sclerosi, non un istante prima (e per fortuna nemmeno un
istante dopo). Ne nasce un movimento tutto particolare e un linguaggio che è
difficile catalogare: c’è di tutto, il lettore colto può anche sbizzarrirsi
nella ricerca dei riferimenti, delle citazioni, ma sarebbe un gioco gradevole e
basta: primo perché la fluidità di una lettura appassionante non ne viene intaccata (anzi, si è sempre curiosi di
“quel che viene dopo” e di “come andrà a finire”: ingrediente non trascurabile,
così almeno pare, di ogni raccontare); secondo perché il rimando non è uno sfizio
intellettualistico (per chi alla conoscenza e all’intelletto attribuisce un
grande valore, il rimando è come la respirazione, naturale e necessario), ma
deriva dal desiderio, e come da un pulsione a fagocitare e a ricostruire il reale (che diventa tale sola a
partire da questo movimento di introiezione e restituzione) in tutti i suoi
aspetti e livelli: e per far questo, per uno scrittore il linguaggio è l’unica
via praticabile.
Poiché tuttavia Belpoliti non ritiene di imporre un
proprio stile differente dagli altri e riconoscibile a prima vista nella sua
individualità al mondo, nell’illusione demiurgica di forgiarlo a propria
immagine e somiglianza, sono i linguaggi che già ci sono a detenere l’unica
pertinenza (parole e frasi sono quasi tutte “di riporto”, riusate però a
partire da una costante volontà di scorrevolezza, di “leggibilità”); e se poi
un tono e uno stile risulteranno comunque, sarà solo dal modo in cui tutti sono
stati connessi e reciprocamente modificati, operazione non meno difficile della
precedente (anzi).
Mettere l’uno accanto all’altro, annodare, tracciare mappe
è del resto il modo in cui procede anche il lavoro saggistico, non meno
importante di quello narrativo, di Belpoliti, che a prima vista sembra solo
riferire e collegare ciò che ha trovato nelle sue vastissime quanto varie
letture, o ricomporre i frammenti sparsi che su questo o quell’argomento si
trovano dispersi nell’opera di uno scrittore, mentre alla fine ne risulta un
paesaggio o una costruzione del tutto differenti da quelli che sullo scrittore
o sull’argomento presi in esame si era letto fino allora (si veda il già citato
libro su Calvino).
Se Belpoliti ha uno stile dunque, non risiede nel
linguaggio, nella riconoscibilità di una sintassi o di un lessico, ma va
cercato nel pensiero (uno stile di
pensiero). Ed è questo che lo distingue dall’erudito settecentesco a cui di
primo acchito potrebbe essere accostato: in lui la compilazione presuppone
l’amore per ogni singola cosa, perché solo questo può essere il presupposto di
una passione più grande, che è quella di muoversi tra le cose collezionate
(collazionate) e di stringerle l’una all’altra coi più vari legami (non a caso
ai nodi Belpoliti ha dedicato un
lavoro più che decennale che è ultimamente sfociato nella cura di un voluminoso
numero monografico della rivista Riga,
da lui diretta assieme a Elio Grazioli, e nel notevole lungo saggio di suo
pugno, quasi un libro, che i fili di tutti gli altri annoda). Non è tanto la
passione per la conoscenza, quanto la conoscenza appassionata, che asseconda i
propri umori e che proprio perché non ne ha paura riesce a controllarli, a
contraddistinguere tutto ciò che Belpoliti fa.
Ma torniamo al romanzo. Dopo essersi fatto rimorchiare
dagli eventi, con tutti i vantaggi
anche di buona coscienza che tale accettazione contempla, alla fine Italo
crolla, e soltanto questa sciagura personale (riflesso-allusione-simbolo di
quella storica?) gli permette di cambiare (meglio: lo costringe a cambiare).
Nel crollo psicofisico — implosione più che esplosione —
Italo si chiude su se stesso, attorno a un nucleo duro, innominato e forse
innominabile, duro e insieme bucherellato: la pallina da golf, che resta
comunque un oggetto da prendere, e preso, a mazzate. Il cambiamento partirà da
lì, ma non sarà veramente radicale (nessun cambiamento esclusivamente simbolico
può esserlo, anche se nessun cambiamento che non sia anche simbolico sarà
veramente tale, lascia intendere Belpoliti). È una tragedia? Non è detto.
Neanche per il paese. Esplodono delle forme, ne nascono altre. (Esplode anche
l’elicottero di Berlicche: è una tragedia?)
