“Se
non altro, fino alla fine non ho camminato”, vuole che sia il suo epitaffio Haruki
Murakami.
Io
invece non corro mai, ma cammino un paio d’ore tutti i giorni, e l’epitaffio lo
aggiorno periodicamente nella mia testa senza renderlo pubblico, come un
esorcismo a scadenza. E quando cammino a volte prendo appunti. Molti, rispetto
alla mia abituale, sordida (o saggia), avarizia di scrittura. Sono appunti di
ogni genere e misura, che vanno a zonzo come i miei passi, senza uno scopo
preciso. Appunti per niente. Ne metto qui alcuni che hanno a oggetto proprio il
camminare.
Penso
a quelli che camminano perché non hanno un posto dove stare, che attraversano
deserti, scavalcano montagne, aggirano campi minati, territori pericolosi,
inospitali… Poi penso a quelli che vanno a Santiago di Compostela per fare
esperienze, dire che l’hanno fatto, esibire certificati, scattare foto per un
ennesimo nuovissimo reportage, o scrivere diari, corrispondenze per giornali e
riviste, consolazioni o rimpianti per i se stessi futuri… o a quelli come me
che ogni giorno prendono un sentiero e vanno per un paio d’ore senza
destinazione, ma di fatto girando più o meno in tondo ecc. Prima era quasi solo
una necessità, ora, per moltissimi, camminare è un lusso.
E
essendo un lusso, sono sempre più numerosi coloro che se lo vogliono concedere,
come accade per tutti i lussi, mentre in tutti i tempi e i luoghi in cui è
stato o è una necessità, per non dire una costrizione, chiunque, appena
possibile, ha cercato e cerca di evitarlo. Sembra che oggi spostarsi sia un
corollario secondario del camminare, che appare meno come un andare da qua a là
che come un’azione in sé, compiuta e autosufficiente, che si appaga di se
stessa. Una specie di masturbazione, probabilmente più soddisfacente. Oppure
viene vista come un’azione che ha altri scopi, fisici o spirituali, che
comportano movimento senza spostamento (senza un inizio e una meta che
importino), o come uno spostamento subordinato ad altro. Anche i pellegrinaggi,
nei quali la fede è un optional. E se non lo è, non conta lo spostamento ma
l’espiazione, il merito acquisito, la stock option sulla benevolenza della
divinità, che a quanto si dice di queste piaggerie si compiace. A ognuno le sue
consolazioni.
Eppure
questo lusso sui generis ha il pregio di non esaurirsi nell’ostentazione e di
avere tra i suoi possibili effetti un ritorno al necessario, che viene
recuperato nel versante complementare del bisogno, che viene spesso taciuto ma
ne è nondimeno un aspetto fondamentale: non quello della mancanza, che risorge
sempre, ma quello del compimento, che per un po’ lo frena e mostra come proprio
nel suo soddisfacimento risiede la molla dell’esistenza e il modello di tutte
le altre soddisfazioni, cioè la loro perfezione. Le gioie dell’arbitrio e della
gratuità vengono dopo.
Per
questo si è spesso costretti a cercare delle riserve di cosiddetta natura
incontaminata, e anzi ansiosi di farlo, bisognosi e felici, per trovare
finalmente uno spazio di libertà (perché essere liberi si deve), che anzi lì viene offerta, profusa a piene mani, gratis o
quasi, per celare anche a se stessi, semmai lo si sappia (ma non è detto; anzi,
è detto l’opposto), che non la si ha, e che l’opportunità che viene così
offerta, e conquistata restituendo al mittente ciò che si è guadagnato con la
propria servitù, che della servitù non è altro che un momento, e anzi il
momento che la rende più completa, totale, in quanto ne satura e sutura non
solo tutte le eventuali vie di opposizione o solo di fuga, ma anche, mentre si
è convinti di averle imboccate e di giulivamente percorrerle, il pensiero
stesso che esistano, il bisogno stesso di trovarne, dando proprio l’idea di
stare percorrendole esattamente in quel momento…
La
frase di Sant’Agostino citata dal Petrarca nella lettera del Monte Ventoso, che
sbuca sempre quando si toccano questi argomenti, potrebbe essere capovolta e
trasformata in questo modo: “E cercano vanamente gli uomini di conoscere se
stessi e trascurano il mare e i monti, il vasto mondo”.
Invece
a camminare è proprio il mondo che si incontra, specie quando si esce dagli
spazi urbani. Il resto, dicevo, è un beneficio secondario; non fosse che ancora
prima di mettersi in cammino un diverso beneficio c’è già stato: la decisione
di farlo. Di prendersi il tempo per farlo. Di mettersi con il tempo in un
rapporto diverso da quello che guida la routine quotidiana.
