“L’orrore
di vedere un uomo là dove si poteva contemplare un cavallo!”: anche qualora non avessi già ammirato Emile M. Cioran, sarebbe bastata questa fase a conquistarmi per sempre. La si può trovare nell’ultimo tra i libri dello scrittore
francese (dico francese anche se Cioran è nato e vissuto in Romania, fino al
1937, perché, come dice egli stesso, “non si abita un pese, si abita una
lingua. Una patria è questo, e niente altro”) che da qualche anno Adelphi sta
traducendo con regolarità: Il demiurgo
cattivo, una raccolta organica di saggi e aforismi che però non intendo
recensire.
Penso
infatti che recensirei libri di Cioran, soprattutto se li ama, sia l’ultima
cosa che un critico dovrebbe fare. Perché se è vero, come egli scrive di
Ceronetti nel recentissimo Exercises d’admiration
(Gallimard, 1986), che “di tutti gli esseri, i meno insopportabili sono quelli
che odiano gli uomini”, è anche vero che propagandare la misantropia,
accomunando in un legame affettuoso uomini che odiano gli uomini, è un
controsenso. Un misantropo da solo, o che legge gli scritti di un altro suo
simile, va benissimo infatti; a due insieme, che magari si consolano a vicenda,
si comincia già a pensare con un sorriso; ma esortare i misantropi di tutto il
mondo a unirsi è una farsa patetica, e basta. E nessuno che di farse sia spesso
vittima o protagonista va a cercarsene di spontanea volontà una razione
supplementare. Se non per riderne. Per raddoppiare la farsa con l’assurdo. Ma a
che pro, allora? La denuncia è più ridicola del suo oggetto.
E’ vero
altresì che etichettare Cioran semplicemente come un misantropo sarebbe
limitare eccessivamente la portata del suo odio, tanto onnivoro da non
risparmiare niente e nessuno (dalla creatura alla creazione tutta al creatore,
il demiurgo cattivo, appunto), nemmeno se stesso quindi, passione indebita e da
rifiutarsi al pari di ogni altra.
Come
riassumere le ricchissime ramificazioni, sfumature e reazioni a cui tale odio
dà luogo, così è impossibile sintetizzarne i fondamenti senza ricadere in
quelle formule che un’antichissima evidenza ha ormai trasformato, quando
generali, in banalità, e che solo a forza di estrema tensione di stile Cioran
torna a far vivere e fruttificare. Basti dire che egli è uno gnostico senza
aldilà, e quindi non “innocente” né destinato alla “salvezza”, e che la
conoscenza non è per lui il segno e la via verso la liberazione come per gli
gnostici antichi (sui quali si veda il bellissimo Sulle tracce della Gnosi, di H. C. Peuch, Adelphi, p. 614, £
65.000), semmai una condanna aggiuntiva di cui non può più disfarsi: assoluta
lucidità che non lascia spazio a nessuna speranza come a nessun rimpianto
L’unica
liberazione a cui può aspirare, salvo poi restare “infelici per sempre”, è quella dai desideri e dalle illusioni, che è
solo raggiungibile attraverso “l’io della visione disingannata”, diventando uno
spirito “contemplativo” e vincendo la “triplice fatalità” di essere sé (“l’io,
questa lebbra”), di essere vivo e di essere uomo, delle tre la peggiore. Liberazione
che comunque Cioran sa essergli, eccetto rari momenti, costituzionalmente
preclusa, e che anzi non manca di suscitargli sospetti: non solo infatti
afferma che “giocare agli spiriti puri rasenta l’indecenza”, ma anche che “la disillusione
è l’equilibrio del vinto”.
Se non
tutti, gran parte dei suoi testi si muovono quindi nello spazio che si apre tra
la consapevolezza, orgogliosa e insieme orrifica, di appartenere agli “spiriti
agitati”, di essere cioè un uomo (“il punto nero della creazione”), e il
desiderio, o addirittura la necessità della contemplazione, che pure ha i suoi
lati orrifici. Il fatto stesso di dibattersi in questa alternativa indica che
Cioran è inchiodato per sempre al primo polo; il fatto che tenda al secondo ci
dice però che non ne è completamente prigioniero. E allo stesso modo l’orgoglio
che prova per il primo polo, che pure disprezza, non ne fa un acquiescente,
così come l’orrore che prova per il secondo, che pure agogna, non ne fa un
idealista o un teorico della fuga.
Si
potrebbe pensare che questa resta comunque una contraddizione, e forse lo è, ma
Cioran, per fortuna, di contraddizioni è ricco, né egli cerca di conciliarle o
di smussarle; al contrario le assume esplicitamente portandole tutte al limite
di tolleranza, per sfondarle: dove vuole arrivare infatti è al di là; e tutte
le porte che consentono di accedervi non sono che una sola, a dispetto della
diversità delle vie che vi conducono. “Trovare che tutto è privo di fondamento
e non farla finita, non è un’incoerenza: spinta all’estremo, la percezione del
vuoto coincide con la percezione del tutto, con l’ingresso nel tutto. (…) Se c’è una possibilità di salvezza fuori
dalla fede, si deve cercarla nella facoltà di arricchirsi al contatto con l’irrealtà.”
Un
misantropo come Cioran può essere solo un vizioso della metropoli, uno che ha
bisogno di quella stessa gente che lo soffoca, che la ama quanto più gli offre
il destro di odiarla; uno che vive del furore che l’inferno della vita gli
suscita, tanto che difficilmente si potrebbe immaginarlo in un mondo in cui i
suoi desideri e le sue prescrizioni fossero completamente adempiuti. Si
sparerebbe al solo vederlo profilarsi. Ormai dovrebbe prendersela solo con se
stesso: e come resistere?
In fin
dei conti non dice anche che proprio lì il demiurgo cattivo, la causa di tutti
i nostri mali, è tra tutti gli dei “il solo da cui ci ripugna separarci”?
Il fatto
è che Cioran non è né vuole essere un filosofo: di questi non possiede l’imperativo
né della coerenza né della sistematicità, e soprattutto non condivide né il
modello argomentativo né il lessico tecnico e scolastico, gravissimo “crimine
di leso-linguaggio”. E se talvolta sembra filosofare, lo fa “come se la ‘filosofia’
non esistesse, alla maniera di un troglodita abbagliato, o sbigottito, dalla
sfilata di flagelli che si svolgono sotto i suoi occhi.” Non è un filosofo
perché sa, e può, parlare solo di ciò che lo concerne personalmente, anche se
poi, a ben vedere, tutto lo concerne. Il furore del coinvolgimento e del
rifiuto, tuttavia, anziché condurlo all’ipertrofia dell’io, finisce con l’instaurare,
proprio perché estremizzato, un discorso tendenzialmente impersonale: il
discorso del moralista, che dalla propria persona pensa di poter prescindere o
astrarsi.
E Cioran
è appunto un moralista straordinario che, se scrive per provocare e ha l’indignazione
come fonte primaria di ispirazione, non se ne lascia però mai imprigionare, e
anzi riesce sempre ad approdare, pur mantenendone intatta la carica, a una
prosa tanto lucida e variegata da avere oggi pochi eguali. Ciò che dice forse
non ci basta, né siamo tenuti ad approvarlo, ma mentre lo dice, cioè mentre lo
leggiamo, non possiamo fare a meno, di volta in volta divertiti sorpresi o
illuminati, di entusiasmarcene.
Emile M.
Cioran, Il demiurgo cattivo (Adelphi,
1986, p. 161, £ 10.000)
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