08/02/19

Viaggiatori di medio e corto raggio


(da un romanzo abbandonato)

Una mia amica non voleva mai andare da nessuna parte. Qualsiasi posto a più di cento chilometri, per lei apparteneva già a una diversa galassia. Niente la attraeva tanto da farle superare il fastidio, la fatica e l’ansia di andare in agenzia, fare le valigie, prendere l’aereo o il treno, che invece usava volentieri per gli spostamenti contenuti o indispensabili in ragione dell’odio che provava per l’uso dell’auto per più di mezz’oretta. E anche quelli… Se vedeva dei servizi televisivi su paesi lontani non trovava mai niente che fosse più allettante di ciò che aveva a portata di mano; i reportage fotografici, quando se ne imbatteva su una rivista, li saltava a piè pari; i documentari la annoiavano profondamente, a meno che non riguardassero animali, e quando l’immagine di un luogo per qualche ragione riusciva a colpirla, bastava quella a esaurire la sua curiosità. In compenso sopportava sempre meno il luogo dove abitava e progettava periodicamente di cambiare casa, nel raggio di qualche chilometro però.


Un altro mio amico non aveva niente contro i viaggi e gli spostamenti in genere, e anzi li affrontava abbastanza spesso, per piacere oltre che per lavoro. Era un uomo colto, sicuro e quasi dispotico nei rapporti personali, attraente e amato dalle donne, che per di più guadagnava molto bene e poteva permettersi tutte le comodità (e difatti se le permetteva). Guidare gli piaceva e aveva auto potenti. Inoltre, quando i figli sono cresciuti, aveva acquistato per loro una casa al mare, ma in Liguria, a meno di due ore di autostrada dalla bella villa che si era fatto costruire al suo paese, e col tempo aveva imparato ad andarci anche lui, con amici e amanti. Era anche appassionato di civiltà e culture lontane nel tempo e nello spazio, tanto che si era subito procurato uno dei primi televisori a schermo gigante per potersi meglio gustare i documentari di un canale ad essi riservato che non passava giorno senza guardare, anche a notte fonda, al ritorno dalle sue scorribande. Avrebbe potuto visitare quei luoghi meravigliosi ogni volta che lo avesse desiderato, anche perché, oltre al danaro, disponeva di tutto il tempo che voleva, essendo un libero professionista con uno studio avviato e assistenti fidati a cui delegare il lavoro. Tuttavia non ci andava mai, perché non riusciva a dormire più di due notti lontano da casa, e comunque sempre con la prospettiva aperta di poter tornare al suo letto velocemente, se all’improvviso l’ansia di raggiungerlo lo avesse colto, come regolarmente capitava (senza contare che aveva paura di volare). Quando ha cercato di forzare questa regola, non è stato nemmeno in grado di fermarsi la prima notte, perché quanta più distanza metteva tra sé e casa, tanto più impellente si rivelava il bisogno di tornarci. Ragion per cui la distanza massima che si concedeva era quella che poteva percorrere in macchina, tra andata visita e ritorno, in non più di trentasei-quarantott’ore, e tanto aveva imparato a farsi bastare.


La maggior parte dei miei conoscenti invece, prima di partire aveva già sognato la meta del viaggio. Quasi sempre, a determinarla era qualche forma di conoscenza indiretta, mentre a volte bastava una parola, una foto, il racconto di un amico. Sempre però ne avevano immaginato certi dettagli salienti: una piazza, il colore delle notti, l’ansa di un fiume, un affresco, una via con i tetti verticali, e di solito si erano documentati su cataloghi, leggendo guide o reportage o guardando servizi o documentari.
Poi, giunti sul posto, chiusi nei villaggi turistici o intruppati su torpedoni o in lunghe file durante le quali la principale occupazione era consolidare i legami vecchi e nuovi, e al massimo indicare qualcosa di sfuggita accompagnando il gesto con un’esclamazione o qualche frase di stampo culturale preparata in precedenza, non hanno visto niente, o hanno trovato solo conferme, che poi è lo stesso. Al ritorno dicevano siamo stati qui e là, e i più colti enumeravano i nomi di qualche luogo o monumento, rispondendo alle domande generiche degli interlocutori con frasi altrettanto generiche.
Quando ancora non mi ero rinchiuso in casa ma già non viaggiavo più, a volte millantavo di essere appena tornato da qualche luogo prestigioso. I presenti mi chiedevano: e com’è?, e io mi limitavo a rispondere: ah, bellissimo. Se poi qualcuno insisteva chiedendomi se avevo visto questo o quello, dicevo che sì, naturalmente. Meraviglioso eh?, ribattevano. Davvero splendido, confermavo. E ci lasciavamo tutti soddisfatti.



Nelle fotografie che li mostrano con amici dei posti in cui vivono o che visitano, o con gente rimasta intrappolata nell’immagine che si fa i fatti suoi o guarda con benevolenza, o solo curiosità, quelli che stanno per essere ritratti, mi viene da considerare amici e famigliari come degli agrimensori dell’accoglienza del mondo. (Quando sono sereno immagino che il mondo sia capace anche di questo: in un certo senso, non fa altro.) Senza che lo sappiano, o quantomeno senza che lo cerchino espressamente, ogni loro spostamento verifica le capacità e le modalità di accoglienza dello spazio e degli uomini, e non intendo solo le differenti leggi dell’ospitalità, interessata quando si tratta di turisti, quanto piuttosto la porosità e malleabilità dei luoghi, la generosità di chi vede un altro venirgli incontro, occupare i suoi spazi e stabilirsi presso di lui, la capacità di riconoscimento, e di riconoscenza, anche verso colui che non porta niente e anzi, talvolta, non fa che chiedere. E mi commuovo. E come sono capace di commuovermi! E quanto mi commuovo pensando a questa mia capacità! Perché allora sembra che anch’io partecipi a questa accoglienza e la dispensi, anche si mi è difficile stabilire a chi e a cosa la offro. Eppure, alla debole luce della mia cucina, qualcuno mi sembra di riconoscerlo. Segregato nel mausoleo della mia casa, qualcuno sono certo di ringraziarlo.


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