Dunque Italo cerca di cominciare da capo. E come si
comincia da capo? Imparando prima a respirare, poi a parlare e infine ad avere
un rapporto con lo spazio, gli oggetti e le persone. La ri-nascita, quella che
dovrebbe essere la nascita vera poiché in essa il soggetto crea se stesso
(diventa il proprio padre e la propria madre, dopo tanti genitori fasulli
quanto ingombranti, ed anzi è lui ora a “mettere al mondo genitori”), sembra infine
riuscire, ma è una riuscita risibile, in quanto Italo, di nuovo, se fa
qualcosa, lo fa senza saperlo né volerlo e scopre solo dopo di averla fatta
(diventa il padre di un figlio che non gli appartiene e che non vedrà mai se
non in effigie, un figlio che come lui sarà senza padre quindi), cioè riproduce
il se stesso di prima, magari un po’ più sereno e distaccato (ma il vero
distacco, quello dell’esilio, non sarà stato lui a volerlo. — E poi il
distacco, anche se permette di vedere meglio le cose, non è necessariamente un
bene.)
E a ben guardare, a cosa lo introduce questa nuova
nascita? Non certo ad un futuro nel segno della vita, ma ad una vita tutta
chiusa nell’orizzonte della morte, ad una vecchiaia precocemente sentita
(quando scrive ha 56 anni, ma parla di sé come di un ottantenne, e non solo per
gigioneria), con gradevoli consolazioni certo (i pranzetti e la compagnia
notturna di Maria e Santina: quest’ultima un po’ faticosa per la verità), ma
fuori, via, lontano nello spazio e indietro nel tempo, un tempo da ricostruire
ma che non quadra, un tempo più immaginario che della memoria, e uno spazio
scomparso... Eppure un tempo e uno spazio abitabili proprio (e solo) nella
(ri)costruzione: il tempo e lo spazio della pagina. Non è poco. Ma basta?
Per chi, chiuso il libro, esce di casa e si guarda
attorno, non si direbbe. La lettura, sotto questo aspetto, non è stata una gran
consolazione. Eppure il lettore magari pensava di averne proprio bisogno. Ma è
appunto a lettori come questo — ai lettori-Italo cioè, o agli Italolettori se
si preferisce — che uno scrittore fa bene a negarla: Belpoliti gliel’ha negata
e ha fatto bene. Per questo c’è stato chi (Gianni Baget Bozzo in particolare)
ha visto in Italo un romanzo
nichilista, l’esemplificazione del vicolo cieco in cui è condannata a cadere
quella che secondo lui è la visione tutta materialista di Belpoliti, e di chi
la condivide (quella che con molta approssimazione si potrebbe chiamare la
sinistra attuale); e certo anche tra i lettori della cosiddetta sinistra ci
sarà stato chi, accanto alla soddisfazione della critica alla vecchia
Italietta, avrà trovato o troverà insoddisfacente il fondo sconsolato del
romanzo; ma c’è forse molto di consolante in ciò che nel dopoguerra, per
limitarci ad esso, abbiamo saputo fare ed essere? La tendenza ad
autoassolverci, e in più ad esigere anche l’assoluzione degli altri, è una
delle nostre caratteristiche peggiori: pretendere che lo faccia anche un
romanzo che ci riguarda, allora, è il minimo. E d’altra parte sarebbe proprio
un romanzo italiano quello che lo facesse, come lo sarebbe il suo opposto e
complementare, quello che si compiacesse dell’abbassamento e della
denigrazione. Italo evita entrambi i
pericoli, non perché risolva le contraddizioni o indichi soluzioni o pervenga a
qualche verità (non spetta a un romanzo farlo), ma perché mette tutto in gioco,
con grande generosità, quella vera di chi rischia in prima persona, senza
riserve o tornaconti di secondo grado, senza preventivate consolazioni o
accattonaggio d’affetti o consensi: qualità che ci piace rinvenire negli altri
(per esempio in Salman Rushdie e in David Grossman, ai quali Belpoliti ha
indubbiamente fatto riferimento per questo suo libro), ma che raramente siamo
disposti a concedere a chi ci sta vicino. La generosità piace solo in teoria.
La vitalità disturba. La misura è solo quella piccola della perfezione
microscopica: tutto il resto è scompenso, dismisura. La dismisura fa paura. Sia
benedetta la paura, allora.
Marco Belpoliti, Italo,
ed. Sestante, 1995, p. 400, £ 20.000
[1]In questo libro più o meno tutti
sono ex-qualcosa, forse a significare non tanto, o non solo, il costume del
trasformismo (infatti basta il tempo a fare di tutti altrettanti ex), quanto
l’incapacità di ciascuno di essere semplicemente quello che, in ogni momento,
egli è: un difetto di identità e di consistenza più che di coerenza insomma. Ma
vedi oltre.