A
camminare lungo i tratturi o fuori da ogni strada, nel bosco, per i prati, in
montagna, c’è il vantaggio di non dover prestare attenzione al traffico di
vetture e passanti, di non dover stare sempre sul chi va là per non investire o
essere investito, per evitare chi esce all’improvviso da un portone o da
qualche negozio o ufficio alterato nel bene o nel male da ciò che gli è
successo, o pali o cartelli o crepe o gobbe del marciapiede. Però l’attenzione,
più blanda, sporadica, serve lo stesso, diretta non a ciò che hai davanti o
arriva da fianco, ma a ciò che sta sotto i piedi. Così vedi la materia, la terra,
e il tempo, le stagioni; se il terreno è bagnato o secco, cedevole o duro, regolare
o irregolare, e quanto; se il tappeto erboso o coperto di foglie è regolare, o
se spuntano sassi o ci sono buche, dislivelli improvvisi, ghiaietto scivoloso,
solchi stretti e profondi. Basta uno sguardo ogni tanto, però; poi ti puoi
dedicare al resto, a ciò che sta attorno o che rimugini dentro, contemplativo e
meditativo in alternanza o insieme, in una mescolanza che fa la qualità del tuo
umore. Non è che sei immediatamente aperto al mondo, ma ti rendi accessibile,
che forse è anche meglio.
Senti
odori, suoni lontani, echi, gli uccelli, gli animali, le fronde, l’acqua che
precipita o scorre.
Se sei
in compagnia è più facile parlare. Ma anche stare in silenzio va bene, senza
doversi per forza dire banalità o informazioni utili, stare in silenzio
insieme, senza ansia. E insieme fermarsi, sorpresi quando, a un certo punto,
fuori da una macchia, dall’alto, appare il fiume, o il mare.
Può
darsi allora che all’improvviso, senza alcuna ragione, ti prenda un
insopprimibile impulso a correre e che ti accorga, prima di sentirti un
perfetto cretino, di esserti spinto per qualche centinaio di metri e,
nonostante un po’ di fiatone, di non trovare nessuna valida ragione, ora, per
fermarti. Sentirti solo animale e non esserne affatto dispiaciuto. E così
continui, finché le vecchie gambe diventano molli e il fiato manca, e fermarsi
e respirare, stupito, è solo una gioia pura, dimenticata. E ritrovata per non
averla cercata.
A
volte invece cammino guardandomi attorno a lungo, con grande attenzione, senza
cercare o aspettarmi qualcosa in particolare. Mi stanco presto però.
L’attenzione senza intenzione è faticosa, deludente. Per questo non la coltivo
troppo. In genere cammino guardando la strada (la terra) o il libro davanti a
me, perdendoli presto o tardi di vista (il libro meno), o dando una controllata
con la coda dell’occhio a eventuali ostacoli. Ogni tanto alzo la testa e trovo
il mondo ancora lì. È bello alzare la testa e trovarsi nel mondo.
La mia
attenzione è, di solito, fluttuante, come quella con cui lo psicanalista
difende la propria integrità mentale durante le sedute, ammesso che ne sia
dotato (o afflitto), cercando al contempo una via d’accesso alla mente che si
suppone meno integra dell’analizzato. Non cercare niente, non aspettarsi
niente. Lasciare che i sensi vadano per conto proprio e che si posino, se
proprio capita, su qualsiasi cosa li attragga o si presenti al loro cospetto, e
soffermarsi o meno su di loro, imboccare o meno il sentiero che aprono al
pensiero, all’immaginazione, sbirciare o meno nello spiraglio che aprono,
lasciarsi avvolgere o meno dall’incanto, o dalla minaccia, che ne promana. Ma
anche niente. Constatare che ci sono, basta. O ancora meno. Non fermarsi
nemmeno un attimo su niente e andare semplicemente avanti. Tanto qualcosa che
ti sorprende arriverà da solo, se dovrà arrivare. A volte non c’è nemmeno
bisogno di dargli un nome. A volte già il riconoscimento basta. Percepisci
qualcosa, lo riconosci, o ti sembra di riconoscerlo, e lo adatti a una forma
che sai, cerchi il suo nome. Onda. Schiuma. Airone in volo. Canto del merlo.
Verso della taccola. Ontano. Rosa canina. Profumo di acacia. Gelso. Sambuco.
Rovo. Spina. Muro. Solco. Fragola selvatica. Uva turca. Vento. Già la
nominazione colma.
Si
capisce la gioia di Adamo nell’attribuire un nome. Ma forse ancora maggiore è stata
quella di Eva, nel ripeterlo e confermarlo.
“Cane!”,
disse Adamo esultando.
“Sì,
cane”, ha ribadito Eva. Ed è stata la sua conferma, la sua ripetizione, a far
essere ciò che era stato nominato. E a dare realtà al nome stesso.
“Albero!
Serpente! Mela! Cielo!”
