29/01/19

Appunti sul camminare




“Se non altro, fino alla fine non ho camminato”, vuole che sia il suo epitaffio Haruki Murakami.
Io invece non corro mai, ma cammino un paio d’ore tutti i giorni, e l’epitaffio lo aggiorno periodicamente nella mia testa senza renderlo pubblico, come un esorcismo a scadenza. E quando cammino a volte prendo appunti. Molti, rispetto alla mia abituale, sordida (o saggia), avarizia di scrittura. Sono appunti di ogni genere e misura, che vanno a zonzo come i miei passi, senza uno scopo preciso. Appunti per niente. Ne metto qui alcuni che hanno a oggetto proprio il camminare.

Penso a quelli che camminano perché non hanno un posto dove stare, che attraversano deserti, scavalcano montagne, aggirano campi minati, territori pericolosi, inospitali… Poi penso a quelli che vanno a Santiago di Compostela per fare esperienze, dire che l’hanno fatto, esibire certificati, scattare foto per un ennesimo nuovissimo reportage, o scrivere diari, corrispondenze per giornali e riviste, consolazioni o rimpianti per i se stessi futuri… o a quelli come me che ogni giorno prendono un sentiero e vanno per un paio d’ore senza destinazione, ma di fatto girando più o meno in tondo ecc. Prima era quasi solo una necessità, ora, per moltissimi, camminare è un lusso.

E essendo un lusso, sono sempre più numerosi coloro che se lo vogliono concedere, come accade per tutti i lussi, mentre in tutti i tempi e i luoghi in cui è stato o è una necessità, per non dire una costrizione, chiunque, appena possibile, ha cercato e cerca di evitarlo. Sembra che oggi spostarsi sia un corollario secondario del camminare, che appare meno come un andare da qua a là che come un’azione in sé, compiuta e autosufficiente, che si appaga di se stessa. Una specie di masturbazione, probabilmente più soddisfacente. Oppure viene vista come un’azione che ha altri scopi, fisici o spirituali, che comportano movimento senza spostamento (senza un inizio e una meta che importino), o come uno spostamento subordinato ad altro. Anche i pellegrinaggi, nei quali la fede è un optional. E se non lo è, non conta lo spostamento ma l’espiazione, il merito acquisito, la stock option sulla benevolenza della divinità, che a quanto si dice di queste piaggerie si compiace. A ognuno le sue consolazioni.

Eppure questo lusso sui generis ha il pregio di non esaurirsi nell’ostentazione e di avere tra i suoi possibili effetti un ritorno al necessario, che viene recuperato nel versante complementare del bisogno, che viene spesso taciuto ma ne è nondimeno un aspetto fondamentale: non quello della mancanza, che risorge sempre, ma quello del compimento, che per un po’ lo frena e mostra come proprio nel suo soddisfacimento risiede la molla dell’esistenza e il modello di tutte le altre soddisfazioni, cioè la loro perfezione. Le gioie dell’arbitrio e della gratuità vengono dopo.

Per questo si è spesso costretti a cercare delle riserve di cosiddetta natura incontaminata, e anzi ansiosi di farlo, bisognosi e felici, per trovare finalmente uno spazio di libertà (perché essere liberi si deve), che anzi lì viene offerta, profusa a piene mani, gratis o quasi, per celare anche a se stessi, semmai lo si sappia (ma non è detto; anzi, è detto l’opposto), che non la si ha, e che l’opportunità che viene così offerta, e conquistata restituendo al mittente ciò che si è guadagnato con la propria servitù, che della servitù non è altro che un momento, e anzi il momento che la rende più completa, totale, in quanto ne satura e sutura non solo tutte le eventuali vie di opposizione o solo di fuga, ma anche, mentre si è convinti di averle imboccate e di giulivamente percorrerle, il pensiero stesso che esistano, il bisogno stesso di trovarne, dando proprio l’idea di stare percorrendole esattamente in quel momento…

La frase di Sant’Agostino citata dal Petrarca nella lettera del Monte Ventoso, che sbuca sempre quando si toccano questi argomenti, potrebbe essere capovolta e trasformata in questo modo: “E cercano vanamente gli uomini di conoscere se stessi e trascurano il mare e i monti, il vasto mondo”.
Invece a camminare è proprio il mondo che si incontra, specie quando si esce dagli spazi urbani. Il resto, dicevo, è un beneficio secondario; non fosse che ancora prima di mettersi in cammino un diverso beneficio c’è già stato: la decisione di farlo. Di prendersi il tempo per farlo. Di mettersi con il tempo in un rapporto diverso da quello che guida la routine quotidiana.