[2] Quello del venir meno del mondo,
della sua fragilità che si traduce in continua dissipazione, e della
conseguente necessità, vissuta come un dovere da Italo, di almeno rallentarla,
dal momento che impedirla è impossibile, è forse il sentimento più pervasivo
del romanzo, anche se Belpoliti, quando lo affronta direttamente, lo riferisce
principalmente agli anni ‘90. Si veda l’importante capitolo L’obolo (p. 348-354), di cui vale la
pena di citare qualche frase tratta dai primi due paragrafi, ma che andrebbe
considerato nella sua totalità: “Non è necessaria un’esplosione, una
deflagrazione (...) per cancellare il mondo. (...) Il mondo va via senza far
rumore, milionesimo di secondo dopo milionesimo di secondo, anche se, in
apparenza, tutto resta uguale a prima.
Siamo
in pochi a sentire la scomparsa del mondo, in pochissimi a saperne misurare la
costante e inarrestabile diminuzione, quasi nessuno poi sa scandire il ritmo di
sparizione (...). Questa eclissi è il risultato di una perdita, della scomparsa
dei ricordi, dell’esaurimento della memoria. Il mondo muore ogni volta che
qualcuno dimentica qualcosa, ogni volta che un uomo scorda a casa il cappello
(...); per non parlare poi di interi popoli rimossi, di avvenimenti scordati
per sempre (...). Il mondo se ne va, giorno per giorno, si smarrisce nella
testa delle persone, diventa sempre più sottile, finché un giorno non ci sarà
più.”
[3]In realtà Italo più che un
personaggio è una specie di Zelig, che diventa di volta in volta ciò che da lui
esigono coloro che gli stanno attorno e gli eventi in cui si trova invischiato.
Lo è ancor di più quando, accorgendosi della propria inconsistenza, vuole
reagire; e i risultati delle sue (scarse) rivolte stanno a dimostrarlo. Molti
altri personaggi, anche se in misura minore, condividono questo statuto, che
sembra valere per essi in quanto già vale per la realtà. Curiosamente
l’eccezione è Berlicche (ma nemmeno tanto a ben guardare: e questo è un merito
di Belpoliti, perché proprio in questo caso il pericolo di riduzione a
macchietta sarebbe stato meno tollerabile). Forse proprio perché Berlicche ha
del Mefistofele e dell’Hermes insieme, ne vengono mostrati anche i lati più
“umani”, come certe timidezze, la capacità di tenerezza, le paure e ansie che
si potrebbe anche chiamare, senza scherno, metafisiche.
[4] È stato F. Cataluccio a farlo
notare per primo, nel corso di una presentazione del romanzo alla libreria
Feltrinelli di Milano.
[5]Gli eventi a cui Italo partecipa
sono minori, anche se a volte connessi a quelli grandi, e appartengono in
generale ai momenti meno chiari della storia d’Italia, momenti che solo in
minima parte conservano la segretezza all’interno della quale si erano
verificati (non a caso quello che è forse il vero padre di Italo appartiene ai
servizi segreti, coi quali ha molti rapporti l’onorevole Settoni, sempre non a
caso detto la Cimice). Attraverso di essi Belpoliti suggerisce un’altra possibile
idea della storia del nostro paese, un’idea fatta di complotti tragicomici, di
trame e organizzazioni nascoste di cui tutti sono a conoscenza, di maneggi
dietro quinte trasparenti, di grandi gesti d’effetto e di ubique meschinerie
quotidiane: l’idea di un paese meschino che della democrazia ha conosciuto solo
l’apparenza, ritualizzata e vacuamente teatrale. Se quindi i grandi eventi sono
assenti non è tanto perché, come diceva di se stesso Goethe, a Italo gli dei
hanno concesso “il privilegio di trascorrere dormendo le crisi della storia”,
quanto piuttosto per una scelta precisa, legata a una precisa idea della storia
e della politica italiane. Ed è proprio per questa via che Italo è un romanzo a
pieno titolo politico. Ha infatti
ragione M. Raffaeli (il manifesto, 20 luglio 1995) nel riconoscere in esso “un
romanzo politico in accezione etimologica, nel senso che mantiene gli
avvenimenti pubblici non come sfondo o pura rifrazione ma come costante
orizzonte d’attesa rispetto al percorso individuale”, senza che ci sia bisogno
quindi di tematizzarli direttamente nella loro deleteria spettacolarità
(deleteria ancor di più quando usata per dare peso, e legittimazione, ad una
narrazione che senza di essa finirebbe per non averne).
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