“Albero,
serpente, mela”, ha ripetuto Eva, con un cenno di assenso, allungando la mano
per cogliere il frutto più vicino.
E sarà
che era ancora un po’ affannata, o che il gesto di assenso del capo abbia
prodotto spontaneamente un suono, o che a produrlo sia stato il piccolo sforzo
di allungare la mano verso il ramo carico di frutti: “Sì, mela”, è sfuggito
dalle labbra di Eva, mentre sorrideva a sua volta. E quel suono è stato “Sì”. E
secondo me è stato proprio così che è nato il linguaggio. Sì.
Camminare
è pensare con i piedi. Pensare con i piedi in genere gode di pessima fama. Lo
si dice spregiativamente di qualcosa che non tiene, abborracciato, rozzo,
progettato male (fatto con i piedi ha la stessa connotazione, a parte certi
sport).
Se
però partiamo dall’assunto che ogni gesto, percezione o sensazione che, per
piccoli che siano, nel farsi esperienza sono già pensiero, conoscenza, allora
poco è paragonabile al pensare con i piedi…
Uno
che cammina è uno che pensa alla lettera con i piedi: la testa segue, come pure
il resto del corpo, e mai il pensiero è così saldo e capace di elevarsi. Non
scende mai, e sale senza tema di perdere l’equilibrio e di cadere. Pensare con
i piedi è una delle cose più originarie e migliori che uno possa fare.
A
volte camminando ci si annoia. È raro ma capita. L’estasi non è moneta
corrente. Ma credo che non ci si debba per questo affannare a scacciare la noia.
Meglio accoglierla, lasciare che ci pervada, che prenda possesso di noi anche a
rischio di schiantarci. A parte che, tanto, prima o poi volente o nolente ti cattura,
e fa quel che le pare… Anche la noia può essere un’opportunità. Come è noto, la
noia spoglia le cose dei loro abiti e scopi e belletti, e le mostra mostra in
tutta la loro nudità, che può essere anche molto sgradevole: nella loro cruda
nudità, dice chi le spregia (le cose e la nudità), cosa che io non condivido.
Come dubito che ci sia una pura, cruda o cotta, nudità. Ma sia. È da quelle
parti che conduce la noia. Toglie i veli. Azzera le illusioni (a parte
l’illusione dell’azzeramento). Fa piazza pulita, tabula rasa. Ma una volta
terminata questa operazione igienica, una volta spazzato via tutto, non è vero
che non resta niente: restano la piazza, la tavola, e proprio da lì si può
(ri)cominciare.
Altre
volte ti accorgi di aver percorso un buon tratto di strada senza aver notato
niente, come di ritorno da una lontananza in cui ignoravi di esserti inoltrato,
o di essere già nei pressi del luogo dove pensavi di arrivare senza ricordare
di aver percorso un tragitto così lungo, portato solo dai tuoi passi, leggeri,
incorporei, come se il tempo si fosse tirato in disparte, cancellato, o
ristretto, condensato, ma senza peso. Che è il contrario della percezione
dell’istante, di quell’esser presenti a se stessi e al mondo momento dopo
momento che talvolta il camminare produce, e che anzi molti cercano
espressamente, alcuni addirittura adottando tecniche specifiche di “meditazione
camminata”, alla ricerca di qualche fugace accesso all’incanto, che poi con gli
anni acquisirà lo statuto di illuminazione. Di satori! Perché no? Può anche capitare
di incapparvi, a volte. Magari per autosuggestione. A qualcuno può bastare.
Cominci
a camminare e prima o poi incappi nel misticismo e nel lirismo (stavo per
scrivere “cadi”). Fusione, afflato, trasporto, empatia, pienezza, vuoto,
serenità, quiete, quella roba lì. Cercherò di farne a meno, ma è difficile
evitarlo, perché la felicità (come la fatica e il dolore) vi approda sempre, in
un modo o nell’altro, per poco o tanto che sia. È il loro portato, che
veicolano non come risultato, ma come loro componente ineliminabile,
connaturata. La loro condanna.
Molto
bene. E ora passiamo ad altro.
Può
darsi che questo dipenda dal fatto che camminare su due piedi ha a che fare con
le origini della nostra specie. E non appena entrano in ballo le origini, è
noto, si entra in un terreno minato. Non importa in che misura, sotto che forma
o per quanto tempo: quello di cui si può essere certi è che prima o poi il dono
arriva. Soprattutto se non c’è urgenza di andare da qualche parte o di fare
qualcosa entro un dato termine ravvicinato e pressante. Un po’ di tempo però è
sempre necessario, anche se a volte ne basta pochissimo. Ma quello è roba per
gli ipersensibili. Gente straordinaria, a modo suo, che nessuno vorrebbe essere
però. Il più o il meno, di tempo intendo, sono relativi. Come l’importanza
attribuita alla meta. Ma anche al cammino stesso, che non conviene caricare di
aspettative. Come tutto, del resto, o quasi.