A camminare lungo i tratturi o fuori da ogni strada, nel bosco, per i prati, in montagna, c’è il vantaggio di non dover prestare attenzione al traffico di vetture e passanti, di non dover stare sempre sul chi va là per non investire o essere investito, per evitare chi esce all’improvviso da un portone o da qualche negozio o ufficio alterato nel bene o nel male da ciò che gli è successo, o pali o cartelli o crepe o gobbe del marciapiede. Però l’attenzione, più blanda, sporadica, serve lo stesso, diretta non a ciò che hai davanti o arriva da fianco, ma a ciò che sta sotto i piedi. Così vedi la materia, la terra, e il tempo, le stagioni; se il terreno è bagnato o secco, cedevole o duro, regolare o irregolare, e quanto; se il tappeto erboso o coperto di foglie è regolare, o se spuntano sassi o ci sono buche, dislivelli improvvisi, ghiaietto scivoloso, solchi stretti e profondi. Basta uno sguardo ogni tanto, però; poi ti puoi dedicare al resto, a ciò che sta attorno o che rimugini dentro, contemplativo e meditativo in alternanza o insieme, in una mescolanza che fa la qualità del tuo umore. Non è che sei immediatamente aperto al mondo, ma ti rendi accessibile, che forse è anche meglio.
Senti odori, suoni lontani, echi, gli uccelli, gli animali, le fronde, l’acqua che precipita o scorre.
Se sei in compagnia è più facile parlare. Ma anche stare in silenzio va bene, senza doversi per forza dire banalità o informazioni utili, stare in silenzio insieme, senza ansia. E insieme fermarsi, sorpresi quando, a un certo punto, fuori da una macchia, dall’alto, appare il fiume, o il mare.

Può darsi allora che all’improvviso, senza alcuna ragione, ti prenda un insopprimibile impulso a correre e che ti accorga, prima di sentirti un perfetto cretino, di esserti spinto per qualche centinaio di metri e, nonostante un po’ di fiatone, di non trovare nessuna valida ragione, ora, per fermarti. Sentirti solo animale e non esserne affatto dispiaciuto. E così continui, finché le vecchie gambe diventano molli e il fiato manca, e fermarsi e respirare, stupito, è solo una gioia pura, dimenticata. E ritrovata per non averla cercata.

A volte invece cammino guardandomi attorno a lungo, con grande attenzione, senza cercare o aspettarmi qualcosa in particolare. Mi stanco presto però. L’attenzione senza intenzione è faticosa, deludente. Per questo non la coltivo troppo. In genere cammino guardando la strada (la terra) o il libro davanti a me, perdendoli presto o tardi di vista (il libro meno), o dando una controllata con la coda dell’occhio a eventuali ostacoli. Ogni tanto alzo la testa e trovo il mondo ancora lì. È bello alzare la testa e trovarsi nel mondo.

La mia attenzione è, di solito, fluttuante, come quella con cui lo psicanalista difende la propria integrità mentale durante le sedute, ammesso che ne sia dotato (o afflitto), cercando al contempo una via d’accesso alla mente che si suppone meno integra dell’analizzato. Non cercare niente, non aspettarsi niente. Lasciare che i sensi vadano per conto proprio e che si posino, se proprio capita, su qualsiasi cosa li attragga o si presenti al loro cospetto, e soffermarsi o meno su di loro, imboccare o meno il sentiero che aprono al pensiero, all’immaginazione, sbirciare o meno nello spiraglio che aprono, lasciarsi avvolgere o meno dall’incanto, o dalla minaccia, che ne promana. Ma anche niente. Constatare che ci sono, basta. O ancora meno. Non fermarsi nemmeno un attimo su niente e andare semplicemente avanti. Tanto qualcosa che ti sorprende arriverà da solo, se dovrà arrivare. A volte non c’è nemmeno bisogno di dargli un nome. A volte già il riconoscimento basta. Percepisci qualcosa, lo riconosci, o ti sembra di riconoscerlo, e lo adatti a una forma che sai, cerchi il suo nome. Onda. Schiuma. Airone in volo. Canto del merlo. Verso della taccola. Ontano. Rosa canina. Profumo di acacia. Gelso. Sambuco. Rovo. Spina. Muro. Solco. Fragola selvatica. Uva turca. Vento. Già la nominazione colma.
Si capisce la gioia di Adamo nell’attribuire un nome. Ma forse ancora maggiore è stata quella di Eva, nel ripeterlo e confermarlo.
“Cane!”, disse Adamo esultando.
“Sì, cane”, ha ribadito Eva. Ed è stata la sua conferma, la sua ripetizione, a far essere ciò che era stato nominato. E a dare realtà al nome stesso.
“Albero! Serpente! Mela! Cielo!”
“Albero, serpente, mela”, ha ripetuto Eva, con un cenno di assenso, allungando la mano per cogliere il frutto più vicino.
E sarà che era ancora un po’ affannata, o che il gesto di assenso del capo abbia prodotto spontaneamente un suono, o che a produrlo sia stato il piccolo sforzo di allungare la mano verso il ramo carico di frutti: “Sì, mela”, è sfuggito dalle labbra di Eva, mentre sorrideva a sua volta. E quel suono è stato “Sì”. E secondo me è stato proprio così che è nato il linguaggio. Sì.