Una
delle frasi che i camminatori ripetono più spesso, soprattutto quelli che
scrivono anche, o i chiacchieroni in vena di teorie, è che “più della meta, ciò
che conta è il percorso”, o il cammino. Non è vero. Non sempre perlomeno. E
senza che questo svilisca il camminare. Che non è mai vile, nonostante a volte
si vorrebbe poterne fare a meno. Durante le marce forzate, per esempio. O
quando si è stati abbandonati nel deserto o in qualche altro luogo bellissimo,
magari, ma inospitale. O per lavoro. La meta conta sempre, fosse pure per via
negativa, o implicita; consistesse pure nel non avere una destinazione o uno
scopo definito. A volte addirittura conta più del cammino, pur senza
pregiudicarne le qualità né la sostanza. In certe occasioni sembra eliderlo, cancellarlo,
ridurlo a poco o nulla, ma non è così. Come ci arrivi e quanto ci metti conta
sempre, anche se mentre si cammina si può arrivare a dimenticarlo. Ho usato
“arrivare” a ragion veduta. Per quanto alcuni insistano nell’immedesimazione, o
sul fatto di essere nel puro presente, di essere il puro presente, indistinti
da esso, e nell’indistinzione di tutto, dove però ogni cosa conserva la propria
singolarità eccetera, camminare è sempre da qui a lì. Un passo e un altro
passo. Movimento, spazio prima che tempo. Spazio che domina sul tempo, una
volta tanto. Fuori dal tempo, magari, come nell’estasi, come afferma chi l’ha
provata, ma nello spazio. Se no si è fermi. E se si è fermi non si cammina.
In
rari casi, invece di andare da qualche parte, viene l’impulso di provare a
perdersi, a spaesarsi, a essere nello spazio non come in una dimora né come in
una prigione, ma come una possibilità e un pericolo. L’una e l’altro insieme.
Niente fusione, niente idilli, ritorno all’originario, liberazione, sgravio,
eden e compagnia bella. Essere nello spazio come ciò che contiene spazio per
ogni cosa e essere e eventualità. Senza orientamento. Prima che orientamento
possa darsi. Gioia ma anche noia, vitalità senza termini, e minaccia e angoscia
senza sbocco. Anche se in genere per noi, oggi, a parte casi estremi,
rarissimi, eccetto che nei film, dove stanno di casa, c’è quasi sempre
l’orizzonte rassicurante della reperibilità, la certezza del ritrovamento:
dell’oppressione claustrofobica della sorveglianza, del controllo che non
lascia margine alla solitudine, e che però, qui, si rovescia in sicurezza, in
opzione aperta di salvezza, di dimora. Portiamo la domesticazione con noi.
Dentro di noi. La domesticazione, che è sicurezza, ci nutre, ci abita, e ci
divora, come un tumore.
Bisogna
provare a smantellarla. Viaggiare è un modo. E viaggiare a piedi è il modo
migliore. Come dice Nicolas Bouvier, citato da Sylvain Tesson, “Se non si
concede al viaggio il diritto di distruggerci un po’, tanto vale restare a
casa.”
Niente
vieta di farlo. O di tornarci, dopo essere andati via. O di fare una casa del
luogo dove ci si ferma.
E poi,
la sera, a volte, raccontare.
Questi
sono alcuni dei testi che ho letto per preparare questo articolo e che mi sento
di consigliare:
-
AA: VV.
, Racconti sul camminare,…..
-
Thomas
Bernhard, Camminare, trad. it.
Giovanna Agabio, Adelphi, 2018
-
David
Le Breton, Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza,
2012; trad. it. Cristina Nicosia, edizioni del cammino, 2015
-
David
Le Breton, Il mondo a piedi. Elogio della
marcia, 2000, trad. it. Ester Dornetti, Feltrinelli, 2001
-
Carlo
Sini, Il gioco del silenzio, Mimesis,
2013
-
Marc Lestal, Kin-Hin. Meditare camminando, trad. it. Claudine Turla, Vallardi,
2018
-
Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo, trad. it. Sara Culeddu, Einaudi, 2018
-
Erling Kagge, Il silenzio. Uno spazio dell’anima, trad. it. Maria Teresa
Cattaneo, Einaudi, 2017
-
Haruki
Murakami, L’arte di correre, trad.
it. A Pastore, Einaudi, 2009
-
Davide
Sapienza, Camminando, Feltrinelli
-
Sylvain
Tesson, Sentieri neri, trad. it. Roberta
Ferrara, Sellerio, 2018
-
Rebecca
Solnit, Storia del camminare, trad. it. di
Gabriella Angrati e Maria Letizia Magini, Ponte alle grazie, 2018
-
Ce ne sono altri, ma non ho voglia di
recuperare i dati
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