Camminare è pensare con i piedi. Pensare con i piedi in genere gode di pessima fama. Lo si dice spregiativamente di qualcosa che non tiene, abborracciato, rozzo, progettato male (fatto con i piedi ha la stessa connotazione, a parte certi sport).
Se però partiamo dall’assunto che ogni gesto, percezione o sensazione che, per piccoli che siano, nel farsi esperienza sono già pensiero, conoscenza, allora poco è paragonabile al pensare con i piedi…
Uno che cammina è uno che pensa alla lettera con i piedi: la testa segue, come pure il resto del corpo, e mai il pensiero è così saldo e capace di elevarsi. Non scende mai, e sale senza tema di perdere l’equilibrio e di cadere. Pensare con i piedi è una delle cose più originarie e migliori che uno possa fare.

A volte camminando ci si annoia. È raro ma capita. L’estasi non è moneta corrente. Ma credo che non ci si debba per questo affannare a scacciare la noia. Meglio accoglierla, lasciare che ci pervada, che prenda possesso di noi anche a rischio di schiantarci. A parte che, tanto, prima o poi volente o nolente ti cattura, e fa quel che le pare… Anche la noia può essere un’opportunità. Come è noto, la noia spoglia le cose dei loro abiti e scopi e belletti, e le mostra mostra in tutta la loro nudità, che può essere anche molto sgradevole: nella loro cruda nudità, dice chi le spregia (le cose e la nudità), cosa che io non condivido. Come dubito che ci sia una pura, cruda o cotta, nudità. Ma sia. È da quelle parti che conduce la noia. Toglie i veli. Azzera le illusioni (a parte l’illusione dell’azzeramento). Fa piazza pulita, tabula rasa. Ma una volta terminata questa operazione igienica, una volta spazzato via tutto, non è vero che non resta niente: restano la piazza, la tavola, e proprio da lì si può (ri)cominciare.

Altre volte ti accorgi di aver percorso un buon tratto di strada senza aver notato niente, come di ritorno da una lontananza in cui ignoravi di esserti inoltrato, o di essere già nei pressi del luogo dove pensavi di arrivare senza ricordare di aver percorso un tragitto così lungo, portato solo dai tuoi passi, leggeri, incorporei, come se il tempo si fosse tirato in disparte, cancellato, o ristretto, condensato, ma senza peso. Che è il contrario della percezione dell’istante, di quell’esser presenti a se stessi e al mondo momento dopo momento che talvolta il camminare produce, e che anzi molti cercano espressamente, alcuni addirittura adottando tecniche specifiche di “meditazione camminata”, alla ricerca di qualche fugace accesso all’incanto, che poi con gli anni acquisirà lo statuto di illuminazione. Di satori! Perché no? Può anche capitare di incapparvi, a volte. Magari per autosuggestione. A qualcuno può bastare.

 Cominci a camminare e prima o poi incappi nel misticismo e nel lirismo (stavo per scrivere “cadi”). Fusione, afflato, trasporto, empatia, pienezza, vuoto, serenità, quiete, quella roba lì. Cercherò di farne a meno, ma è difficile evitarlo, perché la felicità (come la fatica e il dolore) vi approda sempre, in un modo o nell’altro, per poco o tanto che sia. È il loro portato, che veicolano non come risultato, ma come loro componente ineliminabile, connaturata. La loro condanna.

Molto bene. E ora passiamo ad altro.

Può darsi che questo dipenda dal fatto che camminare su due piedi ha a che fare con le origini della nostra specie. E non appena entrano in ballo le origini, è noto, si entra in un terreno minato. Non importa in che misura, sotto che forma o per quanto tempo: quello di cui si può essere certi è che prima o poi il dono arriva. Soprattutto se non c’è urgenza di andare da qualche parte o di fare qualcosa entro un dato termine ravvicinato e pressante. Un po’ di tempo però è sempre necessario, anche se a volte ne basta pochissimo. Ma quello è roba per gli ipersensibili. Gente straordinaria, a modo suo, che nessuno vorrebbe essere però. Il più o il meno, di tempo intendo, sono relativi. Come l’importanza attribuita alla meta. Ma anche al cammino stesso, che non conviene caricare di aspettative. Come tutto, del resto, o quasi.

Una delle frasi che i camminatori ripetono più spesso, soprattutto quelli che scrivono anche, o i chiacchieroni in vena di teorie, è che “più della meta, ciò che conta è il percorso”, o il cammino. Non è vero. Non sempre perlomeno. E senza che questo svilisca il camminare. Che non è mai vile, nonostante a volte si vorrebbe poterne fare a meno. Durante le marce forzate, per esempio. O quando si è stati abbandonati nel deserto o in qualche altro luogo bellissimo, magari, ma inospitale. O per lavoro. La meta conta sempre, fosse pure per via negativa, o implicita; consistesse pure nel non avere una destinazione o uno scopo definito. A volte addirittura conta più del cammino, pur senza pregiudicarne le qualità né la sostanza. In certe occasioni sembra eliderlo, cancellarlo, ridurlo a poco o nulla, ma non è così. Come ci arrivi e quanto ci metti conta sempre, anche se mentre si cammina si può arrivare a dimenticarlo. Ho usato “arrivare” a ragion veduta. Per quanto alcuni insistano nell’immedesimazione, o sul fatto di essere nel puro presente, di essere il puro presente, indistinti da esso, e nell’indistinzione di tutto, dove però ogni cosa conserva la propria singolarità eccetera, camminare è sempre da qui a lì. Un passo e un altro passo. Movimento, spazio prima che tempo. Spazio che domina sul tempo, una volta tanto. Fuori dal tempo, magari, come nell’estasi, come afferma chi l’ha provata, ma nello spazio. Se no si è fermi. E se si è fermi non si cammina.

In rari casi, invece di andare da qualche parte, viene l’impulso di provare a perdersi, a spaesarsi, a essere nello spazio non come in una dimora né come in una prigione, ma come una possibilità e un pericolo. L’una e l’altro insieme. Niente fusione, niente idilli, ritorno all’originario, liberazione, sgravio, eden e compagnia bella. Essere nello spazio come ciò che contiene spazio per ogni cosa e essere e eventualità. Senza orientamento. Prima che orientamento possa darsi. Gioia ma anche noia, vitalità senza termini, e minaccia e angoscia senza sbocco. Anche se in genere per noi, oggi, a parte casi estremi, rarissimi, eccetto che nei film, dove stanno di casa, c’è quasi sempre l’orizzonte rassicurante della reperibilità, la certezza del ritrovamento: dell’oppressione claustrofobica della sorveglianza, del controllo che non lascia margine alla solitudine, e che però, qui, si rovescia in sicurezza, in opzione aperta di salvezza, di dimora. Portiamo la domesticazione con noi. Dentro di noi. La domesticazione, che è sicurezza, ci nutre, ci abita, e ci divora, come un tumore.

Bisogna provare a smantellarla. Viaggiare è un modo. E viaggiare a piedi è il modo migliore. Come dice Nicolas Bouvier, citato da Sylvain Tesson, “Se non si concede al viaggio il diritto di distruggerci un po’, tanto vale restare a casa.”
Niente vieta di farlo. O di tornarci, dopo essere andati via. O di fare una casa del luogo dove ci si ferma.

E poi, la sera, a volte, raccontare.





Questi sono alcuni dei testi che ho letto per preparare questo articolo e che mi sento di consigliare:

-       AA: VV. , Racconti sul camminare,…..
-       Thomas Bernhard, Camminare, trad. it. Giovanna Agabio, Adelphi, 2018
-       David Le Breton, Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza, 2012; trad. it. Cristina Nicosia, edizioni del cammino, 2015
-       David Le Breton, Il mondo a piedi. Elogio della marcia, 2000, trad. it. Ester Dornetti, Feltrinelli, 2001
-       Carlo Sini, Il gioco del silenzio, Mimesis, 2013
-       Marc Lestal, Kin-Hin. Meditare camminando, trad. it. Claudine Turla, Vallardi, 2018
-       Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo, trad. it. Sara Culeddu, Einaudi, 2018
-       Erling Kagge, Il silenzio. Uno spazio dell’anima, trad. it. Maria Teresa Cattaneo, Einaudi, 2017
-       Haruki Murakami, L’arte di correre, trad. it. A Pastore, Einaudi, 2009
-       Davide Sapienza, Camminando, Feltrinelli
-       Sylvain Tesson, Sentieri neri, trad. it. Roberta Ferrara, Sellerio, 2018
-       Rebecca Solnit, Storia del camminare, trad. it. di Gabriella Angrati e Maria Letizia Magini, Ponte alle grazie, 2018
-       Ce ne sono altri, ma non ho voglia di recuperare i dati



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